L'Espresso

LA VERITÀ SULLE STRAGI NAZI-FASCISTE IMPUNITE

Cinquant'anni di insabbiamenti

Quasi tutti archiviati i fascicoli sugli eccidi del '44-45. E Salvi gli autori. Ragion di stato? Non solo

di Alessandro De Feo e Franco Giustolisi

MERCOLEDÌ 26 MAGGIO, TRIBUNALE Militare di Torino: si apre il processo contro due ex ufficiali delle Ss, il colonnello Siegfried Engel e il tenente Otto Kaess, accusati di una serie di stragi in Liguria, tra l'aprile del '44 e il 2 marzo '45. Le vittime furono oltre 200. Engel oggi ha 90 anni: vive libero e indisturbato ad Amburgo. Per Kaess verrà dichiarato il non luogo a procedere perché è morto nel '98 a Colonia. C'è voluto più di mezzo secolo per questo piccolo passo verso la giustizia. Troppo tardi, certo. Ma almeno è qualcosa. Per la memoria e il rispetto di quei martiri e delle loro famiglie. Rispetto che non avranno mai altre migliaia di vittime della ferocia nazi-fascista per colpa di un perverso connubio tra governi e militari.
AGUZZINI A SPASSO. "Archiviazione provvisoria": con questa formula magica il 14 gennaio 1960 la Procura Generale Militare della Repubblica. Ufficio procedimenti contro criminali di guerra tedeschi, bollò (e archiviò) migliaia di fascicoli che aveva ricevuto già nel 1946, e che contenevano i rapporti redatti dai carabinieri su reati e violenze compiute in Italia dalle truppe naziste e repubblichine. Molti di quei rapporti erano dettagliati: c'erano nomi e cognomi degli aguzzini, le testimonianze di chi aveva visto. Se quei fascicoli subito dopo la guerra fossero stati inoltrati alle competenti autorità giudiziarie, si sarebbero potuti celebrare altrettanti processi. Invece, tutto venne nascosto. Sepolto. Solo nel 1994 il sepolcro venne trovato casualmente dal procuratore militare di Roma Antonino Intelisano durante le indagini sul caso Priebke-Haas. Era occultato a Palazzo Cesi, a Roma, sede della Procura generale militare. Ma non all'ultimo piano, dove c'è l'archivio degli atti dei Tribunali di guerra soppressi e del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Bensì in uno stanzino in uno dei locali del pianterreno, chiuso da un cancello di ferro. Le carte erano in un armadio di legno con le ante sigillate e girate contro una parete. Una volta esaminati, i fascicoli vennero inoltrati alle procure militari di competenza: 150 a Roma, 160 a Torino, 102 a La Spezia, 105 a Padova e così via, per un totale di 695 incartamenti - e di 15 mila vittime - come documentò "L'Espresso" del 22 marzo e del 22 agosto '96. Dopo quella denuncia, il Consiglio della magistratura militare istituì (7 maggio 1996) una Commissione per indagare sull'insabbiamento. I suoi lavori si sono conclusi con un'agghiacciante relazione che "L'Espresso" è in grado di anticipare.
IMPOSSIBILE IDENTIFICARLI. "Già a un primo sommario esame", scrivono i relatori, "ci si era resi conto che il materiale rinvenuto era piuttosto scottante". In molti casi i documenti contenevano anche verbali di informazioni raccolte dalle Commissioni anglo-americane di inchiesta sui crimini di guerra: atti che, una volta trasmessi ai nostri organi militari, nessuno si preoccupò nemmeno di tradurre. E anche lì c'erano nomi, indicazioni, testimonianze per risalire agli autori di molte stragi. Tanto che, si legge nella relazione, "il trattenimento presso la Procura generale militare dei rapporti e delle denunce che vi erano arrivati provenienti da tutta Italia, circa 2 mila. di cui 1.300 trasmessi alle Procure Militari negli anni 1966-'68 e i rimanenti solo nel 1994-96) non è stata semplice conseguenza di decisioni non condivisibili o inopportune, bensì, più particolarmente, il frutto di un insieme di determinazioni radicalmente contrarie alla legge, adottate da un organo privo di ogni competenza in materia, che hanno sistematicamente sottratto gli atti al pubblico ministero competente e perciò impedito qualsiasi iniziativa di indagine e di esercito dell'azione penale". Dunque, una macroscopica violazione della legalità. E al danno si aggiunge la beffa: i circa 1.300 fascicoli trasmessi nella seconda metà degli anni Sessanta erano i più inoffensivi. In quanto privi di qualsiasi elemento utile per identificare i responsabili dei reati. Quelli con le prove rimasero sotto chiave.
ABUSIVI IN PROCURA. L'illegalità è comincia nell'immediato dopoguerra, quando capo della Procura generale militare era Umberto Borsari. Ed è proseguita con i suoi successori: Arrigo Mirabella (dal 1954) ed Enrico Santacroce (dal '58). È proprio Santacroce che nel gennaio 1960 fa apporre. sui fascicoli la dicitura "archiviazione provvisoria". La Commissione d'indagine non ha dubbi sulle sue responsabilità. E scrive: "Il sistematico mancato esercizio dell'azione penale è dunque da attribuire all'abusivo trattenimento degli atti da parte della Procura generale militare". Dopo Santacroce, nel '75 arriva Ugo Foscolo. Poi, nel '78, Vittorio Veutro. A lui succedono Piero Stellacci (1986), Leonardo Campanelli (1987) e Renato Maggiore, titolare dell'ufficio al momento della scoperta dell'archivio. Commenta Raimondo Ricci, vicepresidente dell'Anpi: "È essenziale che gli italiani non rimuovano la memoria di una violenza che è stata la più grave subita dal nostro paese nell'età contemporanea. Come è essenziale che si sappia che la grande maggioranza degli eccidi nazi-fascisti sono rimasti impuniti perché alcuni responsabili di un ufficio di vertice della magistratura militare hanno deliberatamente impedito che si facesse giustizia".
