Saggi storici
La
persecuzione degli ebrei in Italia dalle leggi razziali alla deportazione
di
Michele Sarfatti
(*)
(*) Coordinatore delle attività della fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano
Introduzione
Raggiunta l'Argentina nel 1942, il modenese Enzo Levi decise di scrivere un saggio sulle vicende degli ebrei italiani e sulla persecuzione che lo aveva costretto ad abbandonare la sua città e il suo paese. Sentendo che non gli sarebbe stato facile riuscire a trasmettere ai nuovi amici di oltre - Atlantico e ai futuri italiani liberi "cosa" era veramente accaduto nell'Italia fascista, "cosa" lo aveva spinto all'esilio, dette alla narrazione un inizio che merita riportare:
«È difficile rendersi
conto della gravità degli effetti delle disposizioni razziali in Italia, se
quel periodo non lo si è vissuto. Stentarono a rendersene conto, almeno fino
a che io rimasi in Italia, nei primissimi mesi del 1942, milioni di italiani
cattolici; è naturale che così fosse, per quanto possa apparire a prima
vista incredibile, se si ha presente la percentuale degli ebrei, inferiore
all'uno per cento della popolazione italiana, e il loro raggruppamento in poche
città e in talune regioni; tanto che in molte province, soprattutto del
Mezzogiorno d'Italia, non vi erano affatto ebrei. Le leggi razziali furono una
mazzata sul capo degli stessi ebrei, i quali non se le aspettavano, se pure si
era diffuso un senso di inquietudine e di nervosismo. Per dare un'idea della
gravità delle norme che colpivano gli ebrei dirò della mia famiglia. lo ebbi
precluso l'esercizio della professione di avvocato, con la quale guadagnavo
quanto
occorreva per mantenere i numerosi familiari. Dei miei sette figli, la maggiore,
laureata e sposata, aveva vinto un concorso d'insegnamento, ma la legge glielo
precluse; il marito, impiegato al tribunale, e che si preparava agli esami per
il passaggio alla Magistratura, fu licenziato con un'indennità ridicola.
Altri due miei figli, laureati in scienze e in legge, furono posti
nell'impossibilità di svolgere attività in impieghi pubblici e in grave
difficoltà per trovare lavoro in aziende private. Gli altri miei figli erano
ancora agli studi e furono cacciati dalle scuole pubbliche. Era loro
consentito dare gli esami a fine anno e venivano ammessi a scrivere i temi
degli esami scritti insieme agli altri; ma, dettati i temi, si richiedeva agli
alunni ebrei di alzarsi e di uscire, perché non potevano restare nella classe
con gli altri e dovevano recarsi, per lo svolgimento del tema, in un'aula
separata.
Agli esami orali dovevano presentarsi dopo tutti gli altri. Questa forma di
trattamento avvilente spiacque ai ragazzi, ma direi che più addolorò, salvo
eccezione, gli insegnanti, i quali non sapevano come rendere meno gravoso il
provvedimento. Nel caso dei miei figli i compagni si comportavano con la
fraternità più affettuosa; poiché i miei ragazzi erano sempre eccezionalmente
preparati, tanto che occupavano regolarmente i primi posti nelle classifiche
di voto, i compagni dicevano, scherzando, che erano loro i colpiti dalle
disposizioni razziali, perché non si potevano fare aiutare agli esami dai miei
figlioli. Economicamente ero nelle condizioni peggiori, per la preclusione di
tutte le fonti di reddito; soltanto un modestissimo patrimonio immobiliare
offriva la possibilità, con la liquidazione dei miei crediti professionali,
di realizzare quanto occorreva per vivere, esaurendo il capitale, per alcuni
anni, e quanto presumibilmente occorreva per uscire tutti undici dall'Italia.
La situazione era dunque grave; ma io e mia moglie e i figli maggiori eravamo
preparati moralmente, prima ancora della promulgazione delle leggi razziali;
ed avevamo già preso decisioni di massima. La previsione rappresenta, in questi
casi, un'enorme fonte di tranquillità e di forza. Credo dunque ozioso insistere
sul nostro caso; mi limito a ricordare le lacrime e le disperazioni dei figli
minori, soprattutto per l'esclusione dalle scuole, per quanto soggette alle
variazioni di umore dei ragazzi; ricordo la disperazione che leggevo nel viso di
mia moglie, di cui subivo il riflesso come da uno specchio, ogni volta che una
telefonata, o lo schiamazzo dei ragazzi "ariani" che uscivano dalle
scuole vicine a casa nostra, ci ricordavano che non erano più imminenti i
ritorni da scuola anche dei nostri figlioli e che questi, nostro orgoglio,
erano considerati indegni di vivere fra gli altri nelle scuole pubbliche» (*Enzo
Levi, Memorie di una vita, 1889-1947, Mucchi, Modena, 1972).
Due pagine di diario,
scritte nell' ottobre 1938 dalla veronese Silvia Forti Lombroso, permettono di
"rendersi conto" con maggiore precisione e partecipazione di
"cosa" significò, per la nipote studentessa e per il marito
professore universitario, essere cacciati da scuola:
«Girò gli occhi attorno
perplessa: mi vide e mi sorrise. "Ah sei qui, zia? Non ti avevo veduta
entrare; hai visto Lilli?". Un tremito nella voce, l'ombra che le si era
diffusa repentinamente sul viso, mi persuasero che avevo fatto bene a venire.
