L'Espresso:  dossier del 27 gennaio 1995

Auschwitz. 27 gennaio 1945: la fine dell'orrore. L'Olocausto 50 anni dopo 

colloquio con Michael Lerner - di Wlodek Goldkorn

Il 27 gennaio di cinquant'anni fa, le truppe sovietiche liberavano i pochi prigionieri sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz. Un cumulo di baracche, le rovine delle camere a gas fatte saltare in aria dai tedeschi un attimo prima della fuga. E migliaia di scheletri viventi. Da allora, la cittadina della Polonia sud-occidentale è diventata il simbolo, anzi, il sinonimo della Shoah: lo sterminio del "popolo ebraico".  Del significato di questo luogo (qui fu imprigionato tra gli altri Primo Levi), di questa tragedia che dallo stesso Levi, così come da Adorno, veniva considerata inenarrabile, "L'Espresso" ha parlato con Michael Lerner. Voce più autorevole dell'ebraismo americano contemporaneo, è considerato il guru intellettuale di Bill e Hillary Clinton. Cinquantunenne, studi rabbinici, passato di sinistra radicale (fu uno dei leader del ' 68 a Berkeley) alle spalle, Lerner dirige oggi la rivista "Tikkun", prestigiosa interprete del pensiero liberal dell'ebraismo americano.

Professor Lerner, perché le celebrazioni dell'anniversario della liberazione di Auschwitz hanno così grande eco in tutto il mondo?

«Auschwitz è importante, in primo luogo, perché ci permette di imparare fino a quale livello di disumanità può arrivare 'uomo. Fino a che punto possono diventare distruttive alcune dinamiche sociali. Nella storia del genere umano non era mai successo che un popolo avesse organizzato tutte le risorse tecnologiche di una società industriale avanzata al solo scopo di sterminare un altro popolo. Auschwitz è diventata quindi un simbolo della società separata dalla moralità, di come la tecnologia di una società industriale avanzata potesse essere impiegata in modo distruttivo. Auschwitz, infine, è un monito di quello che accade quando il progresso tecnologico non è subordinato ad una visione morale».

Il settimanale "Newsweek" ha dedicato la sua ultima copertina ad Auschwitz. Non sarebbe stato meglio se l'avesse fatto nel 1942 o nel 1943?

«Beh, sarebbe stato meglio se avesse dato la copertina alla Bosnia in questi giorni. Vede, è troppo facile fare dichiarazioni pie sul passato. È molto più difficile, invece, agire razionalmente e moralmente nel presente».

Ma non le sembra un abuso fare un parallelo tra Auschwitz e Sarajevo?

«Le due  situazioni non sono identiche, ma sono simili per la capacità del mondo di chiudere i propri occhi di fronte alla distruzione di massa di un gruppo di esseri umani da parte di un altro gruppo di esseri umani».

Il politologo Edward Luttwak ha detto all' "Espresso" che se durante la Seconda guerra mondiale le telecamere fossero state ad Auschwitz, non sarebbe cambiato nulla: avremmo guardato Auschwitz e poi saremmo andati fuori a cena dicendo "poveri ebrei" ...

«Sono d'accordo. L'informazione non è condizione sufficiente per formare una volontà morale. Oggi in molti sono in grado di riconoscere che le nostre società industriali avanzate stanno distruggendo il sistema ecologico del pianeta e che entro il Ventunesimo secolo probabilmente assisteremo a catastrofi ecologiche di gran lunga superiori a quanto visto finora nella storia del genere umano. Tuttavia questa consapevolezza, resa drammatica dalla televisione e spiegata dal movimento ecologista, non è sufficiente a generare azione politica».

Perché?

«Il motivo è che molti hanno finito col credere di essere impotenti, di non poter cambiare il mondo. E che pertanto farebbero meglio a utilizzare il proprio tempo per prendere cura solo ed esclusivamente di se stessi. Sviluppano insomma quella che io chiamo la convinzione dell' "impotenza aggiuntiva". Dico "impotenza aggiuntiva" perché noi siamo giunti a credere di essere più impotenti di quello che siamo in realtà. E allora, quando vediamo Auschwitz alla televisione, cinquant'anni dopo, ci battiamo il petto e diciamo: "Oh com'è terribile che il mondo potesse essere così" Ma poi facciamo la stessa cosa, oggi, con la Bosnia».

