Panorama
Anticipazioni
Il nuovo libro di Bruno Vespa
Massimo
D'Alema rompe un tabù dell'antifascismo: «Sarebbe stato più giusto processare
Mussolini». Nell'analisi di uno dei capitoli più sanguinosi della storia
italiana le radici dell'odio fra ieri e oggi. Con gli interventi di Berlusconi,
Fini e Fassino.
È
nel confronto tra storia e attualità che il nuovo libro di Bruno Vespa, in
libreria martedì 8 novembre, trova il suo perno narrativo. Vespa costringe il
presente a fare continuamente i conti col passato e nel passato trova le
radici del tempo che stiamo vivendo. Riesce così a raccontare, in un quadro
storico completo, anche le vicende più recenti della cronaca politica: dalla
vittoria di Romano Prodi alle primarie alla sconfitta di Marco Follini,
passando per la battaglia intorno ai pacs alla guerra della Lega per la
devoluzione. Vincitori e vinti (Mondadori, 588 pagine, 18 euro) propone,
fin dal titolo, una contrapposizione fra italiani che ha caratterizzato
l'intera storia nazionale, a cominciare dal Risorgimento. Più impegnativa la
scelta di Vespa di periodizzare la sua storia partendo dalla vergogna
dell'antisemitismo italiano per individuare il filo che lega «Le stagioni
dell'odio. Dalle leggi razziali a Prodi e Berlusconi», come dice il
sottotitolo. Da un capitolo cruciale sul dramma della guerra civile Panorama
ha scelto le pagine in cui si discute un capitolo di storia controfattuale: si
poteva evitare la fucilazione di Benito Mussolini? Si sarebbe potuto fare il processo
al Duce? Ecco
la
coraggiosa risposta di
Massimo D'Alema e le controrisposte di Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi.
Segue il
dibattito con gli storici.
di
Bruno Vespa
Graziani
e Borghese si salvarono perché erano militari e non gerarchi. Tra i gerarchi
di più alto livello restarono vivi soltanto Dino Grandi e Giuseppe Bottai. Il
primo, artefice della caduta di Mussolini, brillante diplomatico amico degli
inglesi
(che lo avrebbero preferito a Badoglio, evitando forse il tragico pasticcio
dell'8 settembre), fuggì all'estero e scampò alla
condanna a morte
emessa contro di lui al processo di Verona. Il secondo, intellettuale amato
dagli intellettuali, ma in fondo anima dura del regime anche al tempo delle
leggi razziali, pagò il conto arruolandosi nel 1944 nella Legione straniera e
combattendo i tedeschi in Francia e in Germania. Tutti gli altri finirono male.
Il primo fu Galeazzo Ciano, fucilato 1’11 gennaio 1944 a Verona con
l'ottantenne quadrumviro Emilio De Bono e altri tre membri (minori) del
Gran consiglio che avevano votato con lui l'ordine del giorno contro Mussolini
presentato da Grandi. Il Duce visse un dramma familiare, stretto tra la moglie
Rachele che voleva morto il genero («È Bruto che pugnalò Cesare») e la
figlia Edda che voleva vivo il marito. (...) Il confessore di Ciano, don
Giuseppe Chiot, non trasmise al Duce l'anatema che il genero gli aveva lanciato
avviandosi al patibolo: «Verrà presto anche l'ora di Mussolini».
Passarono infatti soltanto 15 mesi tra la morte dell'uno e quella dell'altro.
