L'espresso

I colpevoli di Marzabotto - Sono stati loro

Negli anni della guerra fredda la procura militare italiana non ha indagato sugli eccidi nazisti per ragioni di politica internazionale. Così due tra le pagine più drammatiche della nostra storia sono rimaste senza verità. Ora, dopo lunghe indagini tra Germania e Italia, spuntano nomi e cognomi delle SS che hanno trucidato nel 1944 più di 1.500 persone

di Franco Giustolisi, Udo Gumpel e Leo Sisti

Eccoli, finalmente, gli assassini. Sono una dozzina, sono ancora vivi, sono stati identificati, presto saranno interrogati. Hanno massacrato bambini, vecchi, donne, uomini senz'armi, in tenuta da lavoro. Strappati dalle case, dalle campagne, dalla vita quotidiana. A Sant'Anna di Stazzema, nelle colline sopra Lucca, il 12 agosto 1944 i nazifascisti ne eliminarono 560. A Marzabotto, a una ventina di chilometri da Bologna, dal 29 settembre al primo ottobre, nella sanguinosa tre giorni del maggiore delle SS Walter Reder, le vittime furono 955. In queste settimane i magistrati italiani si sono rivolti ai loro colleghi tedeschi per poter interrogare i militari superstiti delle quattro compagnie protagoniste della strage di Stazzema. Questi i loro nomi: Gerhard Sommer, sottotenente, 80 anni, Amburgo; Horst Richter, sergente, 80 anni, Berlino; Theodor Sasse, sottotenente, 78 anni, di Kriftel. Anche altri due erano stati identificati, il sottotenente Friedrich Crüsemann, classe 1915, di Hamm, e il sergente Alfred Leibssle, classe 1922, di Tübingen. Ma sono morti da poco. Appartenevano tutti al Secondo battaglione della sedicesima divisione Reichsführer H. Himmler, arrivata in Italia nel maggio '44 dal fronte dell'Est europeo. Una divisione di nazisti doc. Anche per Marzabotto è stata riaperta l'inchiesta, ora nella fase dell'indagine preliminare. L'attenzione è concentrata su vari nomi. E' stato accertato che perlomeno sono ancora vivi, tra quelli già indicati oltre mezzo secolo fa, il sergente Albert Meier, 79 anni, di Essen; il sergente Albert Piepenschneider, 78 anni, di Braunschweig; il caporale Franz Stockinger, di Mauth/Heinrichsbrunn. Erano inquadrati in un altro battaglione della stessa sedicesima divisione, quello comandato da Reder. Proprio questi tre sottufficiali sono stati individuati e intervistati dalla televisione pubblica tedesca ARD. Meier ammette e non ammette. Gli altri due sostengono di non ricordare. Una versione assai poco credibile. Per Stazzema nessuno ha finora pagato. Per Marzabotto solo Reder, e relativamente. Condannato all'ergastolo nel 1951, poi liberato nel 1985, ebbe il cinismo di dire che il perdono non lo aveva chiesto lui, bensì il suo avvocato. I colpevoli, com'è ovvio, furono molti di più, ma non vennero mai accusati di niente: nemmeno ci si preoccupò di scovarli. Tutto questo è avvenuto per un semplice motivo. Erano gli anni della Guerra fredda, la Germania doveva essere utilizzata in funzione antisovietica, bisognava far risorgere la Wehrmacht: la sua immagine sarebbe stata gravemente compromessa da certe rivelazioni. Così uno dei primi governi di centro-destra tra quelli guidati da Alcide De Gasperi dal maggio '47 in poi, ordinò ai procuratori generali militari di affossare tutte le indagini sui crimini commessi dagli uomini di Hitler e Mussolini dal '43 al '45: 15 mila morti civili e quasi altrettanti militari passati per le armi, a Cefalonia, a Spalato e altrove, per non essersi immediatamente arresi ai tedeschi.E' la storia dell'Armadio della vergogna, raccontata da "L'Espresso" fin dal 1996: quel vecchio mobile marrone, nascosto per mezzo secolo nella sede romana della procura generale militare in via degli Acquasparta, conteneva anche i nomi dei responsabili delle centinaia di altri eccidi nazisti, dal Turchino a Capistrello, da Roccaraso a Fossoli, da Bolzano a piazzale Loreto, da Gubbio a Barletta... Era finito in una