da L'Espresso 50 anni, vol. 1
16 aprile 1961 -
Una
doccia di verità per tedeschi e israeliani
Il
processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann
Il
gerarca è in aula a Gerusalemme per rispondere delle atrocità commesse. Ma le
udienze servono anche a capire questo paese. Emerge la preoccupazione che si
rovinino i rapporti con la Germania, ora che lì sono tornati ad abitare
trentamila ebrei.
di
Manlio Cancogni
Gerusalemme
– Senza volerlo, Adolf Eichmann, ha reso un grande servizio allo stato
d’Israele. In un momento in cui c’è il pericolo che una certa stanchezza
ideologica si diffonda nel paese, l’arrivo a Gerusalemme dell’ex gerarca
nazista ha portato una ventata d’aria fresca e ravvivato gli animi. I ricordi
sono riaffiorati alla coscienza anche dei più pigri, dei più indifferenti. Il
capo del governo David Ben Gurion è stato il primo a rallegrarsene. Tempo fa
egli s’era lamentato che i giovani, anche in Israele, avessero la “memoria
corta”. La presenza di Eichmann è per Israele un reagente. Essa mette in
rilievo alcuni caratteri del paese che negli anni scorsi s’erano sfumati.
Oggi, per lo straniero che non si contenta di leggere statistiche o di
percorrere itinerari turistici, è il momento ideale se vuole farne la
conoscenza. Ma il processo Eichmann non serve soltanto a farci meglio capire gli
israeliani. Esso è un reagente anche per i tedeschi che dal processo di
Norimberga in poi, quindici anni ormai, hanno fatto di tutto fuorché ricordare
e capire. Il processo li ha scossi, loro malgrado, da uno stato d’animo simile
al torpore che prende dopo un buon pasto. Ecco che proprio nel bel mezzo del
benessere e d’un riconquistato prestigio di cui tutti i cittadini della
Repubblica federale vanno molto orgogliosi, si torna a parlare, e con quale eco,
d’un passato per loro terribilmente spiacevole. Come fare a ignorarlo? Questa
volta invece di fingere indifferenza e noia, come hanno fatto per circa quindici
anni, i tedeschi sono andati incontro alla realtà. Non solo hanno spedito in
Israele osservatori ufficiali e giornalisti in un numero superiore a quello
degli altri paesi, ma per l’occasione si sono mossi anche i privati,
soprattutto i giovani. Ed eccoli in viaggio per Gerusalemme.
Le
critiche degli scontenti
Grazie
ad Eichmann dunque, in Israele ci troviamo in un’ora di verità, di reazioni
vive, proprio mentre nel resto del mondo avviene piuttosto il contrario. Ebrei e
tedeschi sono di nuovo al cospetto del fatto più grave della loro storia. Il
grande processo in cui questa rivive è cominciato. Non tutti i sentimenti degli
ebrei sono di soddisfazione. Fino a due anni fa, in Israele, il nome di Eichmann
era sconosciuto. A parte gli agenti del servizio segreto che lo cercavano, gli
altri cittadini non sapevano chi fosse quell’uomo e che cosa avesse fatto. Il
personaggio del massacratore spietato nacque nel ’59 quando si sparse la
notizia, falsa, che Eichmann si trovava in Kuwait, nel sud dell’Arabia, ospite
dell’Emiro. I giornali ne parlarono diffusamente rievocando tutti i
particolari della sua carriera e soltanto allora il sentimento di giustizia
degli ebrei, e il loro bisogno di vendetta si cristallizzarono intorno a un nome
preciso. Questa tensione intorno all’esecutore della “soluzione finale del
problema ebraico” aumentò quando nel maggio del ’60 fu annunciato che
Eichmann era vivo e prigioniero in Israele. Venne resa nota l’immagine del
