Il nazismo  e i campi di concentramento

«Plus jamais ça»

mostra fotografica e documentale

testi - Il campo di Fossoli: un patrimonio per educare

a cura di Marzia Luppi della Fondazione ex Campo Fossoli

Introduzione

 

Nella campagna di Fossoli, a circa sei chilometri dal centro di Carpi, sono ancora ben riconoscibili le baracche di quello che fu il principale Campo italiano di polizia e di transito per deportati politici e razziali: da qui tra l'inverno del 1943 e l'estate del 1944 partirono oltre 2.800 ebrei (più di un terz9 dei deportati ebrei italiani) e circa 3.000 prigionieri politici diretti ai campi di concentramento e di sterminio nazisti. Ma la storia del Campo di Fossoli non si esaurisce a in questo tragico periodo. Istituito nel 1942 e attivo con diversi usi fino al 1970, il Campo di Fossoli racchiude nella sua storia la complessità delle vicende che investirono le popolazioni durante la guerra, vicende che hanno concentrato in quel sito una pluralità di memorie e mantengono una traccia tangibile nelle strutture superstiti del Campo, ancora oggi visibili e percorribili. La presenza del Campo di Fossoli è stata determinante per la realizzazione a Carpi del Museo Monumento al deportato politico e razziale. Inaugurato nel 1973, ma presente nella mente di amministratori e intellettuali fin dal 1960, il Museo costituisce l'altra pietra miliare di un sistema della memoria che rende il territorio carpigiano un percorso formativo importante per far comprendere la Storia a partire dalla conoscenza di luoghi emblematici.

 

Il Campo nel periodo bellico.

 

