Note dell'autore

di

  Erich Hartmann 

In passato la parola Dachau indicava una pittoresca cittadina a pochi minuti di treno da Monaco; per molto tempo la brughiera circostante è stata un tema prediletto dai pittori paesaggisti. A partire dal 1933, quando ero adolescente, poco dopo la venuta al potere dei nazisti in Germania e fino alla fine della guerra nel 1945, Dachau passò a significare il campo di concentramento che i nazisti avevano costruito sui campi di patate alla periferia della cittadina. Il suo nome ufficiale era "Struttura di Lavoro e Rieducazione" ma ben presto cominciarono a diffondersi le voci, e poi i racconti di testimoni oculari, secondo cui il campo era un luogo di brutalità, di violenza fortuita e distruzione sistematica. Dachau era destinato a diventare il primo dei numerosi campi di concentramento che facevano parte di un sistema meticolosamente programmato e organizzato, con uno scopo ben definito: eliminare ogni opposizione politica al regime nazista servendosi del terrore, usare tutti i prigionieri in buona salute come lavoro forzato per l'industria tedesca fino a quando venivano uccisi perché consumati dalla fame e dalla fatica e, infine, distruggere lo spirito e il corpo di ogni uomo, donna e bambino che le leggi razziali di un autoproclamata "razza superiore" avevano decretato indegni di vita, tra cui omosessuali, zingari, membri di sette cristiane, handicappati fisici e mentali. E, naturalmente, tutti gli ebrei. Non ho mai dimenticato il mio primo incontro con Dachau, avvenuto molto presto. Avevo avuto un piccolo incidente cadendo dalla bicicletta e entrando nella sala d'aspetto di una clinica nelle vicinanze, vi trovai due uomini, uno in piedi, l'altro seduto sul bordo di una panca. Quello in piedi indossava la divisa nera, gli stivali e il distintivo del teschio delle SS; l'altro aveva il pigiama azzurro-grigio e gli zoccoli di legno dei detenuti di Dachau. La testa era rasata e il viso scavato mostrava il segno di lividi. Entrambi rimasero in silenzio. Non so perché si trovavano lì. L'uomo delle SS guardava il giardino primaverile; il prigioniero rivolgeva lo sguardo a terra oppure ogni tanto anche lui alzava gli occhi per guardare fuori. I loro sguardi non si incrociavano. Solo una volta l'uomo delle SS mi guardò, senza interesse. Nei suoi occhi vidi quella calma che nasce dal possesso di un potere fisico totale. Il mio sguardo e quello del prigioniero non si incrociarono ma nei suoi occhi vidi un vuoto che non avevo mai visto prima - la sua faccia era del tutto priva di espressione. Vidi l'assenza di ogni aspettativa o speranza: il suo volto esprimeva il nulla. Presto venne il mio turno e mi fasciarono il ginocchio; quando uscii i due uomini non erano più nella stanza. Non li rividi mai più, ma ancora oggi sarei in grado di riconoscere il prigioniero. Avevo sentito usare la frase "raggelare il sangue"; ora sapevo cosa significava. Durante quell'incontro, per la prima volta in vita mia, provai una vera sensazione di paura e di terrore. Capii non solo con il cervello, ma fin dentro le viscere, cos'era diventata per mano dei nazisti la Germania in cui vivevo e che amavo: "un gelido inferno", come la definì un superstite di Dachau. Per qualche minuto, persino in quell' ambiente igienico e asettico, compresi cosa significava essere prigioniero delle SS e solo in seguito capii di aver visto i due volti della Germania nazista, i due volti della morte: quella del carnefice e quella della vittima. I nazisti stavano trasformando il tradizionale e tormentato romanticismo tedesco, che aveva prodotto grande arte e letteratura, in un culto della morte che scatenò sui loro nemici, e alla fine anche su loro stessi, un' orgia omicida sistematica e barbarica. La morte diventò lo strumento principale del "Reich millenario" e la sua pesante eredità fino ai giorni nostri. Da allora ho vissuto per più di cinquant'anni negli Stati Uniti. Non sono mai riuscito a spiegarmi perché mio padre non finì in un campo di concentramento. Come molti altri deportati, era un ebreo del ceto medio che aveva successo nel suo lavoro, era stato tutta la vita