prigioniero. Era l’immagine d’un uomo dai capelli radi e dal viso stanco. Ma
non per questo l’ira cessò di crescere. «Ebbene», chiedono alcuni ebrei, «che
bisogno c’era di fare tanto chiasso? Se Israele aveva vissuto tanti anni senza
sapere che fosse Eichmann, avrebbe potuto continuare a ignorarlo evitando
fastidi, spese e una pubblicità che non farà che danneggiarci». La critiche
di questi scontenti, che però non arrivano a manifestarsi pubblicamente,
riguardano soprattutto il modo in cui Israele s’è impadronito del suo nemico,
modo che mise il governo di Gerusalemme in difficoltà prima con l’Argentina e
poi con l’Onu. È inutile rifare qui la storia di quell’incidente
diplomatico i cui effetti durarono per tutta l’estate del ’60. esso s’è
chiuso col suolo danno di due ambasciatori cambiati di sedi. Alcuni cittadini
d’Israele tuttavia conservano un ricordo penoso del giorno in cui il ministro
degli Esteri argentino Diogenes Taboada giunse a chiedere, come riparazione del
ratto compiuto sul suo territorio, che Eichmann fosse restituito nella settimana
in corso e che i suoi rapitori fossero puniti. Essi temettero allora che una
nuova campagna contro il loro popolo, sia pure in forma velata, si scatenasse
nel mondo. Ancora oggi non perdonano a Ben Gurion d’essersi vantato
pubblicamente del ratto di Eichmann, assumendosene la responsabilità. «Che
bisogno c’era?», si chiedono «Dal momento che Eichmann era arrivato in
Israele senza che nessuno ne sapesse nulla, non sarebbe stato più opportuno
tacere? Ben Gurion ha commesso un’altra delle sue gaffes». Certe critiche si
capiscono meglio se si tiene presente che intorno al personaggio numero uno del
mondo politico israeliano, simpatia e ostilità si dividono il campo molto
vivacemente e che il paese si sta avvicinando alle elezioni. Ben Gurion ha sulle
spalle tredici anni di governo e oggi gli viene rimproverato fra l’altro
d’essere troppo autoritario e d’occupare quasi da solo la scena del potere.
L’errore d’avere dichiarato che il ratto di Eichmann era opera dei servizi
segreti di Israele, viene imputato al suo temperamento impulsivo e alla sua
mancanza di senso diplomatico. Ben Gurion, è vero, avrebbe potuto tacere. Ma
come chiedere questa prudenza a un uomo come lui che per circa mezzo secolo ha
combattuto per la libertà del suo popolo? Ben Gurion oggi è orgoglioso dello
Stato d’Israele ed è intimamente soddisfatto di se stesso e della propria
opera. Gli piace sfidare l’opinione pubblica, specialmente quella estera. Come
accade ai vecchi egli tende a ripiegarsi sul passato e a soffrire vedendo che
gli anni della lotta e del dolore non sono abbastanza apprezzati dai giovani
dell’ultima generazione. In quest’oblio egli vede fra l’altro un grave
pericolo. Essendo un combattente nato, considera che non si debba mai posare
definitivamente le armi., soprattutto quelle ideologiche; mentre ora gli pare
che in tutti, ma specie fra i giovani, prevalgono sul patriottismo le
preoccupazioni della vita quotidiana, e che ciascuno pensi troppo egoisticamente
al proprio avvenire e soltanto a quello. Così non poteva perdere l’occasione,
offertagli dal ratto di Eichmann, di rivolgersi al mondo in nome del suo popolo.
Era come se avesse detto: «Guardate come siamo bravi! Anche nel campo dei
servizi segreti non abbiamo da imparare da nessuno. Non si creda che siamo
disarmati e disposti a dimenticare i nostri nemici. Chi ci ha offeso pagherà».