Il Campo di Fossoli nasce nell'estate del 1942 come campo per prigionieri militari dell'esercito nemico (PG 73) nel quadro delle Convenzioni internazionali che decretavano l'internamento dei soldati degli eserciti avversari, ma garantivano anche precisi diritti: protezione contro gli atti di violenza, approvvigionamento gratuito, cure mediche. Quando nel luglio cominciano ad arrivare i primi prigionieri, le baracche in muratura non sono ancora ultimate e nell'area che affaccia su via Remesina viene predisposto un campo attendato che raccoglie fino a 3.000 militari, in prevalenza soldati e sottufficiali inglesi, neozelandesi, africani, australiani. A completamento della struttura (93 baracche nel Campo Vecchio su via Grilli e 15 nel Campo Nuovo su via Remesina), il numero dei prigionieri arriva fino a 5.000. La vita nel campo sembra accettabile, come si legge in una testimonianza: “... il cibo era abbastanza buono, tutti davano qualche lira per comperare degli strumenti musicali e formare un concerto, una volta alla settimana le guardie italiane accompagnavano un centinaio di prigionieri in campagna per una marcia salutare, ricevevamo regolarmente i pacchi della Croce Rossa …”. Ben diverse diventano le condizioni durante la stagione invernale, quando fango, freddo e parassiti rendevano la vita nelle baracche penosa e insopportabile. Sulla strada che collega il Campo con la ferrovia e con Carpi la popolazione locale incontra spesso le colonne di prigionieri, nemici ma la cui condizione richiama alla mente quella del propri cari lontani, impegnati sui diversi fronti di guerra ormai da due anni. Non è casuale che le prime forme di opposizione al regime nazifascista dopo l'8 settembre 1943 saranno dirette a nascondere, a proteggere, a soccorrere i militari alleati; dopo la guerra circa una settantina di persone di Carpi e delle frazioni riceveranno un riconoscimento ufficiale per l'aiuto dato. “... Mi trovavo nel campo quando ricevetti la bella notizia che le forze inglesi e americane avevano invaso l'Italia [...]. Non un prigioniero dormì quella notte al pensiero della libertà. Ma le buone notizie non durarono a lungo e la grande sorpresa giunse il giorno dopo, all'alba, quando apparvero i carri armati tedeschi …”. Così Alfred Moore, militare prigioniero a Fossoli, ricorda il suo 8 settembre. Dopo l'armistizio, l'esercito tedesco occupa con durezza il Campo, disarma il presidio italiano e trasferisce i prigionieri nei campi di prigionia in Germania. Ma il Campo non è abbandonato, esso viene ad assumere una funzione centrale nella politica persecutoria che il nazifascismo attuò contro ampi strati della popolazione. Nella fase finale della guerra anche l'Italia, infatti, conosce il fenomeno della deportazione nelle sue molteplici forme: ebrei, antifascisti, oppositori al regime, omosessuali, zingari, scioperanti furono perseguiti, catturati e trasferiti nei Lager nazisti. Ma molti furono anche i rastrellati costretti al lavoro coatto nelle fabbriche tedesche e, particolarità tutta italiana, gli internati militari: circa 650.000 soldati e ufficiali catturati dopo l'8 settembre, furono trasferiti nei campi di prigionia in Germania, ma vennero privati delle tutele previste dagli accordi internazionali per i prigionieri di guerra. Nei primi giorni di dicembre del 1943 il Campo di Fossoli è riattivato come Campo speciale di internamento per gli ebrei catturati in Italia, in ottemperanza all'ordinanza di polizia n. 5 (30 novembre 1943) emanata dalla Repubblica Sociale Italiana che, nel dichiarare gli ebrei appartenenti a nazionalità nemica, predispone campi provinciali per il loro internamento. Un primo gruppo di ebrei, in prevalenza famiglie, giunge a Fossoli nei primi giorni di dicembre; nel giro di breve il numero aumenta in modo esponenziale. Come ricorda Primo Levi, “... al momento del mio arrivo, e cioè alla fine di dicembre 1944, gli ebrei italiani nel campo erano centocinquanta circa, ma entro poche settimane il loro numero giunse a oltre seicento ...”. Dal gennaio 1944 cominciano ad arrivare anche oppositori politici, scioperanti che, a causa dell'andamento della guerra, non è praticabile inviare al confino. In questa fase, la segregazione degli internati non è totale: possono entrare muratori addetti alla manutenzione, contadini e rifornitori di generi di prima necessità. Don Francesco Venturelli, parroco di Fossoli, visita con regolarità il Campo per assistere quanti “tra gli ebrei sono cattolici” e in ogni modo si adopera per portare aiuto e conforto. Nel marzo del 1944 le competenze e l'amministrazione del Campo sono nel complesso definite. Il Campo vecchio, su via Grilli, assume la denominazione di Campo di concentramento per internati civili ed è diretto dalla Questura di Modena. In esso vengono rinchiusi, anche per un breve periodo, antifascisti, partigiani, genitori di renitenti alla leva, cittadini di nazionalità nemiche, detenuti comuni. Poco si conosce di come le autorità italiane gestivano quest'area del Campo che fu demolita nel 1946, come pure di quanti vi furono rinchiusi, maltrattati o uccisi. Il Campo nuovo, su via Remesina, diventa Polizei- und Durchgangslager (Dulag 152), Campo di polizia e di transito per oppositori politici ed ebrei gestito dal Comando di polizia di sicurezza nazista con sede a Verona, presente nella gestione del Campo già da febbraio. Diversi carteggi e testimonianze ci restituiscono condizioni di vita che sembrano accettabili. In particolare per quanti giungono a Fossoli dopo aver subito il carcere duro e la tortura, esso si presenta come una parentesi di relativa calma, su cui tuttavia sovrasta, cupa, l'incertezza del futuro. La disciplina interna diventa via via più dura; ai due episodi più clamorosi che avvengono nell'estate del ‘44 - ­l'assassinio di Leopoldo Gasparotto, dirigente del Partito d'azione, e la strage del Poligono di Tiro Cibene dove furono assassinati 67 internati del Campo - vanno aggiunti i maltrattamenti e le violenza gratuite che sempre più frequentemente si abbattevano sui prigionieri. Inoltre recenti ricerche permettono di ipotizzare che all'interno del Campo siano avvenute esecuzioni di partigiani. Non va dimenticato infatti che Fossoli è un anello ben funzionante del meccanismo della deportazione: ogni qualvolta nel Campo si raggiungeva un certo numero di internati (circa 600) veniva organizzato un trasporto ferroviario verso i Lager. Alla stato attuale delle ricerche si ha conoscenza di otto convogli partiti dalla stazione di Carpi: su quello del 22 febbraio 1944 viaggia anche Primo Levi. Il momento della partenza da Fossoli è fermato nelle parole di molte testimonianze: “... È il 21 giugno. Noi rimasti guardiamo i posti vuoti. Per ciascuno dei compagno partiti, ciascuno di noi ha commosse parole di rimpianto. Evochiamo episodi, frasi, atteggiamenti: è partita una parte dei migliori. Quando ci corichiamo credo che ciascuno di noi abbia l'impressione che il capezzale sia diventato di pietra..” (Enea Fergnani). “... Ci convocarono perché pulissimo le baracche per lasciare tutto in ordine. Nella confusione riuscii a raggiungere mia madre. Eravamo coscienti che era l'ultima volta che ci vedevamo …” (Gilberto Salmoni). L’avanzata del fronte, il pericolo dei bombardamenti, l'intensificarsi della lotta partigiana rendono difficile il controllo e la sicurezza del Campo. Alla fine di luglio i comandi tedeschi ne decidono la chiusura e il trasferimento degli internati nel Lager di Gries, un sobborgo di Bolzano. Ma il Campo resta ancora sotto l'autorità tedesca che lo utilizza fino a novembre come campo di transito per trasferire forza lavoro nel Reich: Fossoli diventa uno dei principali centri italiani per lavoratori coatti - rastrellati, partigiani, oppositori - da cui, si ipotizza, siano transitate complessivamente dalle 10.000 alle 15.000 persone.