Parliamo di meccanismi che portano allo sterminio. Nel 1933, nessuno protestò in Germania contro l'antisemitismo. Perché?

«Perché si riuscì a rappresentare gli ebrei come gli "altri inferiori". Vede, in tutte le società industriali avanzate il valore di un uomo viene determinato dal successo raggiunto nel mercato. E se non ce la fai te la devi prendere solo con te stesso. La maggior parte della gente si sente però fallita, dato che non ce l'ha fatta. Ed è qui che si inserisce la destra, le forze reazionarie, che dicono: "Noi vi faremo sentire bene. Voi siete importanti non in virtù di ciò che riuscite a fare nel mercato, ma in virtù della vostra appartenenza alla nazione, all'etnia" ».

Ma il pregiudizio razziale ha necessariamente per obiettivo lo sterminio?

«Il pregiudizio razziale porta all'umiliazione dell'altro. Ma non credo che l'antisemitismo debba necessariamente portare allo sterminio. Vi sono molte società che ancora oggi presentano antisemitismo e che non hanno in animo di uccidere i loro ebrei».

Qual è quindi la differenza tra la Shoah e l'antisemitismo?

«Credo che a questo punto si debba tirare in ballo la pazzia di Hitler ... In Europa centrale e orientale c'era da tempo un odio profondo nei confronti degli ebrei. Ma prima di allora nessuno era mai salito al potere pensando di sterminarli tutti. Pertanto, si tratta di un movimento unico. Non era affatto inevitabile che accadesse. Anzi, il tutto avrebbe potuto prendere pieghe ben diverse. Fu un piccolo gruppo di persone guidato da Hitler a decidere di fare l'ultimo passo in quella direzione».

Crede che la Shoah sia un fatto unico o che invece si possa ripetere? Se non contro gli ebrei, magari contro un'altra parte della popolazione?

«Ci sono stati altri genocidi, e altri ancora ci saranno (ripeto: la Bosnia). Ma la Shoah è un momento unico: ma non c'è mai stato un genocidio il cui vero obiettivo fosse il genocidio stesso, senza che ciò fosse connesso a qualsiasi altro aspetto della vita sociale».

Perché l'ebraismo americano fece così poco a quel tempo per salvare gli ebrei in Europa? Tutti sapevano tutto e ciò nonostante vi furono pochissime proteste.

«Molti tra i leader della comunità ebraica temevano che se gli ebrei avessero sollevato una protesta negli Stati Uniti, la gente avrebbe pensato che stessero minando l'impegno bellico, e che pertanto sarebbero stati ritenuti traditori. Molta gente era convinta infatti che il miglior modo per fermare l'Olocausto fosse fermare Hitler. E il più impegnato nella lotta a Hitler era proprio il governo americano».

E poi?

«In secondo luogo, la leadership delle comunità ebraiche statunitensi era composta di gente convinta che il miglior modo per servire l'interesse del popolo ebraico fosse di allearsi con l'élite dominante americana. Dall'altro canto veniva loro assicurato: "Sì, certo, andrà tutto bene". Ma ovviamente non andava bene per niente, gli Stati Uniti non stavano bombardando i binari che conducevano ad Auschwitz e le loro porte erano chiuse agli immigrati. L'unico modo in cui la comunità ebraica avrebbe potuto cambiare questo stato di cose sarebbe stato aprire un conflitto duro con il potere. Protestare. Scendere in piazza. Ma avevano paura».

Parliamo del dolore. È possibile credere in Dio dopo quello che è successo, o per dirla con i teologi, dopo che Dio, ad Auschwitz, è rimasto in silenzio?

