Note dell'autore di Erich Hartmann |
In passato la parola Dachau
indicava una pittoresca cittadina a pochi minuti di treno da Monaco; per
molto tempo la brughiera circostante è stata un tema prediletto dai pittori
paesaggisti. A partire dal 1933, quando ero adolescente, poco dopo la venuta al
potere dei nazisti in Germania e fino alla fine della guerra nel 1945, Dachau
passò a significare il campo di concentramento che i nazisti avevano costruito
sui campi di patate alla periferia della cittadina. Il suo nome ufficiale era
"Struttura di Lavoro e Rieducazione" ma ben presto cominciarono a
diffondersi le voci, e poi i racconti di testimoni oculari, secondo cui il campo
era un luogo di brutalità, di violenza fortuita e distruzione sistematica.
Dachau era destinato a diventare il primo dei numerosi campi di concentramento
che facevano parte di un sistema meticolosamente programmato e organizzato, con
uno scopo ben definito: eliminare ogni opposizione politica al regime nazista
servendosi del terrore, usare tutti i prigionieri in buona salute come lavoro
forzato per l'industria tedesca fino a quando venivano uccisi perché consumati
dalla fame e dalla fatica e, infine, distruggere lo spirito e il corpo di ogni
uomo, donna e bambino che le leggi razziali di un autoproclamata "razza
superiore" avevano decretato indegni di vita, tra cui omosessuali, zingari,
membri di sette cristiane, handicappati fisici e mentali. E, naturalmente, tutti
gli ebrei. Non ho mai dimenticato il mio primo incontro con Dachau, avvenuto
molto presto. Avevo avuto un piccolo incidente cadendo dalla bicicletta e
entrando nella sala d'aspetto di una clinica nelle vicinanze, vi trovai due
uomini, uno in piedi, l'altro seduto sul bordo di una panca. Quello in piedi
indossava la divisa nera, gli stivali e il distintivo del teschio delle SS;
l'altro aveva il pigiama azzurro-grigio e gli zoccoli di legno dei detenuti di
Dachau. La testa era rasata e il viso scavato mostrava il segno di lividi.
Entrambi rimasero in silenzio. Non so perché si trovavano lì. L'uomo delle SS
guardava il giardino primaverile; il prigioniero rivolgeva lo sguardo a terra
oppure ogni tanto anche lui alzava gli occhi per guardare fuori. I loro sguardi
non si incrociavano. Solo una volta l'uomo delle SS mi guardò, senza interesse.
Nei suoi occhi vidi quella calma che nasce dal possesso di un potere fisico
totale. Il mio sguardo e quello del prigioniero non si incrociarono ma nei suoi
occhi vidi un vuoto che non avevo mai visto prima - la sua faccia era del tutto
priva di espressione. Vidi l'assenza di ogni aspettativa o speranza: il suo
volto esprimeva il nulla. Presto venne il mio turno e mi fasciarono il
ginocchio; quando uscii i due uomini non erano più nella stanza. Non li rividi
mai più, ma ancora oggi sarei in grado di riconoscere il prigioniero. Avevo
sentito usare la frase "raggelare il sangue"; ora sapevo cosa
significava. Durante quell'incontro, per la prima volta in vita mia, provai una
vera sensazione di paura e di terrore. Capii non solo con il cervello, ma fin
dentro le viscere, cos'era diventata per mano dei nazisti la Germania in cui
vivevo e che amavo: "un gelido inferno", come la definì un superstite
di Dachau. Per qualche minuto, persino in quell' ambiente igienico e asettico,
compresi cosa significava essere prigioniero delle SS e solo in seguito capii di
aver visto i due volti della Germania nazista, i due volti della morte: quella
del carnefice e quella della vittima. I nazisti stavano trasformando il
tradizionale e tormentato romanticismo tedesco, che aveva prodotto grande arte e
letteratura, in un culto della morte che scatenò sui loro nemici, e alla fine
anche su loro stessi, un' orgia omicida sistematica e barbarica. La morte diventò
lo strumento principale del "Reich millenario" e la sua pesante eredità
fino ai giorni nostri. Da allora ho vissuto per più di cinquant'anni negli
Stati Uniti. Non sono mai riuscito a spiegarmi perché mio padre non finì in un
campo di concentramento. Come molti altri deportati, era un ebreo del ceto medio
che aveva successo nel suo lavoro, era stato tutta la vita un socialdemocratico,
sebbene non attivo, ed era conosciuto e rispettato all'interno della comunità.