Il pomeriggio del 25 aprile Mussolini aveva rifiutato di consegnarsi nello
studio dell'arcivescovo di Milano, Schuster, a una delegazione del Cln
composta dal generale Raffaele Cadorna, dal democristiano Achille Marazza e
dal socialista Riccardo Lombardi. Lasciò Milano per Como, dove tentò di unirsi
nella fuga ai tedeschi. La mattina del 27 aprile 1945, mentre la radio
annunciava l'insurrezione di Milano, a Dongo la colonna tedesca che ospitava il
Duce, Claretta Petacci e alcuni gerarchi fu intercettata da un gruppo di
partigiani. Nonostante indossasse un pastrano militare e un elmetto, Mussolini
fu subito identificato, grazie al profilo inconfondibile. Consegnò il mitra e
la pistola e si rassegnò a seguire i partigiani. Leo Valiani disse a Massimo
Pini (Sessant'anni di avventure e battaglie) che l'esecuzione
istantanea del Duce fu decisa al telefono da lui, Pertini, Sereni e Longo. Il
generale Cadorna non si oppose e firmò il lasciapassare per due partigiani,
Walter Audisio e Aldo Lampredi, incaricati di andare a prendere il Duce. Il
capitano D'Addario, che aveva salvato Graziani e Borghese, arrivò tardi. «Il
comportamento del colonnello Valerio (nome di battaglia di Audisio») scrivono Montanelli e Cervi «fu contrassegnato - una volta raggiunta Dongo
- da una volontà fanatica, isterica e feroce di far presto, anticipare i
possibili
salvatori. Condannare, fucilare, vendicare. Con Bellini delle Stelle (il
partigiano che aveva catturato Mussolini) che tentò di muovere
obiezioni e di opporsi a quelle sommarie e sanguinarie procedure, Walter
Audisio si comportò, più che da superiore, da bravaccio intimidatore». Mussollni e la Petacci, che volle ostinatamente
seguirlo, trascorsero il 27 aprile la loro prima notte insieme. Alla donna, che forse lo ha amato di più, il Duce aveva concesso soltanto
fugaci momenti di intimità. Non si ha certezza di quel che accadde il
pomeriggio del 28 aprile, all'infuori ovviamente del tragico epilogo. Audisio ha
cambiato ripetutamente la versione del racconto e non si sa quale sia quella
giusta. L'ultima è questa: il colonnello Valerio, Lampredi e un altro
partigiano del posto, Michele Moretti, portarono la coppia davanti al cancello
di villa Belmonte di Giulino di Mezzegra (Corno), a poca distanza dalla
cascina che l'aveva ospitata. Ai due sarebbe stato detto che la loro
liberazione era imminente, come usa quando si vuole rendere agevole il trasporto
di un ostaggio. Valerio raccontò di aver abbattuto prima il Duce con cinque
colpi e poi la Petacci. Secondo altre fonti, a sparare sarebbe stato
Lampredi o Moretti. Fantasiosa l'ipotesi di Luigi Longo o di un ufficiale
inglese interessato a recuperare il famoso (e compromettente) epistolario del
Duce con Churchill, che l'aveva a lungo corteggiato. Dall'esecuzione di Claretta
si dissociarono quasi tutti i capi partigiani. «La sua uccisione» mi
dice Massimo D’Alema «fa parte di quegli episodi che possono accadere nella
ferocia della guerra civile, ma che non possiamo considerare accettabili.
Quello scontro feroce conobbe atti di barbarie da una parte e dall'altra, e
quindi anche l'esecuzione della Petacci va collocata in quel clima. Oggi, a
due persone che ne parlano in poltrona, appare incomprensibile». E Mussolini?
Sarebbe stato più giusto giudicarlo in un processo come quello di Norimberga?
«Sì, un processo sarebbe stato più giusto. Al di là dell'accertamento
delle responsabilità individuali, un processo al Duce come quello di
Norimberga avrebbe consentito anche di ricostruire un pezzo della storia
italiana». Perché non fu fatta questa scelta? «Ci fu il timore che quel
processo non ci sarebbe mai stato, che gli Alleati avessero intenzioni diverse».
«Non ha senso riaprire questa pagina
che si presta soltanto a un revisionismo storico
strumentale» osserva Piero Fassino. «La guerra ha le sue logiche spietate.