«Se lei sta parlando di un Dio che manipola le persone e interviene tutte le volte che ritiene che sia il momento adatto, allora è il tempo di piangere la morte di questo Dio. Quel Dio non c'è».

Io non intendo un Dio che interviene direttamente nella storia umana, bensì un Dio che possa prevenire che cose come Auschwitz accadano.

«Il massimo che Dio può fare è di dare al genere umano una serie di suggerimenti. Ed è quel che è successo sul Sinai. Una serie di suggerimenti che dicevano: "Tutti gli esseri umani sono stati creati a somiglianza di Dio. Non uccidere. Non rubare". Ma non è stato mica Dio a uccidere la gente, sono stati i nazisti. E tutti sono arrabbiati con Dio ...».

Professore, come ha influito la Shoah sull'identità di Israele?

«È stata usata dagli ebrei che non credono in Dio. Per loro la paura degli altri diventa fede. E l'Olocausto è la riprova della necessità di una forza ebraica, ma anche una prova dell'inevitabilità dell'isolamento degli ebrei. In tal modo gli ebrei finiscono per credere che l'Olocausto  abbia dimostrato che saranno sempre soli, che verranno sempre traditi, così come fummo traditi dalle nazioni al tempo dell'Olocausto. Eppoi, quando gli ebrei in Israele si comportano come se l'unica cosa in cui si può avere fiducia è la forza, consegnano la vittoria postuma a Hitler. Allo stesso tempo il dolore per quello che abbiamo passato fa sì che per noi sia molto difficile vedere il dolore che abbiamo causato, non intenzionalmente, al popolo palestinese. Loro (i palestinesi) hanno pianto il dolore e noi non siamo stati in grado di sentire il loro grido perché il nostro dolore era più grande».

Ma adesso c'è la pace; negli Stati Uniti gli ebrei appartengono spesso alla classe più elevata e in Europa sono ben integrati: non è forse la prima volta che gli ebrei vivono una situazione di normalità?

«Non ci sarà normalità per gli ebrei fintantoché vi sarà oppressione per gli altri. Finché vi è oppressione per gli altri sui quali indirizzare la rabbia del popolo. E gli ebrei continuano a essere un probabile bersaglio di quella rabbia. In secondo luogo, non c'è normalità per gli ebrei perché l'essenza dell'essere ebreo è di testimoniare la possibilità di trasformare il mondo da un mondo di oppressione in uno di libertà. E di testimoniare l'esistenza di Dio, che rende possibile questa trasformazione».

Un'ultima domanda. C'è una qualche razionalità nella Shoah?

«È forse razionale che gli uomini si uccidano l'un l'altro? E allora dobbiamo capire che la follia che portò all'Olocausto non fu un'irrazionalità che scese sulla terra improvvisamente nel 1933 e sparì come per magia nel 1945, ma fu piuttosto l'espressione e l'evolversi di un sistema mondiale di oppressione che continua a esistere. E che continua a generare nel mondo ogni tipo di follia sotto forme diverse».


«Fra altri 50 anni capiremo tutto»

 di Yehuda Bauer

Yehuda Bauer, presidente del Centro per la Ricerca sull'Antisemitismo, è il maggior studioso israeliano dell'Olocausto. Ha scritto 16 libri sull'argomento.