Forse fu risparmiato perché aveva combattuto nell' esercito tedesco durante la
prima guerra mondiale ed era stato decorato per gli anni trascorsi nelle trincee
in Francia - almeno all'inizio, i nazisti sembravano rispettare i patrioti,
persino se ebrei. Ma se mia madre non avesse avuto parenti generosi in America
in grado di aiutare l'intera famiglia (genitori, due ragazzi e una bambina) a
fuggire dalla Germania nell' estate del 1938, nessuno di noi sarebbe riuscito ad
evitare i campi ancora per molto. I nostri parenti e molti amici che non
poterono andarsene, o non vollero, non scamparono ai campi e in pochi
sopravvissero. Quando ce ne andammo dalla Germania avevo sedici anni. Fu
doloroso perdere quello che consideravo il mio paese e la mia lingua, e fu
difficile far crescere nuove radici in una nuova casa - almeno, così sembrava
in quel momento. Ma ben presto, man mano che le notizie arrivavano a
intermittenza dall'Europa, cominciammo a capire che avevamo evitato un destino
incredibile persino alla luce delle nostre esperienze tra il 1933 e il 1938: un
governo tedesco legalmente eletto stava trasformando il paese che aveva dato i
natali a grandi filosofi e artisti in uno strumento di terrore sistematico,
brutalità, lavoro da schiavi, torture e omicidi, che travolse come una valanga
milioni di persone innocenti, ebrei e molti altri, in una frenesia distruttiva.
Col passare del tempo furono istituiti più di mille campi e sottocampi, un
immenso e tetro paesaggio di filo spinato che attraversava la Germania e
l'Europa conquistata. Il resto del mondo, non solamente noi ed altri rifugiati
dai nazisti, venne a conoscenza di questi atti molto tempo prima della fine
della guerra; ben presto tutti seppero che la maggior parte dei tedeschi aveva
protestato debolmente e si era adoperata ancor meno per sconfiggere la
seduzione, sempre più violenta, della propria patria e la devastazione di molti
altri paesi europei. In Germania c'è ancora chi dice "non sapevamo cosa
facevano" e la mia risposta è ancora "che strano che non lo sapevate
- noi sapevamo cosa stavano facendo". E' raro invece sentire la
frase "non volevamo sapere cosa facevano". La mattina dopo Pearl
Harbour mi arruolai, ma dovetti aspettare un anno prima di essere accettato
poiché ero ancora uno "straniero nemico", classificato come
"antifascista prematuro". Ma finalmente fui arruolato e trascorsi
nell' esercito degli Stati Uniti tre anni, di cui la maggior parte in Europa (il
solito "Grand Tour": Inghilterra, Francia, Belgio, Germania) e quando
la guerra finì e ne uscimmo vincitori, ritenni di aver ripagato il mio debito
con gli Stati Uniti, il paese che ci aveva accolto e dunque salvato la vita.
Poco dopo il "V-E Day" (il giorno della vittoria in Europa, 1'8 maggio
1945), mentre ero di guarnigione ad Augsburg, visitai il campo di concentramento
di Dachau. Ormai i morti trovati in mucchi per terra dalle truppe alleate erano
stati sepolti e la maggior parte dei baraccamenti erano stati svuotati e rasi al
suolo per impedire l'ulteriore diffusione di malattie. Nell'esposizione
improvvisata per i visitatori, in uno dei baraccamenti rimasti, una divisa da
prigioniero era stata appesa vicino alla porta con un cartello intorno al collo
che diceva "ICH BINWIEDER DA" ("SONO TORNATO"), in memoria
di quei prigionieri che avevano tentato la fuga ed in seguito erano stati
nuovamente catturati e costretti a portare questo cartello nel piazzale dell'
adunata, per poi venir lentamente e sistematicamente picchiati a morte davanti
all'intera popolazione di prigionieri, appositamente radunata. Ricordo di aver
avuto la sensazione che il cartello facesse riferimento anche a me, che ero di
nuovo nel mio luogo di nascita, tornato al sicuro dalla mia nuova casa, messo a