Se non avesse temuto di commettere una grave infrazione avrebbe fatto volentieri
i nomi dei rapitori, avrebbe fatto pubblicare le loro fotografie indicandoli
come esempio alle giovani generazioni. (I nomi di Gad, Dov e Yigal, che si
trovano nei resoconti del colpo effettuato in Argentina nel maggio del ’60,
sono convenzionali e nessuno tranne i loro diretti superiori sa a chi
corrispondano esattamente. Si suppone però che siano dei giovani che nel ’48
quando si concluse la lotta d’indipendenza erano ancora ragazzi).
Preoccupazioni
e timori
Altri dubbi tormentano gli scontenti. Il timore d’avere irritato l’Argentina era in fondo soltanto un pretesto; alcuni, più numerosi di quanto s’immagini, temono soprattutto d’avvelenare i rapporti con la Germania. E questa preoccupazione, ora che il processo è in corso, tende ad aggravarsi, specie per il pericolo che dal dibattito escano nomi di personalità del governo di Bonn o comunque vicine ad esso. Per capire questo disagio, , diffuso specialmente fra gli ebrei della colonia tedesca, bisogna ricordarsi che dopo la guerra circa 30.000 ebrei sono tornati ad abitare in Germania. Il governo federale, anche per mostrare al mondo che l’antisemitismo in Germania è morto con Hitler, ha fatto loro un buon trattamento (ciò fra l’altro ha permesso a molti tedeschi di dire che se gli ebrei tornavano a Francoforte, a Düsseldorf o a Berlino, significa che in fondo non c’erano stati troppo male). Fra i 30.000 ebrei che hanno fatto ritorno in Germania, circa diecimila provengono da Israele. La maggioranza dei cittadini, qui, giudica con molta severità, e talvolta con disprezzo questi transfughi. Ma nella colonia tedesca una certa attrazione per la Germania continua a farsi sentire. La Repubblica federale è fra l’altro, dopo gli Stati Uniti, il cliente maggiore dello Stato d’Israele e le relazioni economiche fra i due paesi tendono a intensificarsi. Situazione favorevole oggi. Ma domani? Gli ebrei specie quelli d’origine tedesca sanno che l’antisemitismo è sempre latente in Europa, specie sul Reno e sul Danubio. Questo processo non rischia di riattizzarlo? Recentemente si sono avute in Germania manifestazioni individuali d’intolleranza che preoccupano. Certi ebrei tedeschi sarebbero molto più tranquilli se Eichmann fosse stato giustiziato sul posto dopo un processo sommario celebrato dai suoi rapitori nella stanza dove lo tenevano prigioniero in attesa di trasferirlo da Buenos Aires a Tel Aviv. Gli israeliani che avrebbero preferito che Eichmann non avesse mai messo piede nel loro paese sono tuttavia una minoranza assai esigua. E una minoranza sono anche i comunisti che di fronte al caso Eichmann hanno un atteggiamento particolarmente, ma praticamente, del pari negativo. Essi mostrano di non prendere sul serio il processo. «È solo una parata», dicono; «la verità non sarà detta; Ben Gurion non vuol dar noia ad Adenauer; se qualcosa di spiacevole per il cancelliere minaccerà di venir fuori, cercherà di soffocarlo».
Insinuazioni
comuniste
I comunisti disapprovano la politica del governo, specie quella estera. «Ben Gurion ha fatto dello Stato d’Israele una pedina avanzata di Washington nel mondo arabo». Così affermano. Questa è del resto la tesi ufficiale del governo sovietico. Oggi essi divulgano ciò che riguardo al processo viene detto a Mosca o a Varsavia. A Varsavia si raccontava, e oggi si racconta a Gerusalemme e a Tel Aviv, che mai i rapporti fra Israele e la Germania di Bonn sono stati così fitti come in questa momento. Agenti israeliani, si diceva a Varsavia e dicono oggi i comunisti a Gerusalemme, viaggiano attualmente in Germania in cerca di soldi. Lo Stato d’Israele ha bisogno di crediti e nel caso Eichmann vede il mezzo per ottenerli a condizione di favore dalle banche e dagli enti pubblici della Repubblica federale. In cambio, naturalmente, dell’insabbiamento del processo. L’accusa insomma non cercherebbe di sapere troppe cosa, e risparmierebbe i complici di Eichmann che eventualmente si trovassero nel governo di Bonn od occupassero posti importanti in altre pubbliche amministrazioni. I comunisti dicono in particolare che il municipio di Amburgo ha già dato cento milioni. E Amburgo è una città socialdemocratica. Ciò vorrebbe dire che in Germania non è soltanto il governo a temere che dal processo di Eichmann esca tutta la verità, ma anche l’opposizione.