L'eredità dell'Olocausto è un fattore dinamico. Ogni gruppo in ogni momento dato che ne trae insegnamenti diversi, alcuni basati su quanto è realmente accaduto altri su interpretazioni o falsificazioni che vengono a soddisfare bisogni politici o psicologici. Come l'affermazione secondo la quale lo Stato ebraico, se fosse esistito durante la guerra, avrebbe potuto impedire l'Olocausto. Cosa ovviamente priva di senso perché un minuscolo Stato nella seconda metà degli anni Trenta avrebbe forse potuto salvare un numero di persone marginale rispetto ai milioni uccisi. Si collega spesso sensibilità verso il prossimo e moralità con il concetto di Olocausto, sostenendo che i discendenti delle vittime di un simile genocidio devono essere più sensibili e più morali. Siamo forse più sensibili ma non certo più morali.  Una lezione importante che viene tratta dall'Olocausto riguarda la capacità umana di uccidere .Il fatto che sia successo una volta ci insegna che può succedere ancora.  Oggi conosciamo esattamente le condizioni che lo hanno reso possibile. Se il cocktail di ideologia, burocrazia, tecnologia e guerra dovesse ripetersi non è impossibile che l'Olocausto avvenga di nuovo. Dico possibile, non probabile. Per ora l'Olocausto è un tipo di genocidio unico nel suo genere. È stata la prima e l'ultima volta che un singolo è stato condannato a morte per il solo fatto di essere nato. È stato il genocidio pi estremo da un punto di vista sociale. Moralmente il genocidio degli armeni o degli indiani non è diverso o meno grave, sono diversi però nel loro significato sociale.Ogni genocidio va studiato in particolare e confrontato con gli altri per capire in cosa si differenziano e in che modo sono simili. Ogni avvenimento estremo viene oggi paragonato all'Olocausto. Quando l'America interviene in Iraq Saddam Hussein è Hitler, se Clinton parla della Bosnia ricorda l'Olocausto. È diventato simbolo del male e il codice culturale che lo rappresenta. I paragoni non sono mai esatti ma si è cominciato a capire il significato estremo e determinante di questo avvenimento. L'Olocausto non è più una questione ebraica, è un fatto universale ed è universale proprio perché ebraico. Non credo che col tempo si arriverà a occuparsi meno dell'Olocausto. È destinato a diventare come la Rivoluzione francese e la scoperta dell'America, un avvenimento che emerge dalla storia, metastorico. È il trauma maggiore di questa società e come ogni trauma se viene ignorato diviene ancora più doloroso. Israele si occupa dell'Olocausto in continuazione, nel teatro, nel cinema, nella letteratura, nella musica. Ossessivamente.  Tra i sopravvissuti ai lager è molto comune il senso di colpa per essere gli unici rimasti di intere famiglie o comunità. È esattamente il contrario del realismo, per far fronte al trauma e accettarlo dobbiamo guardarlo in faccia, senza autocolpevolizzazione. Gli storici lo fanno, la collettività ancora non abbastanza. Eppure siamo sulla buona strada, penso che in passato la falsificazione della realtà sia stata maggiore. In fondo ci occupiamo dell'Olocausto dagli anni Sessanta, prima non se ne parlava, e 35 anni non bastano per acquisire il distacco sufficiente. Forse tra altri 50 anni le cose miglioreranno: sono ottimista.


Genocidio sul modem. L'Olocausto 50 anni dopo

 Il museo di Spielberg. Migliaia di ore di testimonianze filmate. Per un museo della Shoah. Voluto dal regista di "Schindler's List". Da diffondere sulla rete telematica Internet 

di Lorenzo Soria - da Los Angeles

Per Steven Spielberg, "Schindler's List è stato il veicolo che gli ha permesso, finalmente, di venire preso sul serio. Gli ha anche dato la soddisfazione di sette Oscar e la consapevolezza di avere realizzato il film definitivo sull'Olocausto. Dopo "Schindler" come affrontare in immagini un'altra volta l'enormità dell'orrore di quegli anni? Chi mai avrebbe accettato la sfida? Lo stesso Spielberg, che si appresta a fare non uno ma 50, forse 100 mila altri film sull'Olocausto. Il regista di "E. T." e di "Jurassic Park" ha infatti deciso di mettere i suoi soldi e la sua influenza al servizio di un ambizioso archivio storico multimediale, filmando le testimonianze individuali degli ultimi sopravvissuti degli anni di Auschwitz, Mauthausen, Buchenwald e dintorni. "Siamo impegnati in una gara contro il tempo", spiega Spielberg riferendosi al fatto che gran parte dei testimoni sono sui settanta, ottant'anni. "È essenziale che preserviamo le loro voci, che ricordiamo i loro volti, perché l'intolleranza razziale, culturale ed etnica, purtroppo, sono ancora tra noi".   L'idea di lanciarsi in quella che adesso è diventata la "Shoah Visual History Foundation" gli è venuta durante l'inverno passato in Polonia a girare "Schindler". Ogni giorno, spontaneamente, si presentavano dei sopravvissuti. Venivano a salutare, venivano a dare consiglio e, soprattutto, a raccontare la loro personale tragedia. "Mi piacerebbe potervi filmare", diceva loro Spielberg. "Perché poteste raccontare queste storie non solo a me, ma al mondo intero". Tornato a Los Angeles, gli è bastato contattare i boss di alcuni studios e altri amici ricchi e potenti e il suo desiderio è diventato realtà. La sede della Fondazione, il cui budget probabilmente supera i 560 milioni di dollari, è tutt'altro che maestosa; un gruppo di prefabbricati della Amblin Enterainment (la casa di produzione di Spielberg situata all'interno dello studio della Universal) già usati per il montaggio di "Jurassic PArk". Lo staff di una quarantina di persone è composto di storici, studenti, sopravvissuti, esperti di computer.