confronto con ciò che era accaduto a persone come me. Allora seppi che la
sensazione di terrore provata alla vista del prigioniero e della guardia delle
SS nella clinica era stata un presagio fedele di un destino che avrebbe potuto
accadere anche a me e non riuscii a spiegarmi come ero scampato. In seguito, per
molto tempo pensai che partecipando alla liberazione dell'Europa avevo anche
aiutato a mettere fine ad ulteriori sofferenze e uccisioni nei campi e che se
avevo un debito con coloro che vi erano stati torturati e assassinati, questo
era stato pagato. Ma a quanto pare, ci sono debiti difficili da saldare. Col
passare del tempo e sempre di più negli ultimi anni, cominciai ad avvertire un
richiamo per tornare in quel che era rimasto dei campi. Non accadeva
improvvisamente né in modo preciso ma piuttosto prendeva la forma di
"messaggi" indefinibili, a volte ambigui e sempre inaspettati, come
quando qualche anno fa mio figlio ed io ci trovammo entrambi a Monaco ciascuno
per motivi di lavoro, un evento raro. Decidemmo di prenderci una breve vacanza
insieme, "ma prima", disse lui, "mostrami il campo di
Dachau". Così, il nostro viaggio iniziò lì. Anche lui, come me,
preferisce la solitudine alle visite guidate, e perciò non ci fu bisogno di
parole o spiegazioni; quando ce ne andammo mi prese sottobraccio e disse
"stavo pensando che avrei potuto perderti proprio lì". Alla fine mi
resi conto che in questo momento, verso la fine della mia attività lavorativa
come fotografo e vicino al cinquantesimo anniversario della liberazione degli
ultimi campi, l'uomo e il fotografo dovevano incontrarsi per far fotografie in
ciò che rimane dei campi, raffigurando quel che c'è ancora da vedere. Durante
altre visite in Europa avevo, saltuariamente e in modo casuale, scattato
fotografie in alcuni campi, ma ora mi proponevo di intraprendere un viaggio
unicamente a questo scopo. Non avevo illusioni; non avrei potuto aggiungere
nulla alla voluminosa documentazione già esistente e sapevo anche che il fatto
di trovarmi nei campi e di fotografarli non avrebbe riportato in vita nessuno, né
avrebbe alleviato la sofferenza dei superstiti. Semplicemente, mi sentivo in
dovere di visitare tutti i campi che potevo raggiungere, per adempiere ad un
dovere che non riuscivo a definire e rendere un omaggio tardivo con gli
strumenti della mia professione. A metà dell'inverno scorso andai nei luoghi
raffigurati in questo libro. Il tempo, quasi sempre nuvoloso e piovoso, era
adatto al mio scopo; spesso il terreno era coperto di neve e a volte di una
fitta nebbia. Le giornate erano brevi e c'era quasi sempre poca luce, persino a
mezzogiorno. Nella grande quiete non si udiva altro che l'abbaiare di cani, lo
scricchiolio delle mie scarpe sul terreno e a volte il battito delle mie
pulsazioni. Anche quando ero accompagnato da mia moglie, il viaggio era compiuto in silenzio; qui le parole non servono.
I visitatori, quando c'erano, erano pochi: si era nella stagione delle feste e
delle vacanze scolastiche. Mi sorprese l'intensità con cui, persino dopo tanti
anni, i campi parevano ancora abitati dagli echi del loro passato cupo e amaro.
Alla fine di ogni giorno trascorso a passeggiare per gli ex campi, non
desideravo altro che andarmene il prima possibile e ogni giorno ero grato di non
essere lì senza scopo, di avere una macchina fotografica senza sentimenti
propri, con cui tentare di esprimere ciò che provavo. Sono convinto che non
sarei sopravvissuto in nessuno di questi campi. Il mio viaggio durò poco più
di otto settimane. In Polonia, dove non eravamo mai stati, ci servimmo di un
autista/ guida/interprete. Per arrivare a Theresienstadt prendemmo il treno di
notte dalla Germania fino a Praga, compiendo il resto del tragitto in macchina.