un socialdemocratico, sebbene non attivo, ed era conosciuto e rispettato all'interno della comunità. Forse fu risparmiato perché aveva combattuto nell' esercito tedesco durante la prima guerra mondiale ed era stato decorato per gli anni trascorsi nelle trincee in Francia - almeno all'inizio, i nazisti sembravano rispettare i patrioti, persino se ebrei. Ma se mia madre non avesse avuto parenti generosi in America in grado di aiutare l'intera famiglia (genitori, due ragazzi e una bambina) a fuggire dalla Germania nell' estate del 1938, nessuno di noi sarebbe riuscito ad evitare i campi ancora per molto. I nostri parenti e molti amici che non poterono andarsene, o non vollero, non scamparono ai campi e in pochi sopravvissero. Quando ce ne andammo dalla Germania avevo sedici anni. Fu doloroso perdere quello che consideravo il mio paese e la mia lingua, e fu difficile far crescere nuove radici in una nuova casa - almeno, così sembrava in quel momento. Ma ben presto, man mano che le notizie arrivavano a intermittenza dall'Europa, cominciammo a capire che avevamo evitato un destino incredibile persino alla luce delle nostre esperienze tra il 1933 e il 1938: un governo tedesco legalmente eletto stava trasformando il paese che aveva dato i natali a grandi filosofi e artisti in uno strumento di terrore sistematico, brutalità, lavoro da schiavi, torture e omicidi, che travolse come una valanga milioni di persone innocenti, ebrei e molti altri, in una frenesia distruttiva. Col passare del tempo furono istituiti più di mille campi e sottocampi, un immenso e tetro paesaggio di filo spinato che attraversava la Germania e l'Europa conquistata. Il resto del mondo, non solamente noi ed altri rifugiati dai nazisti, venne a conoscenza di questi atti molto tempo prima della fine della guerra; ben presto tutti seppero che la maggior parte dei tedeschi aveva protestato debolmente e si era adoperata ancor meno per sconfiggere la seduzione, sempre più violenta, della propria patria e la devastazione di molti altri paesi europei. In Germania c'è ancora chi dice "non sapevamo cosa facevano" e la mia risposta è ancora "che strano che non lo sapevate - noi sapevamo cosa stavano facendo". E' raro invece sentire la frase "non volevamo sapere cosa facevano". La mattina dopo Pearl Harbour mi arruolai, ma dovetti aspettare un anno prima di essere accettato poiché ero ancora uno "straniero nemico", classificato come "antifascista prematuro". Ma finalmente fui arruolato e trascorsi nell' esercito degli Stati Uniti tre anni, di cui la maggior parte in Europa (il solito "Grand Tour": Inghilterra, Francia, Belgio, Germania) e quando la guerra finì e ne uscimmo vincitori, ritenni di aver ripagato il mio debito con gli Stati Uniti, il paese che ci aveva accolto e dunque salvato la vita. Poco dopo il "V-E Day" (il giorno della vittoria in Europa, 1'8 maggio 1945), mentre ero di guarnigione ad Augsburg, visitai il campo di concentramento di Dachau. Ormai i morti trovati in mucchi per terra dalle truppe alleate erano stati sepolti e la maggior parte dei baraccamenti erano stati svuotati e rasi al suolo per impedire l'ulteriore diffusione di malattie. Nell'esposizione improvvisata per i visitatori, in uno dei baraccamenti rimasti, una divisa da prigioniero era stata appesa vicino alla porta con un cartello intorno al collo che diceva "ICH BINWIEDER DA" ("SONO TORNATO"), in memoria di quei prigionie­ri che avevano tentato la fuga ed in seguito erano stati nuovamente catturati e costretti a portare questo cartello nel piazzale dell' adunata, per poi venir lentamente e sistematicamente picchiati a morte davanti all'intera popolazione di prigionieri, appositamente radunata. Ricordo di aver avuto la sensazione che il cartello facesse riferimento anche a me, che ero di nuovo nel mio luogo di nascita, tornato al sicuro dalla mia nuova casa, messo a confronto con ciò che era accaduto a persone come me. Allora seppi che la sensazione di terrore provata alla vista del prigioniero e della guardia delle SS nella clinica era stata un presagio fedele di un destino che avrebbe potuto accadere anche a me e non