Un profilo di Primo Levi

Primo Levi è sopravvissuto due volte. Scampato alla morte certa che era il destino di tutti nel campo di sterminio di Auschwitz, egli si è anche sottratto, con la viva forza del suo scrivere, alla dimenticanza che la disattenzione colpevole del mondo occidentale avrebbe voluto riservare ad un capitolo tanto oscuro della sua storia. Morto suicida nel 1987, per il cordoglio dei più ma anche nell'imbarazzo di molti che furono allora costretti nuovamente apprestare attenzione alla sua vicenda, seppure con i toni degli inevitabili "coccodrilli" in cronaca, Levi torna oggi ad essere discusso e ricordato grazie, sorprendentemente, ad un film. Si tratta de "La Tregua", ispirato al libro omonimo dello scrittore torinese e diretto da Francesco Rosi e, non a caso, presentato in prima mondiale contestualmente a un documentario italiano sui campi nazisti che porta un titolo emblematico: "Memoria". Un progetto, quello de "La Tregua", al quale Rosi si era appassionato fin dalla prima edizione del libro, nel 1963, e del quale aveva poi parlato con Levi stesso proprio nel 1987, poco prima della tragica scomparsa dello scrittore. Celebre soprattutto per il libro "Se questo è un uomo", senza dubbio la testimonianza più nota sull'Olocausto insieme al "Diario" di Anna Frank, Levi racconta né "La Tregua" non più l'esistenza nei campi di sterminio, ma la vicenda del ritorno alla vita di un gruppo di scampati al genocidio, ebrei, zingari, omosessuali, ex prigionieri politici. Un racconto che, pur nello sconforto terribile di un viaggio che attraversa la terra desolata che era l'Europa intera dopo il secondo conflitto mondiale, sembra in qualche modo restituire significato al desiderio di sopravvivere e all'impegno di lottare. E combattente Levi lo era stato, prima che prigioniero. Nato a Torino nel 1919, laureato in chimica, nell'estate del 1943 Levi si unisce a una banda di partigiani, smentendo ancora una volta il pregiudizio che vuole gli ebrei imbelli e rassegnati al proprio destino. Come egli stesso ebbe a dire nel romanzo "Se non ora quando", "a Varsavia gli ebrei armati hanno resistito ai tedeschi più a lungo dell'Armata Rossa nel '41. E non erano neppure bene armati, e avevano fame, e combattevano in mezzo ai morti, e non avevano alleati". Catturato e deportato ad Auschwitz nel 1944, e miracolosamente sopravvissuto fino all'arrivo delle truppe sovietiche, nel gennaio dell'anno successivo, Levi lasciò una testimonianza valida anche da un punto di vista teologico. A questo proposito, rappresentano una delle testimonianze più drammatiche sul martirio del popolo ebraico le sue conversazioni con un altro ex deportato, Elie Wiesel, oggi celebre per la tenace determinazione con la quale perseguì, e spesso realizzò, l'individuazione e la cattura di criminali nazisti sfuggiti agli alleati. Discutendo delle conseguenze a lungo termine della Shoah, Wiesel sostenne che non avrebbe potuto esserci un dopo-Auschwitz senza Dio. Per parte sua, Levi si era invece ormai convinto di una realtà ben più amara: che "non può esserci Dio se c'è Auschwitz". Le posizioni rispettive di Levi e Wiesel sono state in seguito lungamente riprese e rappresentano ancora oggi uno dei momenti fondamentali di una nuova etica, il cosiddetto "pensare dopo Auschwitz", evolutosi a partire dalla domanda fondamentale posta dall'esistenza del male assoluto. La Shoah, nelle parole di Johann B. Metz, ha in qualche modo fatto "ricominciare" la teologia. Negli anni che hanno fatto seguito alla sua esperienza nei campi, le opere di Levi si sono affermate tra le più alte e coraggiose del Novecento italiano ed europeo. Con i libri ispirati alla sua formazione di chimico, in particolare "Il sistema periodico" e "La chiave a stella", Levi è stato il primo autore italiano - nonché uno dei pochissimi - a celebrare la poesia della tecnica, l'orgoglio