A volte affittavo un' auto quando ne avevo bisogno. Ogni tanto c'erano giorni di
pace domestica e di riposo, persino di festa. Passammo la sera di Capodanno ad
Amburgo nel tranquillo salotto del nostro piccolo albergo in compagnia di altre
due coppie, presumibilmente anch' esse lontano da casa, assistiti da un cortese
barista con una generosa scorta dei tradizionali "cruller" e di sekt,
lo champagne tedesco. Se c'era la musica, era così sommessa da non dare alcun
disturbo e si parlava poco; ognuno rispettava i pensieri privati degli altri. I
miei erano prevedibili: avevo trascorso il giorno di Natale da solo nella nebbia
fitta e fredda del campo di concentramento di Buchenwald per poi giungere nelle
vicinanze di Bergen Belsen all'imbrunire. In questo momento ero in un luogo di
festa, confortato dalla presenza di una persona cara, ma il giorno dopo saremmo
partiti per i campi di sterminio delle SS in Polonia, progettati per uccidere
gli ebrei, gli zingari e gli omosessuali d'Europa, ma anche per sbarazzarsi, in
seguito, dei milioni di prigionieri di guerra sovietici che l'esercito tedesco
doveva catturare e, più tardi ancora, per svuotare le fertili pianure polacche
e ucraine dei loro abitanti in modo da dare spazio vitale, "Lebensraum",
ai coloni tedeschi, dopo la vittoria della Germania. Mi sentivo riscaldato e
raggelato al contempo, insieme a mio agio e nervoso; era una pausa per
riprendere fiato dopo i tristi ricordi delle settimane passate e l'anticipazione
di quelle a venire. Al nostro ritorno, un mese più tardi, pensavo di aver
sondato il fondo delle barbarie naziste ma non era così; le vere dimensioni e
le enormità della rabbia mortale nazista ci travolsero davanti ad un monumento
commemorativo di Amburgo, poco dopo il nostro ritorno dalla Polonia. Mia moglie,
Ruth Bains Hartmann, così scrisse nel suo diario:
Ogni volta che crediamo di aver guardato nei meandri più profondi della
crudeltà umana, l'abisso ci attende. Dopo tutte le cose orribili che ho visto e
tutti i luoghi della sofferenza inflitta per mano dell'uomo di cui sono stata
testimone, come potevo immaginare qualcosa di peggio? In una zona industriale di
Amburgo c'è un piccolo roseto, non lontano da uno dei numerosi canali della
città. Il giardino ha una forma irregolare e la sua recinzione di legno lo
separa da un lato da una trafficata strada maestra, dall' altro dal giardino di
un asilo dove in una mattina invernale bambini vestiti di colori allegri
sguazzavano felici in gelide pozzanghere finché una maestra li guidò verso
giochi meno pericolosi. Sul lato opposto del giardino dell' asilo c'è la scuola
Bullenhuser Damm, che all' epoca nazista era un sottocampo di Neuengamme, il
campo di concentramento nei pressi di Amburgo, ora ribattezzata Scuola Janusz
Korczak, in memoria del direttore dell' orfanotrofio di Varsavia che morì con i
suoi bambini nelle camere a gas di Treblinka. Pochi giorni prima della fine
della guerra, venti bambini ebrei furono portati alla scuola Bullenhuser Damm
insieme a due medici francesi e due olandesi, i loro custodi, tutti quanti
prigionieri. Nel novembre del 1944 questi bambini, dieci maschi e dieci femmine tra i cinque e i dodici anni
(i nazisti furono sempre metodici),furono trasportati da Auschwitz a Neuengamme, dove vennero sottoposti ad esperimenti
dal medico delle SS Kurt Heissmeyer. Dopo esser stati iniettati con il bacillo della
tubercolosi, i bambini si ammalarono gravemente e le loro ghiandole linfatiche
furono rimosse per analizzarle. La notte del 20
aprile 1945, mentre le truppe britanniche si avvicinavano ad Amburgo, le SS portarono questi bambini e i quattro uomini nella caldaia delle
cantine della scuola dove furono impiccati.
Impiccati. I più piccoli avevano solo cinque anni. Ad Auschwitz le
vittime erano milioni; si fa fatica persino a
concepire un milione. Cogliere
la realtà di quelle milioni di vite torturate e di quei terribili assassini
è molto difficile. Ma l'atroce impiccagione di venti bambini può
facilmente assumere un aspetto vivido nella nostra immaginazione Alcuni tra loro avevano forse solo tre
anni quando furono portati via dalle loro case in Italia, Francia,
Polonia, Olanda e Iugoslavia, trasportati per centinaia di chilometri
in luridi vagoni ferroviari, separati
dalle loro famiglie, trasportati di
nuovo, torturati metodicamente e a lungo e
alla fine annientati, impiccati in una cantina. Questo riusciamo ad immaginarIo; loro rappresentano tutti i milioni di morti: Marek James,
sei anni, di Radom, Polonia. H.
Wassermann, una bambina polacca
di otto anni. Roman
Witonski, sei anni, e sua sorella Eleonora, di Radom, Polonia.
R. Zeller, un bambitio
polacco di dodici anni. Eduard Hornemann,
dodici anni, e suo fratello
Alexander, nove anni, di Eindhoven, Olanda.