Reazioni
diverse
Queste voci tuttavia, per quanto scandalistiche hanno poco effetto sull’opinione pubblica. I comunisti in Israele, contrariamente a ciò che avviene in Italia o in Francia, sono degli isolati. Ciò dipende dal fatto che Israele è un paese assediato e che l’Unione Sovietica aiuta quelli che l’assediano. In questa situazione è naturale che qui i comunisti vengano quasi considerati come dei nemici. Finora s’è parlato però d’israeliani di diritto ma non di cuore, di minoranze comunque. Come reagisce la massa? Dura ancora l’esaltazione dell’estate scorsa quando, nel suo insieme, tutto il paese si sentì solidale con Ben Gurion e si compiacque della sfida che il vecchio combattente lanciava al mondo? Bisogna però distinguere fra gli ebrei provenienti dall’Europa e quelli arrivati dall’Africa settentrionale e dall’Arabia. Ognuno dei due gruppi rappresenta la metà della popolazione. Tutti parlano l’ebraico e sono cittadini con pari diritti, ma il loro animo, specie per ciò che riguarda il passato del popolo israeliano, è molto diverso. Il caso Eichmann ha messo in evidenza questa diversità. Per averne una sensazione diretta a Gerusalemme, saliamo sul monte di Sion. Ci si arriva con una scalinata e giunti lassù la guida conduce nella tomba del re David. Dopo la tomba si passa alle “Camere della distruzione”. Nell’ultima camera, in una vetrina, c’è il cimelio più importante di tutta la mostra: una saponetta ovale, dal colore grigio con sopra impresse le iniziali, R. J. F.: Reines, Judisches, Fett; puro grasso ebraico. Ormai tutto il mondo ne ha parlato. Ma è interessante vedere le reazioni del pubblico. Gli ebrei di origine europea, davanti alla saponetta e alla scritta che spiega di che si tratta, chiudono gli occhi e non di rado si vedono piangere. Alcuni di loro che hanno perduto decine di parenti nel massacro sono attraversati a un tratto da un dubbio orribile. Ma i visitatori provenienti dall’Africa o dall’Asia non mostrano che stupore. Molti di loro confessano candidamente di non aver mai saputo nulla di certe cose. Le loro idee sulla “soluzione finale del problema ebraico”, sono molto vaghe. Gli israeliani d’origine africana e asiatica, finché abitavano nei loro paesi, erano al corrente della tragedia dei loro correligionari solo per sentito dire. Nel Marocco, come in Algeria, in Egitto o nello Yemen, essi vivevano al riparo dal nazismo. In quei paesi godevano anzi di qualche privilegio costituendo quasi per intero il ceto mercantile e artigianale. Davanti agli arabi analfabeti essi rappresentavano anche la cultura. Arrivando in Israele nel momento della lotta, il nemico non era più il nazista ma l’arabo. Così le loro nozioni sulla grande strage fra il ’39 e il ’45 non ebbero occasione di ampliarsi. Quei fatti non li riguardavano direttamente. Urgevano altri problemi. In Israele trovavano la libertà e l’indipendenza nazionale, ma anche una vita più dura. Di fronte ai loro correligionari provenienti dall’Europa erano in uno stato di grave inferiorità culturale. I giovani che crescevano nelle strettezze si meravigliavano che i loro padri avessero commesso l’errore di lasciare il paese dove contavano qualcosa (sia pure essendo ufficialmente dei subordinati). Scoppiarono così tante piccole tragedie familiari. L’integrazione di questi “afroasiatici” nello stato d’Israele è stata lunga e difficile. Essi non condividevano che in parte