riuscii a spiegarmi come ero scampato. In seguito, per molto tempo pensai che partecipando alla liberazione dell'Europa avevo anche aiutato a mettere fine ad ulteriori sofferenze e uccisioni nei campi e che se avevo un debito con coloro che vi erano stati torturati e assassinati, questo era stato pagato. Ma a quanto pare, ci sono debiti difficili da saldare. Col passare del tempo e sempre di più negli ultimi anni, cominciai ad avvertire un richiamo per tornare in quel che era rimasto dei campi. Non accadeva improvvisamente né in modo preciso ma piuttosto prendeva la forma di "messaggi" indefinibili, a volte ambigui e sempre inaspettati, come quando qualche anno fa mio figlio ed io ci trovammo entrambi a Monaco ciascuno per motivi di lavoro, un evento raro. Decidemmo di prenderci una breve vacanza insieme, "ma prima", disse lui, "mostrami il campo di Dachau". Così, il nostro viaggio iniziò lì. Anche lui, come me, preferisce la solitudine alle visite guidate, e perciò non ci fu bisogno di parole o spiegazioni; quando ce ne andammo mi prese sottobraccio e disse "stavo pensando che avrei potuto perderti proprio lì". Alla fine mi resi conto che in questo momento, verso la fine della mia attività lavorativa come fotografo e vicino al cinquantesimo anniversario della liberazione degli ultimi campi, l'uomo e il fotografo dovevano incontrarsi per far fotografie in ciò che rimane dei campi, raffigurando quel che c'è ancora da vedere. Durante altre visite in Europa avevo, saltuariamente e in modo casuale, scattato fotografie in alcuni campi, ma ora mi proponevo di intraprendere un viaggio unicamente a questo scopo. Non avevo illusioni; non avrei potuto aggiungere nulla alla voluminosa documentazione già esistente e sapevo anche che il fatto di trovarmi nei campi e di fotografarli non avrebbe riportato in vita nessuno, né avrebbe alleviato la sofferenza dei superstiti. Semplicemente, mi sentivo in dovere di visitare tutti i campi che potevo raggiungere, per adempiere ad un dovere che non riuscivo a definire e rendere un omaggio tardivo con gli strumenti della mia professione. A metà dell'inverno scorso andai nei luoghi raffigurati in questo libro. Il tempo, quasi sempre nuvoloso e piovoso, era adatto al mio scopo; spesso il terreno era coperto di neve e a volte di una fitta nebbia. Le giornate erano brevi e c'era quasi sempre poca luce, persino a mezzogiorno. Nella grande quiete non si udiva altro che l'abbaiare di cani, lo scricchiolio delle mie scarpe sul terreno e a volte il battito delle mie pulsazioni. Anche quando ero accompagnato da mia moglie, il viaggio era compiuto in silenzio; qui le parole non servono. I visitatori, quando c'erano, erano pochi: si era nella stagione delle feste e delle vacanze scolastiche. Mi sorprese l'intensità con cui, persino dopo tanti anni, i campi parevano ancora abitati dagli echi del loro passato cupo e amaro. Alla fine di ogni giorno trascorso a passeggiare per gli ex campi, non desideravo altro che andarmene il prima possibile e ogni giorno ero grato di non essere lì senza scopo, di avere una macchina fotografica senza sentimenti propri, con cui tentare di esprimere ciò che provavo. Sono convinto che non sarei sopravvissuto in nessuno di questi campi. Il mio viaggio durò poco più di otto settimane. In Polonia, dove non eravamo mai stati, ci servimmo di un autista/ guida/interprete. Per arrivare a Theresienstadt prendemmo il treno di notte dalla Germania fino a Praga, compiendo il resto del tragitto in macchina. A volte affittavo un' auto quando ne avevo bisogno. Ogni tanto c'erano giorni di pace domestica e di riposo, persino di festa. Passammo la sera di Capodanno ad Amburgo nel tranquillo salotto del nostro piccolo albergo in compagnia di altre due coppie, presumibilmente anch' esse lontano da casa, assistiti da un cortese barista con una generosa scorta dei tradizionali "cruller" e di sekt, lo champagne tedesco. Se c'era la musica, era così sommessa da non dare alcun disturbo e si parlava poco; ognuno rispettava i pensieri privati degli altri. I miei erano prevedibili: avevo trascorso il giorno di Natale da solo nella