specie di sottoscala protetto da un cancello di ferro con le ante rivolte verso il muro. Nonostante gli sforzi del Comitato per la verità e per la giustizia sulle stragi nazifasciste, le proposte di legge per un'inchiesta parlamentare giacciono dimenticate alle commissioni giustizia di Camera e Senato: forse per pavidità dell'attuale minoranza che non vuole riaprire un capitolo, del resto mai chiuso, quello del fascismo; forse per volontà della maggioranza che governa con gli eredi del fascismo. Nella nuova Germania, invece, questi temi non vengono accantonati. Anzi l'organismo di Ludwigsburg che indaga sui delitti dei nazisti collabora con la procura militare di La Spezia, dopo un periodo di incredibili incomprensioni. Per esempio, dalla città dell'arsenale sono sì partite alla metà degli anni Novanta, verso la Germania, richieste di assistenza giudiziaria, ma solo per un'altra strage, quella di Massaciuccoli: niente a che vedere con le altre due, di Stazzema e Marzabotto. Peggio ancora, l'ambasciata italiana di Bonn, non ha mai risposto a due lettere nelle quali il procuratore di Ludwigsburg (il predecessore dell'attuale, Kurt Schrimm) voleva, nel 1997 e 1998, informazioni su Marzabotto. Poi, dalla metà del 2000, con l'arrivo a La Spezia del pm Gioacchino Tornatore, lo scenario cambia e i ritardi del passato sono stati messi nel cassetto.Solo oggi si comincia a ricostruire compiutamente, attraverso vecchie testimonianze, quel che avvenne durante queste due stragi. A Sant'Anna arrivarono quattro compagnie di SS del secondo Battaglione, la quinta, la sesta, la settima e l'ottava. Si preannunciarono con il lancio di quattro razzi rossi. Gli uomini, pensando alla rituale retata, se la dettero a gambe per la valle. Su, in alto, rimasero in gran parte solo vecchi, donne e bambini. Evelina Berretti in Pieri era nella sua casa. Aspettava la levatrice. Furono loro, i militari, a far da levatrice. Li guidava il fu capitano Anton Galler, un ex fornaio. I suoi uomini aprirono il ventre di Evelina con le baionette e lanciarono il feto per aria, sparandogli alla testa. Testimone, tra gli altri, fu l'ex rabbino capo di Roma Elio Toaff, che l'ha raccontato nel suo libro "Perfidi giudei, fratelli maggiori". Il marito di Evelina fu trucidato con i suoi fratelli, qualche metro più in là. Quella mattina la furia omicida si scatenò anche contro una bambina di 20 giorni, Anna Pardini: morirà un mese dopo, troppo piccola per sopravvivere alle ferite. I nazisti radunarono vari gruppi di persone, trascinandole fuori di casa, per ucciderle. Buttarono le bombe e poi diedero fuoco alle case. Enio Mancini, che da una vita cura il Museo di Stazzema, ricorda: «Io allora avevo sette anni, mi portarono via insieme con mia madre, le due nonne e il mio fratellino. Mio padre no, era scappato all'alba. Ci misero al muro, piazzando davanti a noi la mitragliatrice. Subito dopo, il comandante di quella compagnia, non so chi fosse lui e quale fosse la sua compagnia, ci disse «Raus, raus, schnell schnell", via, via, svelti, svelti. Ci salvò la vita. Un gesto di umanità, in mezzo a tanta ferocia...». Tra quei massacratori c'erano anche degli italiani: lo dimostra una targhetta, che ora è nel museo, con la scritta "Stalag IB-NR 749 I". IB è la sigla del campo, che secondo ricerche fatte da Mancini è nei pressi di Stettino, in Polonia, NR 749 è la matricola del soldato, la I indica la nazionalità italiana: evidentemente un militare del nostro paese passato ai tedeschi. Una riprova? L'hanno fornita Alba e Ada Battistini, 17 e 15 anni all'epoca dei fatti: bloccate, mentre cercavano di fuggire, da un gruppo di cinque miliziani. Quattro parlavano perfettamente l'italiano, usando anzi tipiche espressioni dialettali della zona. Furono loro ad ammazzare i genitori delle ragazze, salve grazie all'intervento dell'unico vero tedesco: con un cenno fece capire