lo slancio patriottico degli ebrei in Europa. Ora cominciano a sentirsi cittadini come gli altri. Ma adesso che potrebbero capire la storia dei loro fratelli europei, il tempo è passato, la tragedia è lontana, e nessuno gliene parla più. Così, quando vanno in visita ai luoghi dove si conservano i documenti e le prove del grande martirio, non c’è da stupirsi se guardano increduli. Ed ecco che Eichmann offre al governo il destro di dare a tutta una parte del popolo che fin qui viveva nell’ignoranza, una dimostrazione esemplare di che cosa è stato il razzismo in Europa. Invece del monte di Sion e degli altri luoghi sacri, c’è il palazzo del processo. Il pubblico non può entrarvi, ma la radio, la televisione, i giornali, assicurano che nulla resterà ignoto. Per gli israeliani d’origine europea bisogna invece fare una distinzione relativa all’età. Ben Gurion e i suoi amici del governo e del partito di maggioranza, il Mapai, non sono contenti dei giovani. Finita nel ’56 con la campagna del Sinai la fase eroica della storia moderna d’Israele, i giovani hanno cominciato a disarmare. La loro affluenza nei kibbuzim, ad esempio, è fortemente diminuita. I giovani, come in ogni altro paese del mondo, sono soprattutto preoccupati dal problema del loro confort personale. Per vivere bene, qui, bisogna lavorare molto. Gli studi, conclusi i corsi d’istruzione media gratuiti per tutti i cittadini, costano cari. Per l’università ci vogliono 600 lire israeliani l’anno, pari a circa 200.000 lire italiane. Uno studente che non sia ricco di famiglia se vuole continuare gli studi fino alla laurea deve trovarsi un lavoro.
Lezione
per i giovani
Un
tempo queste difficoltà erano uno stimolo, rappresentavano quasi uno sport. Uno
studente di fisica d’origine italiana, Franco Volterra, che oggi è fra i
maggiori scienziati del paese, di giorno seguiva i corsi all’università di
Gerusalemme e di notte andava a fare lo stalliere in un kibbuz. Vi sono molti
altri casi come questo. Fino al ’48 poi, oltre allo studio e al lavoro,
c’era la guerra. Ma come paiono lontani quei tempi ai giovani d’oggi! Anche
gli israeliani preferiscono pensare al futuro piuttosto che al passato. Un certo
spirito pionieristico è rimasto, ma di carattere individuale. Per esempio, se
una società mineraria cerca dei tecnici per un’impresa che nasce nel Negev
non avrà difficoltà a trovarne. Eppure il Negev non offre che sassi e sabbia.
Riuscirà il processo Eichmann a dare alle nuove generazioni una più viva
coscienza del passato? Farà capire loro rievocando gli anni del terrore e della
morte quanto sia importante essere padroni in casa propria, cittadini di uno
stato proprio, e quanto sia precario essere ospiti in casa di altri? Chi non ha
certo bisogno di questa lezione sono i cittadini di Israele sfuggiti alle
persecuzioni in Europa e che hanno vissuto il periodo sanguinoso della lotta per
l’indipendenza. Il passato rappresenta per questa gente la cui età si aggira
intorno ai quaranta anni il periodo più intenso, se non il più bello della
vita. Mai si stancheranno di ricordarlo. Per questo non hanno bisogno né del
sapone del monte Sinai né del viso pallido di Eichmann. Mai si stancheranno di
ricordarlo, per questo non hanno bisogno né del sapone di Monte Sion, né del
viso pallido di Eichmann dietro il vetro del suo box d’imputato.
Da L’Espresso 50 anni, vol. 1, 16 aprile 1961, per gentile concessione