da L'Espresso 50 anni, vol. 5
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novembre 2000 - Stragi nazifasciste / La verità su colpevoli e insabbiamenti
L’armadio della vergogna
A Sant’Anna di Stazzema. Cefalonia. Spunta il registro degli orrori con
i nomi degli assassini celati per 50 anni. In nome della ragion di Stato
di Franco Giustolisi
Sono pagine che
documentano il capitolo più vergognoso dell'Italia
postfascista. E insieme il più ignorato. Fanno parte del registro degli orrori
di cui L'Espresso ha ottenuto, eccezionalmente, copia. Vi sono
inventariati i tantissimi crimini, mai perseguiti, commessi dai nazifascisti a
danno dei cittadini italiani. Migliaia di morti: bambini (118 solo a S. Anna di
Stazzema), vecchi, donne, uomini. Da una parte gli inermi, gli innocenti.
Dall'altra i mitra dei tedeschi e dei legionari di Salò. Gli assassini: se ne
conoscevano i nomi, in moltissimi casi, e negli altri, a ridosso degli eventi,
non sarebbe stato difficile accertarne l'identità. Le vittime: non hanno avuto
ancora giustizia perché ciò non conveniva politicamente. Non era opportuno
riaprire le ferite con la Germania di Konrad Adenauer che, risorta dalle rovine
della guerra, era un baluardo antisovietico a fianco della Nato. E si è
preferito insabbiare. Anzi: sotterrare denunce, inchieste, esposti. Finivano
dentro l'armadio della vergogna custodito nella sede della Procura generale
militare, a Roma, protetto da un cancello di ferro. Quando fu scoperto dal
magistrato Antonino Intelisano, si accertò la volontà sepolcrale di alcuni
personaggi politici, accontentati dalle Loro Eccellenze, i signori procuratori
generali militari, perlomeno sino al 1974. Si constatò che in quell'armadio
erano stati occultati 695 fascicoli: 280 furono rubricati a carico di ignoti
nazisti e fascisti. Gli altri 415, invece, a carico di militari tedeschi e
italiani identificati. Erano accusati di violenze, omicidi, eccidi, a danno di
persone estranee ai combattimenti. Nel registro, custodito nell'armadio e
continuamente aggiornato, sono state burocraticamente elencate tutte le
omissioni di coloro che avevano il dovere di rendere giustizia. È formato da
grandi fogli, sono 231, lunghi 42 centimetri e larghi 30. Soltanto la prima
pagina riporta 456 morti. Al numero uno è scritto con bella grafia, in
corsivo, l’«eccidio delle Fosse Ardeatine ed altre località vicine». È
uno dei rarissimi casi in cui la giustizia ha fatto il suo corso, come per
l'eccidio di Marzabotto segnato al numero 1937 del registro nero. In quel registro sono anche annotate le stragi
omesse dopo 1'8 settembre a danno dei militari italiani che, per quanto traditi
dal re e da Badoglio fuga, non si arresero. Da quella di Korica, nel Kosovo, a
Lero, Scarpanto... Al numero 1167 è registrato l'eccidio di Spalato; come
colpevoli sono indicati «generale von Ritter e Schothuber August, co.te delle
SS»; le vittime: «Cigala Fulgosi Alfonso [generale di divisione, medaglia
d'oro alla memoria, ndr], e altri 48 ufficiali e 700 militari ignoti. Ma, colpo di scena, sul
registro è annotato che il fascicolo fu trasmesso alla Procura di Padova il 16
luglio 1947. Com'è possibile? Tutto fu sepolto, ma questa strage no? Niente
paura: da nostre ricerche risulta che il 22 dicembre 1951 il fascicolo fu
archiviato provvisoriamente", come verrà fatto anni dopo per tutte le
inchieste, e poi definitivamente. Al numero 1188, Cefalonia. Sono indicati i
nomi dei responsabili di quell'eccidio: «Ten. col. Barge, comandante del 999°
fanteria di fortezza, magg. Hirschfeld, comandante di brigata della divisione
tedesca alpina» e altri. Le vittime: «Militari italiani fatti prigionieri
nell'isola di Cefalonia».
I ministri che
sotterrarono i fascicoli
Erano i soldati della
divisione Acqui, resistette ai tedeschi. Quando si
dovettero arrendere, furono massacrati. Ben 6.500. I corpi bruciati o gettati
in mare con zavorre di pietre o infoibati nelle caratteristiche grotte
dell'isola, dopo essere stati predati di tutto. «È stata una delle azioni più
arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato», disse
il generale Telford Taylor, capo dell'accusa, al processo di Norimberga. In Italia glissarono. Quando
parenti delle vittime sollecitarono inchieste e
processi, due ministri del primo governo Segni si scrissero, alla fine del 1956,
per convenire che non era il caso di compromettere la rinascita della
Wehrmacht riportando a galla episodi deplorevoli, certamente, ma che ormai
appartenevano al passato. Mentre il futuro era la Nato. I ministri, le cui
lettere sono state pubblicate sul numero 1 di Micromega di quest'anno,
erano Gaetano Martino, liberale, titolare degli Esteri, e Paolo Emilio Taviani,
democristiano, titolare della Difesa, poi senatore a vita. Ma non furono
loro, per lo meno sembra, a creare i presupposti dell'armadio della vergogna.
