Panorama

Rivelazioni - Rapporti dello spionaggio sovietico

Hitler era un fan dei gialli, ma solo Stalin lo sapeva

Pubblicato per la prima volta il dossier che i servizi segreti sovietici confezionarono per il dittatore. Ne emerge un ritratto sorprendente. Rivelato dai più stretti collaboratori del Führer.

di Giorgio Fabre

Hitler si rosicchiava le unghie, si «grattava le orecchie e la nuca fino a farle sanguinare». E più avanti: «Hitler diede l'ordine di mantenere a 12 gradi la temperatura nella sua stanza. Credeva che temperature basse avessero un effetto benefico su di lui. Chi partecipava alle riunioni sulla situazione militare lasciava spesso la stanza per il freddo, per andarsi a scaldare da qualche altra parte». Il capo nazista è nel suo quartier generale, la «Trincea del lupo» vicino a Rastenburg, e ha già conosciuto la disfatta di Stalingrado. Ancora dà ordini imperiosi, ma il suo declino fisico è iniziato. È un uomo pubblico, eppure nessuno ne ha parlato in dettaglio e in maniera così ampia come il testimone che racconta questi particolari. E si capisce, è Heinz Unge, ufficiale delle Ss, dal 1935 al servizio personale di Hitler e dal 1939 capo del suo stato personale, in pratica suo domestico. Eppure, non è il testimone il personaggio più notevole di questa vicenda, bensì il lettore. La cosa più singolare è infatti che queste righe sono state scritte per una persona sola che, unica, ha avuto per molti anni il diritto di conoscerle: Stalin. Lui volle il lungo e appassionante documento che ora viene tradotto in Italia dalla Utet col titolo Il dossier Hitler; e solo Stalin ebbe il diritto di vedere l'unica copia, che lesse e sottolineò e poi rimase sepolta nei suoi archivi. Stalin aveva voluto sapere tutto su Hitler fin da subito. Come i curatori Henrik Eberle e Matthias Uhl rico­struiscono in un'interessante post­fazione, il capo sovietico pretese dai suoi servizi segreti anche un immediato e dettagliato resoconto sulla morte del Führer nel bunker sotto la Cancelleria a Berlino, il 30 aprile 1945. E fu accontentato a tamburo battente con molti rapporti segreti. Però qualche problema era rimasto. Su Hitler, infatti, i servizi sovietici (erano almeno tre) avevano ricostruito due differenti versioni della morte. Secondo la prima, s'era ucciso avvelenandosi (e avvelenando Eva Braun); secondo l'altra, aveva ingerito il cianuro e poi s'era sparato con una pistola. La doppia versione, venuta a conoscenza degli alleati inglesi e americani, aveva creato molta perplessità. Intanto, aveva alimentato i dubbi sul fatto che Hitler fosse davvero morto. In secondo luogo, il mito di Hitler era ancora in piedi e le due morti avevano un valore diverso: quella con la pistola, più virile, poteva alimentare quel mito; nell'altro caso, si trattava di una fine meno gloriosa che avrebbe potuto essere sfruttata dalla propaganda sovietica. Il racconto dunque andava approfondito: e alla fine risultò che si era sparato. Infine, c'era il desiderio di Stalin di co­noscere quello che per anni era stato l'arcinemico, la micidiale controparte, ma anche l'uomo con cui nell'agosto-settembre 1939 aveva stretto una controversa allean­za, nota come patto Molotov-­Ribbentrop. Tutto questo co­strinse il servizio segreto civile, l'Nkvd, diventato Mvd, a ripercorrere tutta la «questione Hitler». Fu un lavoro che durò molti anni e si concluse, tra il 1948 e il 1949, con la stesura del rapporto. Finita la guerra, l'Nkvd aveva a disposizione gli uomini più vicini a Hitler, tra cui Linge, Hans Baur, pilota personale, Otto Günsche, aiutante e capo della scorta, tutti prigionieri dei sovietici. Con le buone e soprattutto con «mezzi di persuasione» come percosse, minacce di arresto di familiari e privazione dello status di prigionieri e l'attribuzione di quello di criminali di guerra, fu­rono tutti convinti a raccontare com'era stato davvero il capo del Terzo Reich. Linge e Günsche divennero i testimoni determinanti del dossier. Che alla fine, il 29 dicembre 1949, arrivò nelle mani di Stalin. Al «piccolo padre» dell'Urss interes­sò soprattutto un dettaglio: i rapporti del Führer  con i propri collaboratori e con i gruppi dirigenti nazisti; forse, propongono i due curatori dell'opera, pensava ai propri. In ogni caso si trovò a leggere un quadro veramente completo e, per molti versi, attendibile della vicenda di Hitler. Comprendeva, per esempio, la sua attività sessuale (scarsa anche con Eva Braun: «Una vita di rinuncia» è il commento del rapporto). Si parlava della continua assunzione di medicine, tra cui gli oppiacei. In qualche caso vennero ricostruite riunioni segrete su cui esiste solo questa testimonianza. In altri, come le sue reazioni dopo la fuga di Rudolph Hess in Scozia nel maggio 1941, si chiariscono i dubbi rimasti: Hitler non sapeva niente del viaggio. Poi ci sono pettegolezzi, episodi inediti, curiosità: i soldi in quantità da stordire che gli giravano intorno, la passione per i romanzi polizieschi, che condusse un suo dipendente in campo di concentramento per averla rivelata a estranei. Edda Ciano, figlia di Benito Mussolini, raccontava Hitler e i suoi uomini riferirono a Stalin, sarebbe stata «intrattenuta» durante le sue visite in Germania da «ufficiali delle Ss particolarmente vigorosi». Il segretario Martin Bormann viene invece descritto come un uomo servile e autoritario, disposto anche a costringere la moglie a un viaggio di 200 chilometri in piena notte per avere una camicia pulita. Infine i dettagli tragici ed epocali. O, viceversa, le lacune strabilianti. La questione dei campi di concentramento, per esempio: Linge, Günsche e gli altri testimoni riferirono infatti dei lager ma, sembrerebbe, solo di quelli per i russi. Invece non si parla mai di ebrei né di sterminio. In proposito Eberle e Uhl propongono una tesi: che nel 1948-49 era incominciata anche in Urss una persecuzione contro gli ebrei e i servizi sovietici, per cautela, evitarono di fare riferimento alla Shoah. È possibile. Ed è, oltre che moralmente terribile, un peccato dal punto di vista storico.