nebbia fitta e fredda del campo di concentramento di Buchenwald per poi giungere nelle vicinanze di Bergen Belsen all'imbrunire. In questo momento ero in un luogo di festa, confortato dalla presenza di una persona cara, ma il giorno dopo saremmo partiti per i campi di sterminio delle SS in Polonia, progettati per uccidere gli ebrei, gli zingari e gli omosessuali d'Europa, ma anche per sbarazzarsi, in seguito, dei milioni di prigionieri di guerra sovietici che l'esercito tedesco doveva catturare e, più tardi ancora, per svuotare le fertili pianure polacche e ucraine dei loro abitanti in modo da dare spazio vitale, "Lebensraum", ai coloni tedeschi, dopo la vittoria della Germania. Mi sentivo riscaldato e raggelato al contempo, insieme a mio agio e nervoso; era una pausa per riprendere fiato dopo i tristi ricordi delle settimane passate e l'anticipazione di quelle a venire. Al nostro ritorno, un mese più tardi, pensavo di aver sondato il fondo delle barbarie naziste ma non era così; le vere dimensioni e le enormità della rabbia mortale nazista ci travolsero davanti ad un monumento commemorativo di Amburgo, poco dopo il nostro ritorno dalla Polonia. Mia moglie, Ruth Bains Hartmann, così scrisse nel suo diario:

Ogni volta che crediamo di aver guardato nei meandri più profondi della crudeltà umana, l'abisso ci attende. Dopo tutte le cose orribili che ho visto e tutti i luoghi della sofferenza inflitta per mano dell'uomo di cui sono stata testimone, come potevo immaginare qualcosa di peggio? In una zona industriale di Amburgo c'è un piccolo roseto, non lontano da uno dei numerosi canali della città. Il giardino ha una forma irregolare e la sua recinzione di legno lo separa da un lato da una trafficata strada maestra, dall' altro dal giardino di un asilo dove in una mattina invernale bambini vestiti di colori allegri sguazzavano felici in gelide pozzanghere finché una maestra li guidò verso giochi meno pericolosi. Sul lato opposto del giardino dell' asilo c'è la scuola Bullenhuser Damm, che all' epoca nazista era un sottocampo di Neuengamme, il campo di concentramento nei pressi di Amburgo, ora ribattezzata Scuola Janusz Korczak, in memoria del direttore dell' orfanotrofio di Varsavia che morì con i suoi bambini nelle camere a gas di Treblinka. Pochi giorni prima della fine della guerra, venti bambini ebrei furono portati alla scuola Bullenhuser Damm insieme a due medici francesi e due olandesi, i loro custodi, tutti quanti prigionieri. Nel novembre del 1944 questi bambini, dieci maschi e dieci femmine tra i cinque e i dodici anni (i nazisti furono sempre metodici),furono trasportati da Auschwitz a Neuengamme, dove vennero sottoposti ad esperimenti dal medico delle SS Kurt Heissmeyer. Dopo esser stati iniettati con il bacillo della tubercolosi, i bambini si ammalarono gravemente e le loro ghiandole linfatiche furono rimosse per analizzarle. La notte del 20 aprile 1945, mentre le truppe britanniche si avvicinavano ad Amburgo, le SS portarono questi bambini e i quattro uomini nella caldaia delle cantine della scuola dove furono impiccati. Impiccati. I più piccoli avevano solo cinque anni. Ad Auschwitz le vittime erano milioni; si fa fatica persino a concepire un milione. Cogliere la realtà di quelle milioni di vite torturate e di quei terribili assassini è molto difficile. Ma l'atroce impiccagione di venti bambini può facilmente assumere un aspetto vivido nella nostra immaginazione Alcuni tra loro avevano forse solo tre anni quando furono portati via dalle loro case in Italia, Francia, Polonia, Olanda e Iugoslavia, trasportati per centinaia di chi­lometri in luridi vagoni ferroviari, separati dalle loro famiglie, trasportati di nuovo, torturati metodicamente e a lungo e alla fine annientati, impiccati in una cantina. Questo riusciamo ad immaginarIo; loro rappresentano tutti i milioni di morti: Marek James, sei anni, di Radom, Polonia. H. Wassermann, una bambina polacca di otto anni. Roman Witonski, sei anni, e sua sorella Eleonora, di Radom, Polonia. R. Zeller, un bambitio polacco di dodici anni. Eduard Hornemann, dodici anni, e suo fratello Alexander, nove anni, di