Ricordi, Oggetti, Immagini

Los Angeles è il cuore del progetto e il punto di destinazione di ogni nastro, che qui viene archiviato e catalogato digitalmente. Ma l'organizzazione ha già aperto uffici per procedere con le interviste in altre metropoli nordamericane che ospitano grandi comunità ebraiche: New York, Miami, Toronto, Chicago. In febbraio sarà la volta di Parigi e Sidney, quindi si parla di Gerusalemme, Amsterdam, Varsavia, forse anche Milano. Ogni intervista, filmata in formato Betacam, dura circa due ore. Per arricchire la documentazione, i testimoni mostrano foto della loro infanzia e dei parenti scomparsi e momenti particolarmente cari, come una Torah o una lettera d'amore sfuggita miracolosamente alle persecuzioni. Una copia dei film viene girata in video e subito inviata ai testimoni, che spesso hanno così l'occasione di rivelare finalmente ai figli e nipoti storie della loro vita rimaste sepolte nel segreto del loro dolore. "Molti si so o tenuti dentro tutto per cinquant'anni e hanno difficoltà a tornarci sopra", osserva June Beallor, direttrice del progetto assieme a James Mal. "Ma una volta che si apre la diga, la memoria ritorna".

Direttamente sul computer

Una seconda copia finisce a Los Angeles, dove viene convertita in forma digitale e poi catalogata e indicizzata per campo di concentramento, nazionalità, professione e altre parole chiave. Significa che forse via Internet e sicuramente attraverso alcuni centri collegati al progetto - come il Video Archive for Holocaust Testimony a Yale, l'Holocaust Memorial Museum a Washington e il Yad Vashem a Gerusalemme - sarà possibile richiamare in pochi secondi tutte le storie degli avvocati deportati dalla Francia piuttosto che degli ebrei olandesi che hanno avuto un figlio ucciso davanti ai loro occhi. "La tecnologia ci consente di fare cose che cinque anni fa sarebbero state impensabili", commenta Jim Banister, responsabile della catalogazione digitale. La tecnologia ha permesso di lanciare il più grande progetto di storia orale mai concepito, ma lo Spielberg della Shoah Foundation è quello di "Schindler", non quello di "E. T." o "Jurassic". "Questo non è un lavoro, è un impegno", sostiene Daisy Miller, che come coordinatrice degli intervistatori ascolta ogni giorno storie incredibili. Un'ebrea jugoslava è sfuggita all'orrore dei campi trovando rifugio nella campagna toscana, ma anche per lei l'Olocausto è stato l'evento che ha segnato la sua vita. "Siamo tutti emozionalmente feriti. Mi rendo conto che ho passato alcune mie paure alle mie figlie. E loro, probabilmente,  ai miei nipoti". Come accade spesso con i progetti di grande portata, La Shoah Foundation è appena nata e ha già i suoi detrattori, storici che in forma privata esprimono dubbi sul metodo e sulla professionalità degli intervistatori. I responsabili dell'organizzazione ribattono che sono in costante contatto con l'università di Yale e con altri prestigiosi istituti di studio e che le interviste rispecchiano standard storici rigorosi. "Quando hai di mezzo Spielberg e Hollywood, ci sarà sempre qualcuno che avrà da ridire", commenta June. "Steven è di là, nella palazzina accanto, che concepisce il seguito di "Jurassic Park" e sta mettendo in piedi il suo nuovo studio multimiliardario. Ma il suo cuore è qui". 