Riwka Herszberg, una bambina di sette anni di Zdunska
Wola, Polonia. Georges André Kohn,
dodici anni, di Parigi. Jacqueline Morgenstern, dodici anni, di Parigi Ruchla Zylberberg, una bambina di otto anni. Edouard Reichenbaum, dieci anni. Mania Altman, cinque anni, di Radom, Polonia. Sergio de Simone, sette anni, di
Napoli. Marek Steinbaum, dieci anni. W. Junglieb, un
bambino di dodici anni. S. Goldinger, una bambina
di undici anni. Lelka Birnbaum, una bambina di dodici anni. Lola Kugerman,
dodici anni. B.
Mekler, una bambina di
undici anni. Di fronte alle infamie di Treblinka, di Sobibor e
Belzec, di Dachau, Birkenau, Chelmno e
tutto il resto, possiamo provare ira, dolore, pietà, rabbia, disgusto, preoccupazione per la razza umana, ma
nel roseto dietro la scuola Bullenhuser Damm possiamo solo piangere. Il debole
sole invernale faceva risaltare il verde brillante dei primi germogli
primaverili in mezzo ai cespugli di rose ancora
dormienti. Poi arrivò una
nuvola nera e una pioggia gelida si riversò
sul giardino mentre leggevo i nomi sulle targhe commemorative allineate sulla
recinzione. Così come
l'assassinio di questi bambini rappresenta
quello di milioni di esseri
umani, l'iscrizione nel loro giardino
commemorativo vale per tutti i luoghi di terrore e di morte:
MENTRE SEI QUI, FA SILENZIO; QUANDO TE NE VAI, NON FARE SILENZIO.
Non
si può fermare il tempo. Il numero dei superstiti diminuisce ogni giorno e
presto non ci sarà più nessuno - né vittima né carnefice - che sia stato lì.
Tra poco l'intera struttura fisica - edifici e oggetti autentici - si sarà
disintegrata e dovrà essere completamente sostituita con delle ricostruzioni,
come accade ad esempio ai chilometri apparentemente sconfinati di filo spinato
arrugginito che già ora viene rimpiazzato dopo pochi anni. Quindi i campi
cambieranno funzione: non saranno più soprattutto luoghi della memoria e dei
ricordi e diventeranno principalmente musei e posti educativi, con un' area
fisica ridotta in molti casi. Forse non sarà possibile ancora per molto
scattare fotografie come queste. Si può a ragione ritenere che la funzione dei
campi ancora esistenti cambierà in modo significativo, forse molto presto.
Attualmente il loro scopo principale è documentare e descrivere cosa vi accadde
e come accadde: un compito reso già abbastanza difficile dagli sforzi, spesso
coronati da successo, dei nazisti di cancellare tutte le prove all' avanzare
degli eserciti di liberazione. Nel migliore dei casi, si tratta di una
documentazione sterilizzata; oggi quel che rimane dei campi è pulito, mentre
quando erano in funzione erano luridi; ora sono silenziosi, ma quando venivano
usati erano pieni di rumore: gli urli delle guardie, il ringhiare dei cani, i
passi strascicati dei prigionieri, i suoni di esseri umani che russano,
tossiscono, si lamentano. Oggi i campi sono chiusi e non vi è più traccia del
loro sovraffollamento endemico, della mancanza d'acqua, di calore, di cibo e di
tutte quelle necessità basilari della vita che provocarono rapidamente malattie
ed epidemie. Secondo molti superstiti, una delle cose più difficili da
sopportare della vita nei campi era la mancanza di qualsiasi tipo di privacy.
Durante questo viaggio mi resi conto ancora una volta che, nonostante siano
trascorsi molti anni dalla liberazione dei campi, il passato nazista non è
ancora stato sepolto. In Germania è una presenza quasi palpabile, un ospite non
invitato e spesso inaspettato in molte fasi della vita pubblica e personale. Il
ricordo delle azioni compiute da una parte dei tedeschi, di cui molti tra i
tedeschi finsero di non accorgersi, rimane una ferita aperta, bruciante che
continua a dolere e non si rimargina. Nelle conversazioni accidentali e talvolta
serie che avvengono durante i viaggi, nel corso delle quali venivo generalmente
scambiato per un tedesco e lo scopo della mia visita veniva taciuto, il passato
spesso, e a volte rapidamente, diventava l'argomento principale, con un'intensità
che talvolta rasentava la compulsione, come una dipendenza che si combatte ma a
cui alla fine si deve cedere - sempre presente, che non consente alcuna
conclusione finale, alcuna risoluzione. Mi accorsi, senza stupirmene, che tra i
tedeschi non c'è un accordo unanime su come affrontare il tema del passato
nazista ma trovai invece una netta divisione di opinioni. Molti, forse la
maggioranza, ritengono che esiste ancora un forte obbligo di ricordare ciò che
accadde nei campi, i motivi per cui accadde e come poté accadere e credono
inoltre che la Germania debba assumersi la responsabilità di cercare di
impedire che avvenga di nuovo. Altri tedeschi, però, sono di opinione diversa.