Eindhoven, Olanda. Riwka Herszberg, una bambina di sette anni di Zdunska Wola, Polonia. Georges André Kohn, dodici anni, di Parigi. Jacqueline Morgenstern, dodici anni, di Parigi Ruchla Zylberberg, una bambina di otto anni. Edouard Reichenbaum, dieci anni. Mania Altman, cinque anni, di Radom, Polonia. Sergio de Simone, sette anni, di Napoli. Marek Steinbaum, dieci anni. W. Junglieb, un bambino di dodici anni. S. Goldinger, una bambina di undici anni. Lelka Birnbaum, una bambina di dodici anni. Lola Kugerman, dodici anni. B. Mekler, una bambina di undici anni. Di fronte alle infamie di Treblinka, di Sobibor e Belzec, di Dachau, Birkenau, Chelmno e tutto il resto, possiamo provare ira, dolore, pietà, rabbia, disgusto, preoccupazione per la razza umana, ma nel roseto dietro la scuola Bullenhuser Damm possiamo solo piangere. Il debole sole invernale faceva risaltare il verde brillante dei primi germogli primaverili in mezzo ai cespugli di rose ancora dormienti. Poi arrivò una nuvola nera e una pioggia gelida si riversò sul giardino mentre leggevo i nomi sulle targhe commemorative allineate sulla recinzione. Così come l'assassinio di questi bambini rappresenta quello di milioni di esseri umani, l'iscrizione nel loro giardino commemorativo vale per tutti i luoghi di terrore e di morte:

MENTRE SEI QUI, FA SILENZIO; QUANDO TE NE VAI, NON FARE SILENZIO.

Non si può fermare il tempo. Il numero dei superstiti diminuisce ogni giorno e presto non ci sarà più nessuno - né vittima né carnefice - che sia stato lì. Tra poco l'intera struttura fisica - edifici e oggetti autentici - si sarà disintegrata e dovrà essere completamente sostituita con delle ricostruzioni, come accade ad esempio ai chilometri apparentemente sconfinati di filo spinato arrugginito che già ora viene rimpiazzato dopo pochi anni. Quindi i campi cambieranno funzione: non saranno più soprattutto luoghi della memoria e dei ricordi e diventeranno principalmente musei e posti educativi, con un' area fisica ridotta in molti casi. Forse non sarà possibile ancora per molto scattare fotografie come queste. Si può a ragione ritenere che la funzione dei campi ancora esistenti cambierà in modo significativo, forse molto presto. Attualmente il loro scopo principale è documentare e descrivere cosa vi accadde e come accadde: un compito reso già abbastanza difficile dagli sforzi, spesso coronati da successo, dei nazisti di cancellare tutte le prove all' avanzare degli eserciti di liberazione. Nel migliore dei casi, si tratta di una documentazione sterilizzata; oggi quel che rimane dei campi è pulito, mentre quando erano in funzione erano luridi; ora sono silenziosi, ma quando venivano usati erano pieni di rumore: gli urli delle guardie, il ringhiare dei cani, i passi strascicati dei prigionieri, i suoni di esseri umani che russano, tossiscono, si lamentano. Oggi i campi sono chiusi e non vi è più traccia del loro sovraffollamento endemico, della mancanza d'acqua, di calore, di cibo e di tutte quelle necessità basilari della vita che provocarono rapidamente malattie ed epidemie. Secondo molti superstiti, una delle cose più difficili da sopportare della vita nei campi era la mancanza di qualsiasi tipo di privacy. Durante questo viaggio mi resi conto ancora una volta che, nonostante siano trascorsi molti anni dalla liberazione dei campi, il passato nazista non è ancora stato sepolto. In Germania è una presenza quasi palpabile, un ospite non invitato e spesso inaspettato in molte fasi della vita pubblica e personale. Il ricordo delle azioni compiute da una parte dei tedeschi, di cui molti tra i tedeschi finsero di non accorgersi, rimane una ferita aperta, bruciante che continua a dolere e non si rimargina. Nelle conversazioni accidentali e talvolta serie che avvengono durante i viaggi, nel corso delle quali venivo generalmente scambiato per un tedesco e lo scopo della mia visita veniva taciuto, il passato spesso, e a volte rapidamente, diventava l'argomento principale, con un'intensità che talvolta rasentava la compulsione, come una dipendenza che si combatte ma a cui alla fine si deve cedere - sempre presente, che