«Tutte le cifre del campo di sterminio»

25 gennaio 1940

progetto di edificazione ad Auschwitz di un campo di concentramento.

Maggio 1940

Rudolf Hoss nominato comandante del campo.

18 giugno 1940

arrivano i primi 728 prigionieri polacchi.

Estate 1941

si comincia ad attrezzare il campo per la cosiddetta "soluzione finale".

Settembre 1941

il gas tossico Ziklon-B, utilizzato per la disinfestazione degli insetti, è scelto come miglior metodo per l'eliminazione fisica di grandi numeri di persone.

Ottobre 1941

a tre chilometri dal campo comincia l'edificazione di Birkenau, poi denominato Lager II; 250 baracche capaci di contenere 200 mila prigionieri.

4 luglio 1942

è la data della prima "selezione sulla rampa". Fino a quel giorno i prigionieri giungevano con i treni, venivano tutti numerati e internati. Da ora in poi si fa una prima selezione degli inabili al lavoro che vengono mandati alle camere a gas: tutti i bambini sotto i 14 anni e gli adulti sopra i 40 anni.

Agosto 1942

il campo viene dotato di cinque forni crematori. Si mettono a punto quattro linee ferroviarie con altrettante stazioni. Ogni giorno giungono 15 treni carichi di prigionieri 

Aprile 1943

i forni crematori non sono più sufficienti. Si devono eliminare 10 mila prigionieri al giorno. Se ne costruiscono ancora quattro. Sono così 9 in tutto.

Maggio 1944

vengono scavate due grandi fosse comuni per bruciare i cadaveri con il petrolio. In ogni fossa si possono bruciare 12 mila cadaveri alla volta.

26 febbraio 1943

giunge il primo convoglio di zingari.

11 novembre 1943

il comandante Liebehenschel succede al comandante Hoss.

Fine novembre 1944

Himmler ordina la distruzione di Auschwitz. Le truppe russe sono alle porte.

27 gennaio 1945

i malati e quelli che erano riusciti a nascondersi vengono liberati dalle truppe russe. Sono soltanto 7.650 persone. Complessivamente soltanto 60 mila internati di Auschwitz riacquistano la libertà.

16 marzo 1946

Rudolf Hoss ammette che ad Auschwitz sono morte per sua responsabilità due milioni di persone.


«Quando SS è donna. L'Olocausto 50 anni dopo / Le sorveglianti del lager. Una storica tedesca ha studiato il nazismo al femminile. Scoprendo ruolo, ferocia e ignoranza delle addette alle camere a gas» 