Non si può dimenticare quanti partigiani sono stati torturati, fucilati,
morti nei campi di sterminio. A quelli nessuno ha fatto il processo». Ho
chiesto a Fini e a Berlusconi di commentare l'apertura di D'Alema a una
riflessione non scontata. Il ministro degli Esteri mi risponde come fa sempre
quando su alcuni aspetti del fascismo ha deciso di non compiere una svolta: «Lasciamo
la storia agli storici». Il presidente del Consiglio, invece, è d'accordo con
il presidente dei Ds, ma allarga la polemica all'attualità politica: «La
risposta di D'Alema mi sorprende perché il partito e la sinistra comunista
in genere hanno sempre esaltato l'omicidio di Mussolini e la barbara
esposizione del suo cadavere a piazzale Loreto. Meno male che hanno cambiato
idea. Ma non mi rassicura sul fatto che comunisti, ex comunisti, postcomunisti,
neocomunisti siano davvero cambiati. Il loro costume è sempre lo stesso:
riconoscono di aver commesso un errore, anche se talvolta non si tratta di
errori ma di infamie, solo dopo decenni, quando non ne possono fare a meno. Ma
intanto continuano a commettere sia errori sia infamie. Un esempio fra i tanti.
Per tutti gli anni Novanta hanno linciato Bettino Craxi, fino alla sua morte
in esilio. Oggi, pensando di ottenerne vantaggi elettorali, Fassino inserisce
Craxi tra i padri del socialismo italiano e aggiunge che, tra Craxi e
Berlinguer, aveva torto quest'ultimo e ragione il primo. Peccato che tutto
questo sia l'esatto contrario di quello che hanno predicato quando Craxi era
ancora un protagonista della politica. Non mi stupirei se, tra dieci o
vent'anni, riabilitassero anche Berlusconi». In ogni caso, bisogna dare atto a
D'Alema di una revisione intelligente e coraggiosa di un episodio cruciale della
storia italiana. Mussolini fu ucciso alle 16.10 di sabato 28 aprile. Un'ora e
mezzo più tardi venivano fucilati nel cortile del municipio di Dongo altri
15 gerarchi catturati nella colonna di Mussolini. (...) I corpi del Duce, di
Claretta e dei fucilati di Dongo si dettero un macabro appuntamento ad Azzano
(Como), i cadaveri della coppia raggiunsero gli altri su un camion agli
ordini di Audisio e proseguirono insieme per Milano, dove furono appesi a testa
in giù al distributore di benzina che aveva ospitato un anno prima i
cadaveri di 15 partigiani vittime delle Brigate nere. Ecco il crudo racconto
di Carlo Mazzantini nel libro autobiografico L'ultimo repubblichino: «Tornare a Milano sul tavolato di un camion che, strada facendo, andava
sgocciolando sangue e altra porcheria, ammucchiati gli uni sugli altri... E
finire, dopo essere stati spisciati e sputacchiati e presi a calci in faccia,
appesi per i piedi al trave della pompa di benzina di piazzale Loreto... C'era
anche lei, la Claretta, fedele fino alla morte e al ludibrio di quella
esposizione, lei che non c'entrava un cazzo, con una spilla da balia che le
reggeva
la veste in mezzo alle cosce, offerta da un candido frate per coprirle le
pudende,
non avendo avuto nemmeno il tempo di infilarsi le mutande per la fretta dei
prodi che venivano a fare giustizia in nome del popolo italiano, ma non per
impedire a una signora della Milano bene di esclamare: "Però due belle
gambette aveva!". Dice che Ferruccio Parri, un galantuomo, stie antico,
anima
bella, idealista, abbia bollato inorridito quella scena conclusiva come una
"macelleria messicana" ». (...) Chiedo a Massimo D'Alema se non sia
arrivato il momento di parificare, pur limitandoci alle intenzioni soggettive,
lo slancio di tanti giovani che presero le armi per liberare il Paese
dall'invasore e quello di tanti giovani che le presero per opporsi a ciò
che in buona fede consideravano il tradimento del patto con la Germania. «La
buona fede è fuori discussione. Al di là della pietà per chi è morto e il
riconoscimento della buona fede di chi ha dato la vita per una causa, non c'è
dubbio che una delle due fazioni stesse dalla parte sbagliata. Se avesse
prevalso, le conseguenze sarebbero state aberranti. Non possiamo dimenticarlo
e metterci una pietra sopra. La Repubblica di Salò è stata l'alleato italiano
del nazismo. Dall’altra parte c'erano forze che, pur con i loro errori, hanno
costruito la democrazia italiana».
Da Panorama, 10 novembre 2005, per gentile concessione.