Panorama
Dibattito
La
fine del capo del fascismo
Il
Duce in
tribunale?
Gli storici si dividono
Mussolini
mise in conto la possibilità di essere giudicato. Pensando
di difendersi grazie ai documenti segreti. Come accade
ai dittatori di oggi, da Saddam a Milosevic, a Pinochet.
di
Pasquale Chessa
Benito
Mussolini per primo, nel raccontare la sua sulla caduta del fascismo in Storia
di un anno, mise nel conto la probabilità di un processo al Duce: si
immaginò sul banco degli imputati nella grandiosa cornice del Madison Square
Garden di New York. Un po' come oggi succede con i dittatori contemporanei,
Saddam Hussein e Slobadan Milosevic o Augusto Pinochet. Infatti Mussolini,
sebbene protetto dalle baionette tedesche, pensava a un processo vero,
consapevole di poter dare battaglia fidando non solo sulle sue doti oratorie
ma soprattutto sulla forza dei documenti conservati nelle due borse che portava
ancora con sé quando fu catturato dai partigiani di Pier Bellini delle Stelle
sulla strada per Dongo. Al di là di ogni giudizio etico e politico, le raffiche
di Giulino di Mezzegra hanno sottratto alla storia il punto di vista del
dittatore sui nodi controversi ancora irrisolti della sua vicenda politica e
umana. Da allora, infatti, intorno alla figura di Mussolini, tanto da vivo
quanto da morto, si è venuta costituendo una sorta di romanzo popolare fatto
di rivelazioni storiche e scoop giornalistici, memoriali segreti e diari
improbabili, falsi testamenti e documenti apocrifi. Una doppia vulgata
politica, da destra e da sinistra, ha contrapposto tutti i passaggi cruciali
del tempo, dalla guerra civile alla Liberazione, da Piazzale Loreto alla resa
dei conti. Così opposte versioni storiografiche si sono radicate
nell'immaginario collettivo, incomunicabili fra loro, perché fondate su
antitetici miti ideologici con i quali ancora ci troviamo a fare i conti. In
particolare il giudizio sulla ineluttabilità della fine di Mussolini e il
rammarico
per il mancato processo sono il crinale fra due visioni ideologiche, politiche e
morali radicate nella coscienza del Paese. Gli esiti perversi della amnistia
firmata da Palmiro Togliatti nel 1946, l'insufficiente epurazione dei fascisti,
la mancata Norimberga italiana, le sentenze straordinariamente favorevoli ai
vertici di Salò, da Junio Valerio Borghese a Rodolfo Graziani, hanno finito
per legittimare l'idea politicamente positiva della resa dei conti con i
fascisti.
Come ha scritto Sergio Luzzatto nel Corpo del Duce (Einaudi), un
libro di 7 anni fa, ma considerato già un classico della nuova storiografia
antifascista: «Intorno al cadavere di Mussolini sono stati elaborati due
discorsi speculari e concorrenti sul fascismo e sulla guerra civile: l'uno
laicamente impietoso con i carnefici d'Italia, l'altro cristianamente
incline al perdono del dittatore e dei suoi numerosi seguaci». «Sì. un
processo sarebbe stato più giusto»: la risposta di Massimo D'Alema alla
domanda di Bruno Vespa scompagina l'opinione prevalente dell'antifascismo che,
fin dall'immediato dopoguerra, ha giustificato la giustizia sommaria
esercitata da Valerio come una necessità politica, dolorosa e riprovevole per
molti, ma pur sempre necessaria. Con grande lucidità, D'Alema si esercita in
un difficile esperimento di storia controfattuale, una storia dove è molto
importante scegliere bene i se. Gianfranco Fini, nella sua risposta, assegna
alla storia il ruolo di deus ex machina. Nella controreplica, Silvio Berlusconi
rimette al centro la questione comunista, azzardando un impietoso paragone fra
Mussolini e Bettino Craxi. Infatti, oltre a chiedersi se un processo a
Mussolini sarebbe stato compatibile con l'aria del tempo, bisogna capire,
sulla base dei documenti storiografici esistenti, come e dove si sarebbe
svolto, con quali capi di imputazione, giudici, testimoni, avvocati. E
soprattutto quali conseguenze avrebbero avuto. Spiega lo storico Giovanni
Sabbatucci, professore alla Sapienza
e autore di una autorevole Storia d'Italia
(Laterza): «Per quanto possa sembrare
ipocrita, un processo con un giudice e un avvocato, seppure viziato da un
inevitabile deficit di legittimità, è comunque cosa migliore della giustizia
sommaria. E non solo da un punto di vista storiografico. Sono però dell'idea
che un processo a Mussolini sarebbe stato non poco imbarazzante in un’Italia
ancora percorsa dai tragici postumi della guerra civile». E ancora più
imbarazzante
sarebbe stato per gli inglesi. La storia del carteggio segreto fra Winston
Churchill e Mussolini, al di là della sua fondatezza, è il sintomo del ruolo
decisivo che gli inglesi avrebbero avuto nel destino ultimo del Duce. Giuseppe
