L'espresso
La libertà è un club esclusivo
Nel
secolo delle dittature pochi intellettuali non si sono piegati.
Saggio-provocazione di un grande pensatore. Che lo racconta in esclusiva
colloquio
con Ralf Dahrendorf di
Stefano Vastano
Libertà?
È «come una sorta di club esclusivo fondato, più che sugli scritti, sulla
personalità di Erasmo da Rotterdam». Parole di Ralf Dahrendorf, guru dei
liberali europei, che nel suo saggio, "Versuchungen deI Unfreiheit. Die
Intellektuellen in Zeiten der Prüfung" (Le tentazioni della illibertà. Gli
intellettuali nei tempi della prova), appena pubblicato in Germania, e in uscita
in Italia da Laterza, propone una tesi provocatoria: in tutto il Ventesimo
secolo, il secolo delle «vere prove», ci sono stati solo tre intellettuali
degni di entrare a far parte del club di Erasmo. I tre sono: Raymond Aron,
Isaiah Berlin e Karl Popper. «Con qualche dubbio e riserva», invece, in
quell'immaginario Olimpo del pensiero libero ci sarebbe posto pure per
Norberto Bobbio, Theodar Adorno e Hannah Arendt. Qual è il test da superare
per candidarsi nell'ambita, quanto ipotetica, "società erasmiana»? E
sulla base di quali criteri è definibile l'idea di libertà? Ecco le risposte
di uno dei più celebri maitre-à-penser, in questa intervista esclusiva a “L’espresso”.
Professor
Dahrendorf, non le pare strano leggere l'intero Novecento sulla base di un unico
criterio, quello della libertà?
«No.
Perché i miei criteri di cultura liberale possono ispirare non solo la nostra
conoscenza del passato, ma anche il comportamento etico e politico odierno.
Fatta questa premessa voglio dire che il codice di un'etica liberale lo
ritroviamo, allo stato puro, solo nell'inventore dello spirito moderno, in
Erasmo da Rotterdam. Per gli intellettuali del Ventesimo secolo invece si tratta
di applicare le virtù erasmiane "cum grano salis", e cioè nel modo
meno "tedesco", meno rigido possibile. Veri erasmiani sono allora
Raymond Aron, lsaiah Berlin e Karl Popper, e poi, con un grado di tolleranza e
un pizzico di ironia, quelli che come Bobbio o Adorno non hanno sempre resistito
alle tentazioni dell'illibertà».
Sta
dicendo che quello che lo storico marxista Eric Hobsbawm chiamò "il secolo
breve" si può definire
come la storia della
soppressione e, poi dopo l'89,
della fioritura del liberalismo?
«Lasciamo
perdere Hobsbawm e le sue definizioni. lo dico che il secolo scorso, fino
all'89 e al crollo del comunismo, è stato segnato dalla profonda esigenza
della libertà. Però, noto che dopo il crollo del Muro certi intellettuali
dell'Est hanno lamentato momenti di noia per la libertà riottenuta».
E
cosa ne deduce?
«Ne
traggo la lezione più profonda del secolo passato: la noia che certi
intellettuali provano di fronte a regimi liberali significa per la gente che
le cose vanno meglio che in passato».
Il
suo saggio s'intitola: "Tentazioni della illibertà". Cosa c'è di
seducente, per gli intellettuali, nelle sirene del totalitarismo?
«La
questione più affascinante del secolo scorso resta questa: nell'estate del 1933
cosa ci trovavano i tedeschi di attraente in Hitler? Per capire la deriva di
un'intera società verso la catastrofe non ci sono altre categorie che la
"seduzione", sia in senso erotico ed estetico, che soprattutto
religioso».
Il
nazismo come surrogato politico di bisogni religiosi ed estetici dell'uomo
moderno?
«Esatto.
Il nazismo fu un movimento di massa perché, in quel momento storico, Hitler
riuscì a far leva sul sentimento religioso dei tedeschi».
E
qual è la differenza fra il nazismo
e il
fascismo da un lato e il comunismo dall'altro?
«Il
nazismo e il fascismo avevano una visione apocalittica della storia e finirono
per trascinare le masse verso l'apocalisse, appunto. Il comunismo invece aveva
una spinta messianica: il sogno del paradiso in terra. E questa utopia ha
permesso
a molti comunisti di rimanere tali anche dopo aver saputo
dei crimini di Stalin».
La
seduzione erotica e religiosa è dunque molto più forte nell'idea del
comunismo?
«Ovviamente.
Perché nel fascismo c'è troppa personificazione della figura del leader, che
rende difficile la trascendenza. Il culto del Führer o del Duce (essendo i
leader mortali) esclude la longevità del sistema fascista. La venerazione
del partito invece creata da Lenin assicura sia la tenuta del regime che la
dedizione totale del militante alla causa: il comunista col suo ideale
riesce ad andarci persino a letto. Ed è disposto a qualunque sacrificio» .
In
Europa, a partire dalla rivoluzione
del '17 in Russia, molte persone erano disposte a
ogni sacrificio, soprattutto quello della propria libertà. Perché?
«Senza
quella ecatombe morale e politica che fu la Prima guerra mondiale non possiamo
capire la disponibilità delle società europee alle seduzioni dell'illibertà.
E di converso, dalla capacità di intellettuali che, come Aron, Berlin o
Popper, seppero resistere alle tentazioni, vediamo tutta l'importanza e attualità
dello spirito erasmiano e dell'etica liberale».
Ma
vediamo anche il contrario:
vediamo quanto siano fragili le
società democratiche...