 

Le forme della solidarietà

 

Le ricerche sul rapporto tra il Campo e il territorio sono appena all'inizio e la complessità della rete di relazioni intercorse è appena abbozzata. Sappiamo, perché riportate in diverse testimonianze anche orali, che gli internati potevano contare sulla complicità di chi aveva accesso al Campo; in questo modo è stato possibile sottrarre alla censura le lettere, far giungere cibo, vestiario, pacchi e anche denaro. A questi che sfidano le perquisizioni delle guardie, bisogna aggiungere chi fuori si adopera per procurare aiuti di ogni genere. In tal senso va segnalato l'impegno del vescovo Dalla Zuanna e di sacerdoti e associazioni cattoliche nonché l'attività assidua di don Venturelli, parroco di Fossoli, che ha cercato di soccorrere in ogni modo gli internati. In particolare, l'azione di soccorso della diocesi di Carpi diventa efficace verso i lavoratori coatti, molti dei quali, dichiarati non idonei al lavoro, sono messi in libertà e vengono assistiti dalla diocesi stessa. Il Campo è anche nelle attenzioni delle organizzazioni della Resistenza che studiano la possibilità di far fuggire degli internati. Il Comando unico partigiano di Bologna e il Partito d'Azione mandano sul luogo degli emissari per verificare la fattibilità del progetto. Nonostante all'interno del Campo si sia attivato una piccolo nucleo di resistenza (come viene descritto anche nel Diario di Leopoldo Gasparotto) le difficoltà di una simile impresa risultano troppo grandi e il progetto è abbandonato. Continueranno invece i collegamenti tra i gruppi politici in clandestinità e i prigionieri attraverso diversi canali: operai della zona che lavorano al Campo, persone che si fingono parenti in visita, lo stesso don Venturelli. Le ultime ricerche hanno ricostruito un altro tassello che chiarisce l'organizzazione e la diffusione della rete di salvataggio attiva nel territorio, un'organizzazione ampia che ha potuto contare sul contributo di tanti: eroi nascosti che in tempi difficili hanno ascoltato la propria coscienza, arrivando a compiere consapevolmente la scelta di andare contro una legge positiva, in difesa e a tutela della vita dei perseguitati. In questo contesto Odoardo Focherini e don Dante Sala rappresentano le figure emergenti di quella rete e portano una testimonianza forte di solidarietà e resistenza. Odoardo Focherini si era formato e aveva lungamente lavorato nell'associazionismo cattolico, in particolare nell'Azione Cattolica. Già nel 1942 aveva preso in carico dei profughi ebrei polacchi per farli espatriare, ma dopo l'8 settembre 1943 la sua azione per salvare dalla deportazione gli ebrei, ora in pericolo di vita anche in Italia, si intensifica. Assieme all'amico don Sala organizza un'efficace rete di salvataggio che riuscirà a condurre in Svizzera oltre cento ebrei. Nonostante l'assoluta segretezza delle operazioni, don Dante Sala è arrestato, ma riesce ad evitare la pena per insufficienza di prove. Diversa è la sorte di Focherini. Arrestato nel marzo del 1944, probabilmente per una delazione, è incarcerato a Bologna e successivamente internato a Fossoli, poi trasferito a Gries, quindi deportato a Flossembuerg. Morirà nel dicembre del 1944 nel sottocampo di Hersbruck. Da Fossoli scrive alla moglie Maria “Sono per ciò che mi riguarda più che tranquillo qualunque sia il domani: unico pensiero il tuo e quello dei bambini, ma non in sé ma in rapporto alle conseguenze della guerra e quello di babbo e mamma, e di me non mi preoccupo né punto né poco …”. Entrambi hanno ottenuto dallo Stato di Israele il riconoscimento di 'Giusto tra le nazioni'.