Parlato, allievo di Renzo De Felice, così argomenta: «L'esecuzione sommaria di Mussollini era inevitabile. Così come va
considerata la resa dei conti una conseguenza diretta della guerra. Nella realtà,
non c'era altro modo per evitare, o piuttosto per scongiurare la transizione
dal fascismo all'antifascismo nel segno della continuità. L'altra strada si
è rivelata impraticabile: fare i processi significava storicizzare
l'impatto del fascismo sulla società italiana, per costruire poi un nuovo
modello
di società. Credo che affidare la vicenda di Mussolini al giudizio di un
tribunale avrebbe scatenato quel processo virtuoso di rigenerazione politica
che è mancato al Paese». Il mestiere dello storico controfattuale deve
basarsi su solidi pilastri storiografici per interpretare la verità recondita
delle cose. Il problema dei crimini di guerra si era già posto ai tempi della
pace di Versailles dove si consolidava la nuova geografia dell'Europa scaturita dalle tragedie della Prima guerra mondiale. E qualcuno aveva proposto di mettere sotto processo il
Kaiser. La questione della legittimità dei tribunali è ancora irrisolta come
rivela la linea difensiva dei due dittatori oggi sotto processo, da Slobodan
Milosevic a Saddam Hussein. A Norimberga la classe dirigente nazista fu
processata non solo per «crimini di guerra» ma anche per «crimini contro
l'umanità». In quale categoria sarebbero state rubricate le colpe di
Mussolini? Secondo Sabbatucci «non bisogna pensare al processo allestito contro
il vertice della classe dirigente nazista a Norimberga per capire cosa avrebbe
significato processare il dittatore italiano. Penso invece al processo di
Tokyo. In Giappone, come capirono subito gli americani, bisognava sottrarre al
giudizio la figura dell'imperatore, l'unica figura che avrebbe potuto
garantire l'unità del paese. Al momento della cattura di Mussolini, al
vertice dell'Italia del Sud che si contrapponeva all’Italia di Salò c'era
ancora il re, lo stesso Vittorio Emanuele che del fascismo era stato il
primo complice fino al 1943». Per Parlato, che sta per pubblicare dal Mulino
un saggio sulle origini «segrete» del neofascismo in Italia, il quadro
storico appare più realistico, se si interpreta il 25 aprile come la replica
di quanto è successo nell'Italia liberata del
Centro-Sud: «I servizi segreti inglesi e americani giocano la partita del
dopoguerra italiano nell'imminenza della guerra fredda. Ecco così James
Angleton dell'Oss, lo spionaggio americano da cui sarebbe nata la Cia, dare
spazio ai fascisti clandestini in funzione anticomunista. E infatti sarà
proprio lo stesso Angleton a salire al Nord per mettere in salvo il comandante
Junio Valerio Borghese. Seguendo la stessa strategia sarà il capitano dello
stato maggiore americano di origini abruzzesi, Emilio D'Addario, a salvare
il generale Rodolfo Graziani». «Controfattuale non vuoi dire fantasioso»
premette lo storico Gian Enrico Rusconi, politologo all'Università di
Torino, che alla storia fatta con i se ha dedicato un rigoroso saggio sulla
Prima
guerra mondiale da poco edito col Mulino: «Per capire come sarebbe stato il
processo a Mussolini non abbiamo elementi specifici per costruire una nuova
interpretazione. Sappiamo che gli inglesi volevano gestire il dopoguerra da
grande potenza. Come gli inglesi intendessero processare il Duce non sappiamo.
Capisco che sarebbe stato giusto farlo parlare, ma non mi sembra che il
Mussolini che scappa da Milano la sera del 25 aprile sia nelle condizioni
psicologiche di accettare tale sfida. Al contrario sembra allo stremo sul
piano intellettuale. Per non parlare del clima dell'epoca: oltre che guerra
civile fu una guerra di civiltà. Non possiamo proiettare sul passato la
mentalità di oggi: non riesco a immaginare un processo a Mussolini. L'idea
che la storia dell'Italia sarebbe stata migliore se si fosse celebrato un processo a Mussolini è irrealistica».
«La
procedura investe la legittimità della Resistenza»
Luciano
Canfora, massimo studioso italiano di filologia classica, si è dedicato a
risolvere i misteri della storia contemporanea con lo stesso spirito con cui gli
antichisti risolvono i dilemmi del passato remoto. Nel suo ultimo libro, Il
papiro di Dongo, pubblicato da Adelphi alla fine di ottobre, seguendo le
vicende di Goffredo Coppola, grande studioso dell'antichità del Ventennio, si
trova a confrontarsi con la fine di Mussolini: Coppola, acceso antisemita,
razzista militante, uomo dei nazisti, in quanto presidente dell'Istituto di
cultura fascista di Salò, sarà infatti uno dei 16 gerarchi fucilati dai
partigiani di Valerio (Walter Audisio), anzi il primo della lista.