non consente alcuna conclusione finale, alcuna risoluzione. Mi accorsi, senza stupirmene, che tra i tedeschi non c'è un accordo unanime su come affrontare il tema del passato nazista ma trovai invece una netta divisione di opinioni. Molti, forse la maggioranza, ritengono che esiste ancora un forte obbligo di ricordare ciò che accadde nei campi, i motivi per cui accadde e come poté accadere e credono inoltre che la Germania debba assumersi la responsabilità di cercare di impedire che avvenga di nuovo. Altri tedeschi, però, sono di opinione diversa. I resti carbonizzati del "baraccamento degli ebrei" nel luogo del monumento commemorativo del campo di Sachsenhausen costituiscono uno dei tanti esempi nella Germania odierna in cui si esprime in modo inequivocabile un giudizio molto differente sul passato e un messaggio ben diverso per il futuro. Questo messaggio, attraverso la deturpazione e distruzione di cimiteri e sinagoghe e gli incendi appiccati allo scopo di distruggere i negozi e le case degli stranieri con l'intento di bruciare vivi gli abitanti, è oggi abbastanza frequente, non solo in simili azioni ma anche nelle affermazioni di alcuni partiti estremisti e nei discorsi di certi loro rappresentanti politici. Le parole variano ma il significato è sempre lo stesso: voi ebrei e tutti voi, immigranti dell'Europa orientale o da dovunque veniate, non siete tedeschi e quindi qui non siete graditi. Andatevene e portate via con voi il ricordo di ciò che dite vi fu fatto dai tedeschi. Per la maggior parte non ci crediamo, ma se qualcuno l'ha fatto sono stati i nostri nonni, non noi. Siamo stanchi del marchio di Caino che ci avete impresso sulla fronte, abbiamo portato il peso della colpevolezza abbastanza a lungo. Andatevene. E' difficile prevedere quale di questi messaggi - responsabilità o rifiuto - prevarrà in Germania; le circostanze e gli elementi che contribuiscono a simili decisioni sono in continuo mutamento. Non è unicamente un problema tedesco. Brutalità e distruzione contro gli "indesiderabili" per fini politici si sono ripetuti dopo il 1945 in altri luoghi e accadono tuttora: la terra è cosparsa delle prove di queste azioni. L'idea perfezionata dai nazisti, che elaborarono l'arte di uccidere, è ancora molto vitale ed anzi è stata migliorata dal 1945. Nella camera a gas di Auschwitz mi sono trovato di fronte alla realtà dell' assassinio premeditato, a sangue freddo, come mai mi era accaduto prima, nemmeno durante la guerra. E' stata un'esperienza che non potrò dimenticare, il ricordo di ciò che gli esseri umani possono fare ad altri uomini quando la passione e l'ira sostituiscono la ragione e il fondamentale senso della decenza. Ancora una volta, ho capito com' è facile, in quest' epoca di sviluppo tecnologico, per le persone senza scrupoli, relativamente poche, togliere la libertà, lo spirito e la vita ai molti che sono alla loro mercé. Ho capito che non ero al sicuro da questi pericoli e che non lo era nessuno, perché la linea che divide i vincitori dalle vittime, il bene dal male, è sottile ed elastica. Se la mia visita in quel che resta dei campi mi ha insegnato qualcosa, è che pensare o vivere unicamente per se stessi è diventato un lusso che non ci possiamo permettere. La vita, eccetto forse nei sogni, non si svolge più a un livello solitario; è diventata irrevocabilmente complessa e tra di noi, chiunque siamo, si sono intrecciati molteplici legami, che ci piaccia o no. Agire secondo questa idea può diventare un omaggio più efficace alla memoria dei morti che portare il lutto da soli o giurare che tutto ciò non avverrà mai più, e potrebbe anche essere il modo più promettente di abolire i campi di concentramento. Non sono un ottimista, ma credo che se decidessimo di unire le nostre vite in modo inscindibile e cioè di sostituire "io" e "loro" con "noi", riusciremmo a creare una vita in cui le camere a gas non vengano mai più usate in nessuna parte del mondo e un futuro in cui i bambini, comprese le mie nipotine, non sappiano neanche cosa siano queste camere a gas.

New York, settembre 1994

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