ad Alba e Ada di allontanarsi mentre sventagliava in aria una raffica di mitra. Entrò in azione anche un discreto numero di collaborazionisti, almeno una quindicina. Guidarono i nazisti per le impervie mulattiere che portavano a Sant'Anna, si caricarono sulle spalle cassette di munizioni. Una particolare citazione merita Aleramo Garibaldi, noto fascista locale. L'11 agosto, il giorno prima della strage, aveva cercato un rifugio per la moglie e le due figlie: un indizio macroscopico che l'eccidio era stato veramente programmato. Una testimone, Maria Luisa Ghilardini, riconobbe in lui l'uomo che, mitragliatrice alla mano, fece fuori 17 persone del suo gruppo, ferendo anche lei a un polmone, trapassato da un proiettile. Lo rivide qualche anno dopo al mercato di Pietrasanta: gli saltò al collo, lo graffiò, gli strappò i capelli e lo prese a morsi. Intervennero i vigili urbani e scoprirono che lui portava ancora con sé un lasciapassare tedesco. L'uomo si mise a piagnucolare dicendo che anche sua moglie Andreina Genovesi e le due figlie erano state uccise. Era vero, probabilmente il rifugio da lui cercato per i congiunti non era stato poi così sicuro. Quattro anni fa un nipote di Andreina Genovesi ha chiesto, e ottenuto, che il cognome da sposata di sua zia, "Garibaldi", inciso sulla lapide che sovrasta l'ossario di Stazzema, venisse cancellato: «Non posso lasciarle questa vergogna addosso». Tutti i collaborazionisti, compreso Aleramo, hanno abbandonato la regione. La Procura militare non può procedere contro di loro a norma del codice militare, che punisce solo gli "appartenenti a forze armate nemiche". Il 29 settembre, 48 giorni dopo, è la volta di Marzabotto, il nome che di più, nella memoria degli italiani, rievoca le atrocità di Reder e delle sue squadracce. E' stato lo storico Renato Giorgi a descrivere quella raccapricciante tre giorni: «Molti si erano rifugiati in chiesa a prendere conforto dalle parole del parroco, don Ubaldo Marchioni, che recitava il rosario sull'altare. In penombra la massa inginocchiata bisbiglia le parole della fede e della speranza. Irrompono i nazisti, una raffica si alza sopra le grida della gente. Don Ubaldo cade sulla predella, colpito a morte. Tutti gli altri vengono buttati fuori dalla chiesa e ammassati nel cimitero. Solo una povera donna non può uscire, perché paralizzata alle gambe: Vittoria Nanni. Farà compagnia a don Ubaldo, massacrata nel mezzo della navata centrale, mentre disperata urla ed annaspa invano con le braccia in aria, inchiodata alla seggiola. Enrica Ansaloni e Giovanni Bettini riescono a rifugiarsi nel campanile, e forse ancora sperano: li trovano e gli sparano. Gli altri, spinti nell'angusto cimitero di montagna giacciono stipati ed accavallati contro le lapidi, le croci di legno e le tombe». Gli tirano addosso le bombe a mano, le mitraglie completano l'opera. Unici sopravvissuti due bambini, Fernando Piretti, di otto anni, e Paolo Rossi di sei, e una donna, Antonietta Benni, maestra d'asilo delle Orsoline. Per 33 ore finse di essere stata abbattuta anche lei e quando finalmente poté alzarsi, commentò ad alta voce: «Tutti morti, la mia mamma, la mia zia, la mia nonna Rosina, la mia nonna Giovanna, il mio fratellino... Tutti morti». Anche a Marzabotto alcune SS parlavano un italiano perfetto: erano italiani. Per i fatti di Marzabotto ci fu anche una coda processuale italiana. Prima della condanna del maggiore Reder, nel 1946, la corte d'assise di Brescia aveva giudicato Lorenzo Mingardi e Giovanni Quadri, due repubblichini (il primo, reggente del Fascio di Marzabotto, nonché commissario prefettizio durante la carneficina), per collaborazione, omicidio, incendio e devastazione. Mingardi ebbe la pena di morte, poi trasformata in ergastolo. Il secondo, 30 anni, poi ridotti a dieci anni e otto mesi. Tutti e due furono successivamente liberati per amnistia.