di Chiara Valentini

Che nei principali campi di sterminio, a cominciare da Auschwitz, vi fossero state sorveglianti donne, crudeli come e più degli uomini, era stato spesso raccontato dalle superstiti. Quel che finora non appariva nei pochi studi storici sull'argomento era che le donne avevano esercitato la scelta di chi doveva essere avviato al "trattamento speciale": ovvero le camere a gas. A questa conclusione, basata su documenti d'archivio e testimonianze personali, è arrivata la docente berlinese Gudrum Schwartz, una delle storiche che in questi anni si è messa a indagare nella zona poco esplorata del nazismo al femminile. La grande novità del lavoro di Gudrum Schwartz sta nell'aver raccontato, con uno scrupolo che rasenta la pignoleria, come giovani donne non tanto diverse dalle altre abbiano potuto trasformarsi in breve tempo in burocrati del terrore. Come siano diventate pezzi importanti del meccanismo freddo che nel solo campo di Auschwitz aveva portato all'annientamento fisico di almeno 800 mila persone. Come nota la storica Dagmar Reese, "per realizzare il progetto di sterminio hitleriano non c'era bisogno né di mostri né di criminali o di sadici ma piuttosto di esperti, di rotelle dell'ingranaggio che facessero funzionare il sistema imponendosi una limitata percezione del reale e facendo dell'obbedienza la loro massima di vita". È l'esatta descrizione di quel che in tempi relativamente brevi diventano le circa 3.500 donne indicate dagli stessi documenti nazionalsocialisti come "sorveglianti SS", in pratica le secondine dei campi di sterminio. In quella congrega si entrava nei modi più banali. Jane B., sorvegliante del campo di Gross - Rosen, aveva dichiarato in tribunale di aver risposto a un annuncio economico su un giornale, dove si cercavano "sorveglianti per le prigioni statali". Nessuno le aveva parlato di campi di concentramento. Ma il canale più consueto era quello delle fabbriche d'armi, che con le promesse, e qualche volta con le minacce, spingevano un certo numero delle loro lavoratrici verso i campi. Come ha raccontato l'ex operaia Margarete A., in cambio dell'arruolamento "ci promettevano vestiti, biancheria e scarpe". Promesse che non sarebbero state mantenute. Con gli occhi di oggi è difficile capire come mai queste giovani donne vivessero senza traumi l'impatto con i corsi d'addestramento. Imbottite dalla propaganda del regime ascoltavano con un senso crescente di appartenenza le lezioni di altre donne SS in cui veniva spiegato che le detenute di cui avrebbero dovuto occuparsi "erano donne inferiori e degenerate, contro le quali avrebbero dovuto agire con tutta severità. Alla fine, se idonee, le sorveglianti avevano in dote una pistola, un cravattino di cuoio, spesso una frusta. E cominciava la loro carriera di aguzzine.

La lista delle non adatte

Secondo le cronache dell'Olocausto, le prime donne uccise nelle camere a gas di Auschwitz sono un gruppo di varie centinaia di ebree polacche giudicate, come i vecchi e i bambini, "inadatte al lavoro". Da quel momento spetta alle sorveglianti - capo decidere quali fra le migliaia di prigioniere sono le "inadatte" e avviarle alla morte. Ad Auschwitz questo compito spetta all'inflessibile Elisabeth Volkenrath. Come ha raccontato una superstite in tribunale, "le donne selezionate dalla Volkenrath venivano mandate nella baracca 25 del lager A per essere trasportate nelle camere a gas. Le persone deportate in quella baracca non si sono mai più riviste". Luogo deputato della selezione era l'infermeria. Bastava una malattia infettiva o un indebolimento organico per finire nella lista. E anche la gravidanza, per le ebree, dava la certezza dell'eliminazione. Ruth Elias, che oggi ha 72 anni e vive in Israele, ha raccontato che, dopo essere riuscita a nascondere la sua gravidanza avanzata agli occhi dello stesso dottor Mengele ed essere stata avviata a un campo di lavoro, era stata brutalmente rispedita ad Auschwitz dalla sua sorvegliante. E qui era stato deciso un esperimento sul bambino che stava per nascere: non allattarlo per vedere quanto sarebbe riuscito a vivere senza cibo. La brutalità e la mancanza di ogni scrupolo d'altra parte erano le caratteristiche che il sistema richiedeva alle donne - sorveglianti. Le più violente facevano carriera. Un punto cruciale della ricerca di Gudrun Schwarz riguarda il senso di colpa delle donne SS. Queste artigiane del terrore quasi sempre ritenevano di aver agito nella legalità. "In relazione alla mia attività di sorvegliante SS, per quanto ne sappia, non ho mai commesso alcun reato", è l'affermazione ricorrente. Insomma, le "rotelle dell'ingranaggio" hanno rifiutato ancor più degli uomini di assumere il peso della responsabilità.

Da L'Espresso, 27 gennaio 1995, per gentile concessione

sommario