 

Il Campo nel dopoguerra

 

L’attività del Campo si prolunga ben oltre la conclusione del conflitto, fino agli anni '70, attraversando l'epoca della difficile transizione del dopoguerra e incrociando fenomeni decisivi della storia, non solo nazionale, di quegli anni. Il periodo sicuramente meno conosciuto è quello in cui fu Centro raccolta profughi (1945-1947). Scarsi sono i documenti relativi a quella gestione e molto labili le testimonianze. Sappiamo che una parte del Campo fu usata dalle forze di Liberazione e di Pubblica Sicurezza come prigione per soldati nazisti, collaborazionisti e fascisti; successivamente le autorità alleate iniziarono a inviarvi gli 'stranieri indesiderabili', una moltitudine di profughi con destini e storie individuali diverse e distanti, che le ragioni della guerra aveva costretto a vagare per l'Europa per poi concentrare nei centri di accoglienza. Numerose le petizioni indirizzate dagli 'indesiderabili' a uomini politici, al Pontefice per denunciare la loro misera condizione “... noi siamo settanta tra donne e uomini, appartenenti a tredici Nazioni, rinchiusi per ordine del Ministro degli interni in questo campo-prigione, senza nessun processo, senza condanne, perché senza reati […]. Molti provengono da altri campi di concentramento, avendo sofferto per anni interi. Altri sono rifugiati qui in Italia per sfuggire alla dilagante influenza sovietica nei loro disgraziati paesi. Alcuni sono da anni residenti in Italia, sposati con figli avuti da madri italiane. Siamo qui non in campo di profughi, ma di concentramento, senza libertà e con vitto limitato e insufficiente …”. Le precarie condizioni igieniche, l'affollamento (anche oltre 1.000 persone), l'ozio forzato, le condizioni climatiche rigide, le sopraffazioni dei gruppi più numerosi (ex soldati tedeschi e ustascia croati), resero la vita difficile a molti profughi, in particolar modo alle donne e ai bambini. Gli abitanti del territorio vivono come minaccia la presenza del Centro, nonostante sia stato costruito, per ulteriore sicurezza, un muro di recinzione. Quando il Centro fu sgomberato, nelle strutture lasciate libere don Zeno Saltini trasferisce la sua "Opera Piccoli Apostoli" fondando la comunità di “Nomadelfia”, alla ricerca di nuove forme di sostegno e tutela per i tanti orfani, grazie all'aiuto delle 'mamme di vocazione', che accettano come missione di accudire e crescere i bambini. In questa fase furono demoliti i segni più evidenti della reclusione che il Campo di Fossoli aveva mostrato per tutti quegli anni: muri, filo spinato, torrette di guardia e reticolati cadono sotto la spinta dei giovani guidati da don Zeno per fare spazio a orti, scuole, botteghe. Nella "città dove giustizia è legge", come ha definito “Nomadelfia” il suo fondatore, possono così trovare rifugio oltre 800 persone. L’esperienza si conclude nel 1953. L’anno successivo l’ “Opera Assistenza Profughi” giuliano-dalmati prende in affitto l'area per destinarla ai profughi italiani provenienti dall’Istria: nasce il Villaggio San Marco. La vicenda del Villaggio San Marco, che rappresenta la fase più lunga di occupazione del Campo, è rimasta a lungo in un cono d'ombra, rimossa assieme al fenomeno dell'esodo giuliano, che costituisce uno dei momenti più travagliati delle storia contemporanea del nostro Paese. Le famiglie, che giungono a Carpi e trovano alloggio nelle strutture di un ex campo di concentramento dopo aver lasciato affetti e cose, incontrano la diffidenza e la chiusura che accompagnano esperienze analoghe. “... Al nostro arrivo c'è chi non ha capito il senso del nostro dolore, del nostro disagio, tacciandoci con aggettivi che non riporto e che fiduciosi abbiamo dimenticato …”, così racconta a distanza di tempo un istriano di Carpi. Nonostante le difficoltà, all'interno del Campo si ricostituisce una particolare forma di vita comunitaria, un microcosmo autosufficiente: del Campo si mantiene tuttavia la struttura chiusa, che rimarca la separazione, ma all'interno vi sono spazi verdi pubblici e privati, strutture ricreative, una scuola, esercizi commerciali. Le baracche prendono l'aspetto di abitazioni accettabili. Nel 1970 le ultime famiglie giuliane lasciano il Villaggio San Marco. Il Campo resta in totale abbandono fino al 1984, quando il Comune di Carpi ne diviene proprietario.