Marzabotto - Scusate il ritardo

Parla il procuratore Gioacchino Tornatore

Sul gran registro che accompagnava l'Armadio della Vergogna e dove venivano annotate le varie stragi è scritto che il fascicolo riguardante Marzabotto fu inviato alla Procura militare di La Spezia il 19 dicembre del 1994 e quello di Sant'Anna di Stazzema l'8 marzo del 1995. Come mai si comincia ad avere qualche risultato soltanto a distanza di otto anni?
Risponde Gioacchino Tornatore, procuratore reggente: "La nostra procura ha competenza, oltre che per una parte della Liguria e delle Marche, anche per la Toscana e l'Emilia Romagna dove si verificò il più grande numero di stragi. Il materiale che ci arrivò fu imponente sia per quantità che per qualità, si pensi ai soli eccidi di Sant'Anna e di Marzabotto. Per di più in quegli anni c'era un solo magistrato, tra l'altro impegnato in udienze quasi quotidiane".

E lei?

"Io e il collega Marco Cocco abbiamo cominciato ad occuparci delle stragi solo dal maggio del 2000. Un tempo assolutamente breve per rimettere in piedi inchieste con alle spalle oltre mezzo secolo di vita".

Quali le maggiori difficoltà incontrate?

"Ricostruire degli episodi lontanissimi nel tempo con una disponibilità originaria di dati spesso frammentari e generici. Molti testimoni erano morti, e quelli rimasti in vita hanno o avevano ricordi affievoliti. C'è da aggiungere che anche molti protagonisti erano deceduti. Ora contiamo di raggiungere ulteriori risultati, grazie anche ai nostri colleghi di Ludwigsburg".


Marzabotto - "Hanno avuto quel che si meritavano"

La testimonianza del nazista Albert Meier

Volontario SS dal 1937, nella Seconda guerra mondiale ero nella Sedicesima divisione "H.Himmler", mandata in quell'Italia che aveva tradito: capo plotone nella Seconda compagnia, sotto il comando del maggiore Reder... Intervistato dalla tv tedesca ARD, parla Albert Meier, nome venuto alla ribalta nelle indagini sulla strage di Marzabotto.

Lei ricorda l'azione contro i "banditi" a Marzabotto?

«Come no»!.

Si ricorda che furono uccisi civili, donne?

«La gente, no. Abbiamo solo punito quelli che avevano commesso qualcosa. Furono presi e puniti».

Che tipo di gente?

«Gente così, civili... Ci sparavano addosso, dalle finestre, dai tetti. Una vera minaccia per noi. Potevamo uscire solo in coppia. Uno

doveva proteggere l'altro».

E la sua compagnia, come si è comportata?

«Facendo operazioni contro i partigiani, anche di notte. Quelli che abbiamo beccato, li abbiamo mandati nelle retrovie».

Lei sa se ci sono state fucilazioni di civili?

«Non l'ho visto io personalmente, ma l'ho sentito dire. Quando alcuni di loro hanno ucciso qualcuno di noi, allora siamo andati a rompergli il culo... Li abbiamo fucilati. Abbiamo punito quelli che erano dei "bacilli" di sinistra. Non potevamo nemmeno uscire per la strada, tanto quei villaggi erano insicuri».

Avete punito i villaggi?

«Sì, con azioni antipartigiane. Io ho preso addirittura un'onorificenza. Dopo sette azioni contro i partigiani, ti davano una medaglia...

L'ho avuta anch'io».

Come giudica le azioni di Marzabotto?

«Loro stavano dietro le finestre, le aprivano e "pum pum": uno dei nostri cadeva a terra. Io non ero un borghese, ero al fronte, in azione militare...».

Lei era al fronte, nella truppa combattente, anche a Marzabotto?

«Sì, certo. Forse i partigiani erano combattenti regolari? Quelli erano teste di topo. A quelli vorrei ancora oggi...Lei va lì con due o tre camerati, e poi "pum pum", ti centrano. Cosa farebbe lei? Direbbe grazie? O andrebbe a rompergli il culo, a chi le ha sparato?».
L'Espresso - 18 aprile 2002

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