L'espresso
Nel
segno di Abramo
Un'etica
laica contro l'identità tribale. Un saggio sull'ebraismo nell'era della guerra
di civiltà
di
Gigi Riva
Quale
posto per l'ebreo nel mondo? La contemporaneità lo obbliga nella trincea di
prima linea della guerra di civiltà. Da quella scomoda e, soprattutto,
«anacronistica»
posizione, vorrebbe toglierlo Wlodek Goldkorn, giornalista de
"L'espresso", nel suo libro in uscita il 21 aprile "La scelta
di Abramo" (Bollati Boringhieri), dove la tesi che non mancherà di
suscitare polemiche è esplicita fin dal sottotitolo, "Identità
ebraiche e postmodernità": il plurale è una presa di distanza da ogni
tentativo di appiattire sul sionismo (o sulla religione) una complessità
naturalmente assunta come ricchezza. Sin dalla prima pagina si rovescia la
valutazione, negativa per molti ebrei, dell'assunto della Rivoluzione francese:
«Agli ebrei tutto in quanto individui, niente in quanto nazione». Trasformare
l'ebreo concreto in cittadino era invece la grande promessa della modernità.
Promessa tradita, secondo l'autore, con grave danno non solo per quel
popolo, ma per l'umanità tutta che avrebbe potuto perseguire il diritto alla
massima libertà possibile, quella di scegliersi il futuro grazie alla
costruzione
di una identità plurale e, proprio per questo, assolutamente personale. Questo
diritto di scegliere, questo libero arbitrio assunto come radice laica
dell'esistenza
rappresenta la fuga dal tribalismo che Goldkorn considera come il pericolo
vero per chi discende da una tradizione di segno opposto. Il nazionalismo
assume dunque il valore dell'assimilazione alla contemporaneità condivisa
con gli altri Stati etnici, ma un passo indietro sulla ruota della storia.
Nostalgia
del diasporismo? Solo in un certo senso. La storia non si può rifare a
posteriori
e l'atteggiamento pragmatico della presa d'atto è l'unico possibile. Dunque se
è pur vero che Israele è una sorta di risarcimento per la Shoah e la sua
nascita ha segnato una riduzione della vocazione cosmopolita, adesso Israele
è. E va difeso da coloro (certa sinistra in primo luogo) che almeno dagli anni
Sessanta l'hanno cominciato a indicare come il male assoluto. Questo non
significa
che gli ebrei non debbano interrogarsi su come innaffiare quella radice laica
e individualista presente dagli albori. In fondo il primo atto di
ribellione al Dio è quello che compie Abramo (da qui il titolo) quando
disubbidisce
e salva il figlio. Secondo Goldkom l'angelo che ferma la mano del patriarca
è in realtà il moto della coscienza. E il gesto è la proposta di una morale
universale possibile grazie alla confidenza dell'uomo con un Dio che accetterà
di dialogare. Una fiducia nella parola, pur con tutti i limiti
dell'indicibilità
e la necessità della semplificazione, che tornerà in Primo Levi quando si
porrà
il problema della testimonianza dei sopravvissuti ai campi di sterminio. Era
ineluttabile il destino per quei sei milioni di ebrei? Era possibile opporsi?
C'è una linea che, per i rami, scende dal gesto di Abramo fino al pensiero di
Hannah Arendt e alla sua esplicita accusa ai leader ebrei che accettarono la
"normalità" del nazismo e non colsero l'insegnamento del
capostipite. Non tutti, qualcuno (pochi) lo fecero come Marek Edelman e gli
insorti del ghetto di Varsavia. Un'epopea di resistenza che è anche un
manifesto politico e, se si vuole, la risposta alla domanda iniziale: forse
non c'è un posto elettivo per l'ebreo nel mondo, ma deve stare ovunque e in
nessun luogo quella coscienza del sé che lo obbliga, anzitutto, alla
consapevolezza che opporsi è giusto quando è giusto.
L’espresso,
20 aprile 2006