«È
vero che dopo la catastrofe della Grande Guerra i principi liberali hanno
avuto poco spazio e poco consenso in Europa. I principi della libertà non hanno
il fascino delle ideologie reazionarie o di sinistra. I valori del liberalismo,
arte politica pragmatica e razionale, non fanno presa su quelle passioni
risvegliate nell'uomo dalle grandi sintesi ideologiche e religiose».
Secondo
Karl Popper, "La libertà è più importante dell'eguaglianza".
«Già.
E questo spiega perché la gran parte della storia moderna e contemporanea si
risolva
nel disperato tentativo di non rispettare il valore di fondo dell'etica
liberale. Faccia un test: ancora oggi, intuitivamente, la maggior parte degli
interpellati risponderà di preferire le sicurezze dell'eguaglianza alla
libertà. Il mio saggio è appunto la dimostrazione di quanti pochi
intellettuali
nel Ventesimo secolo abbiano seguito Erasmo: il liberalismo, purtroppo, è una
cultura della minoranza. Eppure, il principio della libertà individuale è il
motore della civiltà e del progresso».
E
allora, perché viene istintiva la preferenza per
"eguaglianza?
«Perché
la maggior parte delle persone pensa alla soddisfazione dei bisogni e ad avere
sicurezze, dato che la vita è un percorso fra rischi. Comunque, recentemente
Amartya Sen ha tentato di spiegare che non esiste eguaglianza senza libertà.
Secondo Sen, infatti, la sfera della redistribuzione delle ricchezze, quindi
dell'eguaglianza, diminuisce senza il rispetto delle libertà. Però, per
quanto coraggioso, anche lo sforzo teorico di Sen non risolve del tutto il
problema
di fondo dell'opzione liberale».
Qual
è questo problema?
«Il
fatto che, come ha detto in modo non proprio elegante Isaiah Berlin, la libertà
di ogni individuo di fare o meno ciò che vuole resta un "principio
negativo".
L'opzione della libertà non può essere fondata una volta per tutte con una
dimostrazione razionale. E non potendo contare su una metafisica che risolva del
tutto l'enigma della libertà, non ci resta che aprirci al dialogo e al
pluralismo dei valori».
L'ordine
liberale, democratico e plurale della società
aperta è una scelta soggettiva?
.
«Direi
che è una questione di decisione o di carattere morale: è più ragionevole
vivere in una società capace di tollerare e promuovere il conflitto dei
valori, o in una società totalitaria, che sacrifica libertà e pluralità a
favore di una visione integralistica del Bene assoluto? A noi la scelta»,
Come
persuadere allora il fondamentalista,
religioso o politico, a scegliere una strada piuttosto che l'altra?
«Accumulando
gli esempi che gli mostrano come, in ogni sfera della vita, l'opzione
integralista si riveli sempre un freno al progresso storico e civile».
Quando
inizia, in Occidente, la storia della libertà: a Firenze con gli umanisti o a
Rotterdam con Erasmo?
«Gli
umanisti hanno scritto, tradotto e pubblicato una grande quantità di opere.
Erasmo invece ci ha lasciato, oltre a libelli e lettere, un chiarissimo
atteggiamento culturale: è il primo intellettuale a difendere, oltre ogni
fede e partito, la libertà individuale e l'amore spregiudicato della ricerca.
È dal suo carattere che parte la storia delle virtù liberali che, nel
Novecento, ritroviamo in Aron, Popper o Berlin».
Nessuno
di questi tre moderni erasmiani fu mai
un partigiano della Resistenza...
«È
l'aspetto più imbarazzante dello spirito liberale. A sacrificare la propria
vita lottando in prima persona contro il nazismo furono altri, ad esempio mio
padre, ma non certo i nostri tre. Aron e Berlin almeno si tormentarono sulla
questione della vigliaccheria; Popper spacciò invece i suoi libri, scritti in
Nuova Zelanda, come il suo "contributo alla guerra". Vedo solo un
modo per sciogliere questa imbarazzante contraddizione degli erasmiani. Il fatto
che non furono partigiani è il prezzo che dovettero pagare per la loro libertà
e lucidità intellettuale, per la loro indipendenza da ogni fede e partito.
Dall'altro lato, però, sono proprio queste rare virtù a spiegare perché il
liberalismo sia cultura così poco popolare. I miti che affascinano i popoli
sono quelli degli eroi che rischiano la vita per una causa. Erasmo invece non
prese parte alle lotte di religione di Lutero come Aron non fu partigiano».
Nel
suo libro se la prende con Jean-Paul Sartre.
«Sartre ha sacrificato lucidità e coerenza intellettuale alla voglia di spettacolarità».
Lord tedesco
Suo padre, Gustav Dahrendorf
era socialdemocratico, deputato del parlamento della Repubblica di Weimar,
imprigionato da Hitler e condannato a morte. «Mio padre era un eroe», dice
Ralfdorf, «ma i miei eroi erano di un’altra pasta». È dagli anni ’60 che
lord Dahrendorf, nato ad Amburgo nel ’29 e dal ’93, barone of Clare Market,
difende i principi del liberalismo. In Germania, come docente di sociologia
negli atenei di Amburgo e Tubinga. Poi come deputato al Bundestag per la Fdp.
Trasferitosi in Inghilterra, Dahrendorf ha insegnato per un decennio, fino
all’84, alla London School of Economics e, fino al ’97, al St. Antony’s
College di Oxford. Oggi è membro della Camera dei Lord. Fra i suoi saggi,
pubblicati in Italia da Laterza, “La libertà che cambia”, “Il conflitto
sociale nella modernità”, e “Per un nuovo liberalismo”.
L’espresso,
30 marzo 2006