del mestiere e della precisione. Gli altri testi, più direttamente legati alla sua identità di uomo ed ebreo travolto dalle persecuzioni razziali, hanno saputo raccontare, con una asciuttezza forse ineguagliata, la distruzione operata dalle fabbriche della morte, colpevoli di un tentato genocidio e quasi anche della distruzione di una cultura e di una fede millenaria. "Da bambino ero allievo di un rabbino - racconta Mendel, il personaggio di un suo libro -. Ma adesso sta nella fossa anche lui, e io ho dimenticato quasi tutto. Ricordo solo i proverbi e le favole". Ma se la fede ortodossa ora gli pareva una favola, Levi non rinunciò mai al suo impegno di grande umanista. Perché, nelle parole di un altro gran laico della cultura italiana contemporanea, Pier Paolo Pasolini, "la Carità è il più alto e l'unico autonomo dei sentimenti evangelici: si può dare Carità senza Fede e Speranza, ma senza Carità, Fede e Speranza possono anche essere mostruose". E Levi, privato di speranza e fede, ebbe fino in fondo il coraggio dell'unica virtù necessaria, prendendo su di sé - con grande pacatezza e sobrietà - l'onere della testimonianza pure orribile, ma necessaria, del male estremo. Oggi Francesco Rosi si è in un certo senso impegnato a fare lo stesso. Nel corso di riprese realizzate in un clima polare (nella zona dei Carpazi, dove Rosi ha ricostruito Auschwitz, la troupe ha affrontato temperature medie di -30' e punte di + 30': un dato spaventoso se si pensa alle migliaia di persone che vi erano state ammassate tra il 1940 e il 1945), su linee ferroviarie appositamente messe a disposizione di tecnici, attori e regista, il film inizia nel lager per raccontare poi la lunga marcia affrontata dai deportati liberati dall'Armata Rossa per tornare ciascuno al proprio paese e alla propria casa, incerti i più se l'uno e l'altra esistessero ancora. E' un viaggio di ritorno in ogni senso. Così come la deportazione e il campo avevano derubato i prigionieri prima della nazionalità - essi non erano più né italiani, né greci, né tedeschi, e in ultima istanza nemmeno ebrei, ma soltanto non-ariani, e indesiderati, tutti e indistintamente -, delle famiglie, e poi via via della dignità, dei sentimenti - sostituiti dalla sola ansia di sopravvivere - fino alla spoliazione ultima, quella dei desideri e del proprio corpo, - "se questo è un uomo", appunto, - così l'itinerario, che riporta indietro i pochi che a tutto questo sono sopravvissuti, è una parabola di segno contrario. Si tratta a tutti gli effetti di un difficile quanto glorioso processo di riconquista di tutto ciò che è umano, fin nelle cose più minute che all'umanità fuori dai campi appaiono tanto naturali: ridere, parlare, sentire se stessi e gli altri. E per meglio esemplificare, nel passaggio dalla materia scritta all'apparato filmico, questo lento recupero, Rosi ha deciso anche di arricchire a suo modo la vicenda, aggiungendo episodi "visivi" che nel libro non ci sono, come ad esempio la sequenza, famosa, dei prigionieri che ballano tra loro. Una tregua, dunque, alla fine della quale il protagonista comincerà, come l'autore ha realmente fatto, a scrivere "Ho imparato che sono un Haftling (prigioniero). Il mio nome è 174 517, il marchio tatuato sul braccio sinistro". Un marchio che è dovere di tutti imprimerci nella memoria, contro l'oblio (che un grande esperto italiano di ebraismo, Paolo De Benedetti, definisce luna delle forme di male più tipica del nostro tempo), la dimenticanza o, peggio, la falsificazione della storia. "La Tregua" ci riporta davanti quei "volti" di cui parlava Norberto Bobbio in un'intervista a La Stampa di qualche anno fa: "Tu sei il loro inconsapevole custode. Sei il responsabile della loro sopravvivenza.

(   ... ) Se lasci svanire quel volto che improvvisamente ti è apparso, è morto per sempre".

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