Chi, allora? Per ora non c'è risposta, come non è stata data risposta alle
richieste di danni morali e materiali presentate alla Corte europea dei diritti
dell'uomo di Strasburgo, dato il silenzio delle autorità italiane, da parte
dei parenti delle vittime. A chi, dunque, va la tremenda responsabilità
dell'affossamento della giustizia? Nomi non ne sono ancora usciti fuori, tranne
quelli dei tre procuratori generali che si sono susseguiti nel tempo: Umberto
Borsari, Arrigo Mirabella ed Enrico Santacroce. Ma loro erano solo esecutori.
Chi dette l'ordine? Non il governo Parri, il secondo di liberazione nazionale,
che creò gli strumenti per perseguire i crimini di guerra, come attestano
verbali dell'epoca ritrovati dal Cmm. Anche i tre governi successivi, guidati da
Alcide De Gasperi, erano espressione dei partiti del Cln, gli stessi che avevano
condotto la guerra di liberazione e, di conseguenza, alieni da tentazioni al
compromesso verso i responsabili di tante stragi. Ma nel maggio del 1947
socialisti e comunisti escono dalla maggioranza, la guerra fredda incalza. Nasce
la lunga serie dei governi centristi, sempre a guida degasperiana, con un uomo
nuovo come sottosegretario alla presidenza del Consiglio: Giulio Andreotti.
Qualcuno dei superstiti di quelle esperienze deve sapere, può dare un nome ai
responsabili politici di quella giustizia negata. La commissione d'indagine che
sarà presto al lavoro lo accerterà.
16 novembre 2000 – Il senatore
Taviani e le stragi naziste impunite
Sì, ho insabbiato Cefalonia
Anno: 1943. nell’Egeo i tedeschi massacrarono seimila soldati italiani.
Un eccidio che non sarà mai punito. Ecco come è accaduto.
di Franco Giustolisi
«Io
debbo rispondere soltanto di una sigla apposta in calce a una lettera del mio
collega Gaetano Martino...». Paolo Emilio Taviani, 88 anni, senatore a vita,
presidente dell' Associazione dei partigiani cattolici, per la prima volta, in
questa intervista all' Espresso, risponde senza esitazioni ai tanti
interrogativi suscitati dalla pubblicazione della corrispondenza tra lui e il
suo collega con la quale si decideva di non perseguire i responsabili della strage di Cefalonia. In quell'isola dell'Egeo, tra il 20 e il 22 settembre del 1943, 6.500
uomini della divisione Acqui furono selvaggiamente massacrati dopo essersi
arresi. L'ordine, impartito da Hitler, venne eseguito con determinazione
inumana. «È stata una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli della
lunga storia del combattimento armato», disse il massimo rappresentante
dell'accusa al processo di Norimberga. Finita la guerra, familiari delle
vittime e superstiti si batterono perché i 31 militari tedeschi responsabili
di quell'eccidio venissero processati. Niente da fare, la politica pose il veto.
Era l'ottobre del 1956: Martino, liberale, ministro degli Esteri, scrive a Taviani, Dc, ministro della Difesa (facevano parte
del governo presieduto da Antonio Segni, anche lui Dc), proponendogli in
sostanza l'affossamento di ogni percorso di giustizia. Questo in nome della
risurrezione della Wehrmacht, necessaria alla Nato in funzione anti-Urss. La
stessa logica che portò alla creazione dell' "armadio della
vergogna", dove furono sepolte tutte le denunce dei crimini commessi dai
nazifascisti a danno dei civili italiani.
Senatore Taviani, lei il
20 ottobre del 1956 scrive a penna in
calce alla lettera che le è stata inviata: «Concordo pienamente con il ministro Martino». Una
sigla, sì, ma che consentì l'affossamento della giustizia.
«Non intendo minimizzare. Il mio consenso contribuì
certamente a creare quella che lei definisce la sepoltura della giustizia.
Dire che oggi lo rifarei, sarebbe una gratuita provocazione. E cercare di far
capire che forse in quei momenti convulsi non compresi appieno il significato di
quella decisione, sarebbe come cercare a posteriori delle giustificazioni
impossibili. La verità è che la guerra fredda imponeva delle scelte ben
precise, anche a costo di…».
Anche
a costo di seppellire, una seconda volta, i 6500 soldati che si erano
valorosamente battuti, benché traditi da Vittorio Emanuele e dai suoi generali?