 

La responsabilità del Campo: da sito storico a luogo per educare.

 

La legge che decreta il passaggio dell'area del Campo al Comune di Carpi è una tappa fondamentale perché dà un impulso rinnovato alle politiche della memoria sulla deportazione che amministrazione e associazioni locali hanno sempre tenuto viva, proprio in virtù di quella presenza. Nel 1955 è inaugurata a Carpi la prima mostra fotografica a livello nazionale sui Lager nazisti. Ben 23 delegazioni europee partecipano alla manifestazione e, a partire dagli orrori delle immagini esposte, stilano un manifesto comune di richiamo alla pace e al rispetto della persona; nel 1961, in occasione del centenario dell'unità d'Italia, l'amministrazione riproponeva una nuova edizione della mostra e con forza ribadiva la necessità di istituire un Museo e un Centro di documentazione a ricordo delle vittime dei campi nazisti e per non dimenticare quelle vicende; nel 1973 è inaugurato il Museo Monumento al deportato, un luogo memoriale unico nel panorama italiano ed europeo di quegli anni, frutto della progettazione comune di intellettuali ed artisti che avevano vissuto in prima persona la Resistenza e la deportazione e si proponevano di mantenere comunicabile quella esperienza sottraendola al pericolo dell'oblio. È questo il patrimonio storico, artistico e di forte richiamo civile che la Fondazione ex Campo Fossoli, creata nel 1996, ha a disposizione per lavorare. Centralità dei luoghi, innanzitutto, perché la prima attenzione è rivolta a rendere efficaci le visite, in modo da far emergere la complessità del luogo che si attraversa. È importante rendere evidente la stratificazione delle storie nel tempo e la loro specificità, far riflettere sul ruolo e la responsabilità di istituzioni e di singoli di fronte alle scelte; intrecciare la diversità delle scale cui le vicende del Campo rimandano: locale, ma anche nazionale e internazionale per il posto occupato da Fossoli nella geografia della deportazione. Indispensabile, infine, il ricorso alla storia, per approfondire i fenomeni con l'ausilio degli archivi simulati che presentano documenti dell'epoca, ma anche l'ascolto delle voci polifoniche dei testimoni che in modo soggettivo ci restituiscono le tante esperienze personali che si sono intrecciate su quel luogo. Obiettivo è far riflettere sulla complessità della storia, la diversità dei punti di vista, abituare alla ricerca della genesi e dello sviluppo dei fenomeni e non fermarsi alla percezione del loro manifestarsi; usare la valenza simbolica e fisica dei luoghi per portare i ragazzi vicino ai fenomeni, usare la disciplina storica come strumento che sviluppa l'analisi critica, una competenza indispensabile per orientarsi nel tempo presente, per imparare ad agire con responsabilità nella propria storia.

 

Da Tempi di scelta. Storie di 4 luoghi. Guida didattica, Museo Cervi, Fondazione ex Campo Fossoli, Fondazione Villa Emma, Fondazione Scuola di Pace di Monte Sole. Progetto di Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e Anne Frank House, Amsterdam.

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