Scomunicare i nazisti? Troppo rischioso

La Chiesa era divisa. Pio XII contava sulla diplomazia a costo di apparire «codardo»

di Pier Mario Fasanotti

Una guerra dei nervi fu quella tra il Vaticano e Adolf Hitler. Una certa storiografia ipotizza un Pio XII in stato di soggezione verso il Führer, quindi inevitabile sottoscrittore della politica antisemita della Germania. Peter Godman. già docente all'Università di Tubinga e ora alla Sapienza di Roma, ha esaminato le carte segrete vaticane. Nel libro Hitler e il Vaticano (Lin­dau editore, 357 pagine, 27 euro) ricostruisce la posizione della Chiesa, per nulla monolitica, semmai altalenante nelle prese di posizione dinanzi al diavolo tedesco. La linea seguita da Pacelli fu «la saggezza»: per evitare la guerra contro la Chiesa e i cristiani in Europa, per allontanare il rischio di pericolose spaccature tra italiani. E per non sottovalutare lo spettro del bolscevismo. La cautela non portò a una condanna di Hitler, né alla sua scomunica. Ma dietro le quinte Pio XII muoveva pedine diplomatiche, smentendo una certa «codardia pubblica». Godman ci fa sapere che la condanna era già stata preparata dal Sant'Uffizio alla fine del '36 (al soglio c'era Pio XI). Ma non uscì da Roma. Il Vaticano ben sapeva che i vescovi tedeschi non avevano la stoffa di eroi. E poi c'era il potente vescovo Alois Hudal (austriaco), noto per le sue invettive contro gli ebrei e per aver poi descritto Pacelli come «il papa di Hitler». Il pontefice lo tenne sempre lontano da sé.

Da Panorama, 8 dicembre 2005, per gentile concessione.

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