I resti carbonizzati del "baraccamento degli ebrei" nel luogo del
monumento commemorativo del campo di Sachsenhausen costituiscono uno dei tanti
esempi nella Germania odierna in cui si esprime in modo inequivocabile un
giudizio molto differente sul passato e un messaggio ben diverso per il futuro.
Questo messaggio, attraverso la deturpazione e distruzione di cimiteri e
sinagoghe e gli incendi appiccati allo scopo di distruggere i negozi e le case
degli stranieri con l'intento di bruciare vivi gli abitanti, è oggi abbastanza
frequente, non solo in simili azioni ma anche nelle affermazioni di alcuni
partiti estremisti e nei discorsi di certi loro rappresentanti politici. Le
parole variano ma il significato è sempre lo stesso: voi ebrei e tutti voi,
immigranti dell'Europa orientale o da dovunque veniate, non siete tedeschi e
quindi qui non siete graditi. Andatevene e portate via con voi il ricordo di ciò
che dite vi fu fatto dai tedeschi. Per la maggior parte non ci crediamo, ma se
qualcuno l'ha fatto sono stati i nostri nonni, non noi. Siamo stanchi del
marchio di Caino che ci avete impresso sulla fronte, abbiamo portato il peso
della colpevolezza abbastanza a lungo. Andatevene. E' difficile prevedere quale
di questi messaggi - responsabilità o rifiuto
- prevarrà in Germania; le circostanze e gli elementi che contribuiscono a
simili decisioni sono in continuo mutamento. Non è unicamente un problema
tedesco. Brutalità e distruzione contro gli "indesiderabili" per fini
politici si sono ripetuti dopo il 1945 in altri luoghi e accadono tuttora: la
terra è cosparsa delle prove di queste azioni. L'idea perfezionata dai nazisti,
che elaborarono l'arte di uccidere, è ancora molto vitale ed anzi è stata
migliorata dal 1945. Nella camera a gas di Auschwitz mi sono trovato di fronte
alla realtà dell' assassinio premeditato, a sangue freddo, come mai mi era
accaduto prima, nemmeno durante la guerra. E' stata un'esperienza che non potrò
dimenticare, il ricordo di ciò che gli esseri umani possono fare ad altri
uomini quando la passione e l'ira sostituiscono la ragione e il fondamentale
senso della decenza. Ancora una volta, ho capito com' è facile, in quest' epoca
di sviluppo tecnologico, per le persone senza scrupoli, relativamente poche,
togliere la libertà, lo spirito e la vita ai molti che sono alla loro mercé.
Ho capito che non ero al sicuro da questi pericoli e che non lo era nessuno,
perché la linea che divide i vincitori dalle vittime, il bene dal male, è
sottile ed elastica. Se la mia visita in quel che resta dei campi mi ha
insegnato qualcosa, è che pensare o vivere unicamente per se stessi è
diventato un lusso che non ci possiamo permettere. La vita, eccetto forse nei
sogni, non si svolge più a un livello solitario; è diventata irrevocabilmente
complessa e tra di noi, chiunque siamo, si sono intrecciati molteplici legami,
che ci piaccia o no. Agire secondo questa idea può diventare un omaggio più
efficace alla memoria dei morti che portare il lutto da soli o giurare che tutto
ciò non avverrà mai più, e potrebbe anche essere il modo più promettente di
abolire i campi di concentramento. Non sono un ottimista, ma credo che se
decidessimo di unire le nostre vite in modo inscindibile e cioè di sostituire
"io" e "loro" con "noi", riusciremmo a creare una
vita in cui le camere a gas non vengano mai più usate in nessuna parte del
mondo e un futuro in cui i bambini, comprese le mie nipotine, non sappiano
neanche cosa siano queste camere a gas.
New York, settembre 1994