PROCURE PERDONISTE. Ma è pensabile che la responsabilità di tutto sia da attribuire solo ai personali convincimenti dei procuratori generali? Sembrerebbe proprio di no. Anche perché, per lo meno in una prima fase, lo stesso Borsari si era attivato per una puntuale denuncia di tutti i crimini nazi-fascisti. Come mai cambiò idea? La chiave di lettura è in un carteggio tra la Procura generale militare e il ministero della Difesa. È scritto nella relazione: "Se si ritiene che nell'illegalità delle determinazioni della Procura generale militare non possono che essere confluiti motivi di opportunità politica, in un certo senso una superiore ragion di Stato, dal carteggio acquisito se ne può desumere una puntuale definizione", E si racconta un episodio emblematico. Verso la fine del 1956 (era in carica il governo di Antonio Segni), un procuratore militare si era rivolto all'autorità di governo per un'ennesima istanza di estradizione da presentare al governo della Repubblica Federale di Germania. L'esito della richiesta era scontato: tra l'Italia e la Germania era in vigore il trattato approvato con legge 18 ottobre 1942 (n. 1.344) per cui l'estradizione verso il nostro paese non era consentita "dalla condizione di cittadino tedesco e dalla natura politica dei reati". Con una nota del 10 ottobre 1956 diretta al ministro della Difesa, ed ex partigiano, Paolo Emilio Taviani, il ministro degli Esteri, Gaetano Martino, spiega, o forse ribadisce, la linea politica del tempo. Martino è preoccupato dagli " ... interrogativi (che) potrebbe far sorgere da parte del Governo di Bonn una nostra iniziativa che venisse ad alimentare la polemica sul comportamento del soldato tedesco. Proprio in questo momento, infatti, tale Governo si vede costretto a compiere presso la propria opinione pubblica il massimo sforzo, allo scopo di vincere la resistenza che incontra oggi in Germania la ricostruzione di quelle Forze armate, di cui la Nato reclama con impazienza l'allestimento "È pienamente adesiva", si legge nella relazione, "la nota di risposta del ministro della Difesa in data 29 ottobre 1956". Per arrivare a questi documenti la commissione del Cmm ha impiegato tre anni perché si trattava di materiale coperto dal segreto di Stato. E non è detto che non ce ne siano altri: è difficile pensare che altissimi magistrati militari si siano assunti la pesantissima responsabilità di archiviare senza l'esplicito avallo del potere politico. "Non c'è dubbio", dice Lutz Klinkhammer esperto di Storia contemporanea e collaboratore dell'Istituto storico germanico di Roma: "L'avvio di processi penali contro centinaia di criminali di guerra tedeschi negli anni Cinquanta e Sessanta, avrebbe sicuramente creato delle difficoltà per l'immagine internazionale della Germania nonché per la sua integrazione europea. Il problema si sarebbe aggravato, poi, per la mancata estradizione degli accusati, con una sfilata di processi in contumacia che avrebbero rafforzato nell'opinione pubblica l'immagine negativa della Germania". Il procuratore Intelisano, che e pure presidente dell'Associazione nazionale magistrati militari, aggiunge: "Si tratta di una decisione, alias insabbiamento, sostanzialmente perdonista, adottata - com'è accaduto per altre vicende - al di fuori di ogni regola, per una supposta ragion di Stato, slegata da ogni procedura e dai controlli della pubblica opinione".
GIUSTIZIA FAI-DA-TE. La Nato, la Germania, la guerra fredda... Una rigida cortina di silenzio, di omertà e di complicità copre i fascicoli. E il corso della giustizia è deviato in un vicolo cieco. Sono state accertate le responsabilità per le stragi delle Fosse Ar-deatine, Marzabotto e poche altre. Ma a quanti altri colpevoli si sarebbe potuto dare un nome e un volto? Un anno fa, il 3 aprile 1998, i sindaci dei comuni di Bucine, Ca-vriglia, Civitella della Chiana e Stia, dove i nazisti sterminarono nel '44 oltre 600 cittadini inermi, incaricarono lo storico Carlo Gentile dell'Università di Colonia, di far luce su quelle stragi. E Gentile consultando tutte le fonti ha consegnato una relazione in cui si individuano le responsabilità di unità della divisione Hermann Goering, con nomi e cognomi dei possibili esecutori materiali delle stragi, alcuni ancora vivi e vegeti. La relazione è stata depositata presso la Procura militare di La Spezia. "Chiedere giustizia anche mezzo secolo dopo", commenta Leonardo Paggi, docete di Storia contemporanea all'Università di Modena. "non significa voler fare vendetta. Significa ridare volti e nomi ai massacratori. Perché la storia non si può scrivere solo con le testimonianze delle vittime".

L'Espresso - 27 maggio 1999

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