Canfora, il processo a
Mussolini, in luogo dell'esecuzione sommaria, fu un atto mancato della
Resistenza, come sostiene oggi Massimo D'Alema?
Bisogna partire dalla
constatazione che a Dongo viene giustiziato un gruppo di vertice di Salò, come
scrive l'Osservatore romano due giorni dopo, che si tratta di «membri
del governo repubblicano», «du gouvernement neo-fasciste» come scrive Le
Monde. Si tratta del governo che non si è arreso. La procedura, infatti,
investe la legittimità stessa della Resistenza.
Da dove nasce la necessità
politica e militare di una scelta così drastica?
Mussolini
rifiuta la resa la sera del 25 aprile, dopo l'incontro in arcivescovado con il
cardinale Schuster. Ci sono Riccardo Lombardi, Emilio Sereni: Sandro Pertini
arriva in ritardo e si incontrano per le scale. «Arrendersi o perire» aveva
concordemente proclamato il Cln dell'Alta Italia. «Perire», verbo
ottocentesco, ha un chiaro significato sul quale concorda tutto il vertice del
Cln dell'Alta Italia, da Longo a Marazza, da Valiani a Sereni, autorizzato dal
comandante in capo dell’esercito partigiano, il generale Raffaele Cadorna,
il più vicino al re lontano, ma presente.
Qual
era la posta
in gioco, nel processo?
L'uso
che Mussolini avrebbe potuto fare di tutta la trattativa che aveva intessuto
con Winston Churchill fin dal 1939. All'Italia in bilico fra pace o guerra
vengono offerti come contropartita dagli inglesi territori e colonie francesi.
La simpatia che Churchill ha sempre provato per Mussolini, anche dopo l'entrata
in guerra, è un dato di fatto che autorizza a fondate congetture sull'idea
che gli alleati avrebbero avuto bisogno dei fascisti per difendere il confine
orientale dal pericolo comunista. Renzo De Felice aveva ragione quando, in Rosso
e nero nel '95 e già prima, 1985, in un articolo su Stampa sera, descriveva
la Rsi come il crocevia dello spionaggio bellico, e la stessa guerra come un
conflitto fra servizi segreti. A oggi, i documenti non ci dicono come gli
inglesi abbiano forzato la mano per evitare il processo al Duce. Certo non
dispiacque loro la soluzione di Valerio.
(P. C.)
L'arrivo
a Milano, la fuga e la cattura: gli ultimi giorni del fondatore del Pnf
16 APRILE 1945 |
Al termine di un incontro con i tedeschi nel
quartiere generale di Gargnano, Mussolini decide il trasferimento del governo
della Repubblica sociale italiana a Milano, nella sede della prefettura. |
18 APRILE |
Mussolini arriva a Milano dove rimarrà fino alla
sera del 25. Durante la settimana riceve diverse persone che gli propongono di
fuggire. Intanto prepara la sua difesa personale che fa leva su una serie di
dossier compromettenti raccolti in tanti anni di governo. |
25 APRILE |
Dopo una riunione nell'arcivescovado di Milano, dove
incontra i rappresentanti del Comitato di liberazione nazionale, Mussolini fugge
verso Corno per incontrare un misterioso emissario di Winston Churchill. Ha
con sé una cartella con documenti importanti. |
26 APRILE |
Mussolini decide di partire per la Svizzera ma viene bloccato dal tenente tedesco
Birzer, che ha ricevuto l'ordine di portarlo in Germania. Diversi tentativi di
fuga vengono bloccati dagli uomini di Birzer. |
27 APRILE |
Mussolini parte per Menaggio con la scorta ma sulla strada verso Dongo l'autocolonna
viene bloccata dai partigiani. Nel frattempo viene catturata anche Claretta
Petacci. |
28 APRILE
|
Il colonnello Valerio, del Comitato di liberazione
nazionale, preleva Mussolini e Claretta
Setacci da una casa di contadini. La macchina
parte da Giulino di Mezzegra e
si arresta davanti al cancello di villa Belmonte, dove il Duce e l'amante
vengono fucilati. Unici testimoni: l'autista e due partigiani. |
29 APRILE
|
Diversi cadaveri, tra i quali quelli di Mussolini e Petacci, vengono scaricati sul piazzale Loreto di Milano. La folla inferocita si avventa sui corpi che vengono colpiti con calci e sputi. Una donna scarica sul cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola. |
Da Panorama, 10 novembre 2005, per gentile concessione.