«In
quei giorni, quando scrissi quella brevissima frase,
l'Unione Sovietica stava invadendo l'Ungheria con tutte le ripercussioni che
chi ha vissuto in quel periodo conosce bene... Aveva anche ragione Martino a prevedere che un eventuale processo per
l’orrendo crimine di Cefalonia, avrebbe colpito l’opinione pubblica
impedendo forse per molti anni la possibilità per l'esercito tedesco di
risorgere dalle ceneri del nazismo. Io sono stato uno dei precursori della
necessità del riarmo della Germania. Sia ben chiaro che questo non lo dico ora
che vengo chiamato in causa dopo la pubblicazione del carteggio tra me e
Martino: lo testimoniano tanti articoli, e dichiarazioni sin dal 1953».
Insomma, lei sembra voler
dire che quella decisione, se non le fu quasi strappata, fu presa perlomeno
senza
matura riflessione. Ma lei il 12 febbraio del 1957, nemmeno quattro mesi dopo, a
Martino che ribadiva la sua posizione al padre di una delle vittime, rispondeva:
«...Ti comunico che condivido le tue valutazioni e l’atteggiamento del
ministero degli Esteri nella questione". Errare umanum est, diabolicum
perseverare, si potrebbe dire.
«Non
cerco alibi o scusanti, dico come stanno le cose e a
guidarmi fu la ragion di Stato. Quella seconda comunicazione non era altro che
la logica conferma di un atteggiamento già assunto in quel clima di guerra
fredda».
Questo per quel che riguarda
Cefalonia. E per gli altri fascicoli dei crimini nazifascisti, da Sant'Anna di
Stazzema a Barletta, da Fossoli a piazzale Loreto, chi diede l'ordine di
sotterrarli, di nasconderli? Il Consiglio della Magistratura Militare che ha
condotto l'inchiesta sull'armadio della vergogna, non ha potuto accertarlo. Ma
ha detto che l'ordine venne dal mondo della politica, i procuratori generali
militari si limitarono a eseguire. Ne sa niente?
«Per
carità: la tragedia di Cefalonia,
orribile, feroce, inumana, era stata
provocata dalla guerra, era una coda della guerra, un qualcosa che era avvenuto
tra militari. Ben diverso lo sterminio di civili, bambini, donne, vecchi,
uomini, gente indifesa, uccisa spesso neanche per rappresaglia. No, io non detti
quell'ordine, non l’avrei mai dato neanche per ragioni di Stato».
Esaminando la
documentazione del Consiglio della Magistratura Militare, si dovrebbe dedurre
che a dare quell'ordine furono predecessori suoi e di Martino. Di sicuro non
furono i componenti dei governi di liberazione nazionale: quasi sicuramente
l'armadio della vergogna nasce con una delle compagini successive all'uscita dei
comunisti e dei socialisti dalla maggioranza, a seguito dell'intensificarsi
della guerra fredda. Chi, secondo lei, dette l'ordine ai procuratori
generali militari Umberto Borsari, Arrigo Mirabella e Enrico Santacroce?
«A meno che non abbia un vuoto di memoria o,
addirittura, che l'abbia improvvisamente rimossa, non ricordo di aver avuto mai
a che fare con questi magistrati... Quale governo? Alcide De Gasperi era un
antifascista, come Mario Scelba, checché se ne dica. Scelba mise alla
porta l'ambasciatrice Usa Clara Boothe Luce quando andò a proporgli di mettere
fuori legge i comunisti. "Mica siamo in una repubblica sudamericana",
le disse. Ma con Scelba andiamo troppo avanti: lui fu presidente del Consiglio
tra il 1954 e il '55. La decisione di insabbiare i crimini nazifascisti
dovrebbe essere stata presa prima. Torniamo a De Gasperi, ma sarei molto
sorpreso se emergesse una sua responsabilità»,
Non potrebbe essere che,
come è accaduto per Cefalonia, anche per i crimini contro i civili fossero
stati i ministri degli Esteri e della Difesa a decidere?
«Miei
predecessori furono Mario Cingolani, dc, Cipriano Facchinetti, repubblicano, e
poi Randoldo Pacciardi, anche lui repubblicano. Cingolani faceva tutto ciò
che gli diceva De Gasperi che un giorno lo giustificò dicendo: "Lui e
Giorgio
Tupini sono le persone che mi sono state più vicine durante il periodo
fascista". Cingolani e Facchinetti rimasero alla Difesa per pochi mesi; poi
subentrò Pacciardi che restò in carica dal maggio del 1948 al luglio del 1953».
Lei pensa che Pacciardi...?
«Io
non penso niente. So quel che tutti sanno: era un feroce anticomunista. E
ministro degli Esteri più o meno dello stesso periodo fu Carlo Sforza, anche
lui repubblicano e di comprovata fede atlantico-americana».
In
quei governi, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio c'era Giulio
Andreotti. lui è uno di quelli che potrebbe sapere...
«Su
Andreotti non dico niente».
La Commissione Difesa
della Camera sta istituendo un comitato di indagine parlamentare per accertare
le responsabilità connesse all'affossamento delle responsabilità dei
nazifascisti. Se verrà chiamato, andrà?
«Certamente.
È un mio preciso dovere»,
Da L’Espresso 50 anni, vol. 5, 9 e 16 novembre 2000, per gentile concessione