"No cara, mi son fermata qui; ti guardavo, e - aggiunsi scherzosa - ti
ammiravo". Scosse la bella testa senza sorridere. "Vai da lei, ti
prego; è tutta mattina chiusa nella sua stanza, non ha voluto mangiare;
capisci, è il primo giorno di scuola oggi... forse con te si sfogherà un
poco". Primo giorno di scuola; la vita che ricomincia come sempre per tutto
un mondo, quello dei giovani. Per te no, non ricomincia, ma s'interrompe d'un
tratto brutalmente; da oggi sei una esclusa, nessuno deve conoscerti,
avvicinarti, amarti, perché il contatto e la conoscenza rivelerebbero troppo
bene la calunnia della propaganda... Entro nella stanza di Lilli con l'anima
stretta; le lacrime dei giovani sono le più difficili ad asciugare, perché i
giovani vogliono una risposta logica e chiara ai loro "perché". La
stanza era silenziosa: appariva vuota. Gettata a traverso sul letto,
l'adolescente dormiva; le occhiaie fonde, le guance umide, il fazzoletto stretto
fra le dita, dicevano ancora l'appassionato" perché" rivolto alla
vita da una giovinezza radiosa, improvvisamente oscurata nel primo tragico
urto con l'ingiustizia e col dolore... Sono le otto ormai; l'ora di uscire, di
andare all'Istituto; la lezione è ancora da preparare, gli studenti già
arrivano a tre, a quattro, ridenti, chiassosi... L'aula è già quasi piena...
ma ancora c'è qualche minuto di tempo; per interrogare l'interno che ha
passato lì la notte a sorvegliare l'esperienza, per confrontare i diari, per
dare un' occhiata alle provette - chissà se questa sarà l'esperienza
probatoria, chissà? Quella che dà conferma a dieci anni di lavoro, o se tutto
si dovrà pazientemente ricominciare? L'occhio del professore si posa sul
calendario. Mercoledì. Oggi doveva venire all'Istituto l'aiuto di patologia;
insieme dovevano discutere sul nuovo metodo per controllare negli animali gli
effetti del "lipocaid" ... Un orologio lontano, un altro più vicino
suonan le nove: bisogna muoversi, bisogna andare: andare dove? Fare cosa? Si
avvicina al tavolo, apre un plico raccomandato. È il suo ultimo lavoro già in
corso di stampa, che il direttore del giornale gli rimanda; poche parole di
scusa imbarazzate, non può. più pubblicarlo, è dolente... Ne apre un
altro; è il presidente dell' Accademia delle Scienze che lo avverte che per
ordini ricevuti cancella il suo nome dall’elenco dei soci. Getta nel cestino
impaziente, prende un libro, cerca di assorbirsi nella lettura. Non
può; la mente divaga, quello che legge ha il tono freddo delle cose
morte... Di nuovo un pauroso senso di vuoto gli attanaglia
l'anima. E come se brutalmente gli avessero stroncato ogni ragione per vivere,
è come se tutto intorno a lui fosse crollato. Si alza impaziente. Tutto
all'intorno è uguale a ieri; tutto è solito, tutto ha il sapore di sempre:
eppure tutto è perduto, tutto è mutato, tutto è travolto. Ormai il sole è
alto nel terso cielo autunnale; inonda di luce la stanza, scherza sugli specchi,
sui caratteri d'oro nel dorso dei libri; si posa e si trattiene a terra sul
fascio di giornali sparsi dovunque, dà rilievo ai titoli dei quotidiani scritti
in caratteri cubitali: "I giudei esclusi dalle Università";
"Liberiamoci dalla peste giudaica"; "Finalmente purificate
dagli ebrei, le Università italiane risorgeranno a nuova vita» (*
Silvia Lombroso, Si può stampare. Pagine vissute, 1938-1945, Dalmatia,
Roma, 1945).
Caratteristiche generali della
legislazione antiebraica
I.
Quelli sopra descritti furono alcuni degli effetti concreti della normativa
antiebraica introdotta dal Governo fascista del Regno d'Italia a partire dalla
tarda estate del 1938. Tale normativa fu assai ramificata e riguardò tutti gli
ambiti della vita del paese; di essa fece parte anche la regolamentazione
dell'identificazione dei perseguitandi. Poiché gli ebrei non possedevano (non
possiedono) alcuna caratteristica somatica specifica, e poiché comunque un
razzista ha sempre la necessità di classificare i misti (ossia, secondo
l'aberrante linguaggio utilizzato all' epoca, le persone nei cui corpi circolava
sia "sangue ebraico" sia "sangue ariano"), il fascismo
dovette
varare una definizione giuridica di ebreo. Questa può essere
riepilogata nel seguente modo (con l'avvertenza che, per comodità di
esposizione, si fa qui riferimento a una persona con quattro nonni classificati puri;
nel caso invece fossero stati misti, anch' essi avrebbero dovuto
essere assoggettati al medesimo processo classificatorio):
a)
Il discendente da 4 nonni ebrei era
classificato comunque "ebreo", anche se non apparteneva alla religione
ebraica.
b)
Il
discendente da 3 nonni ebrei, secondo la legge persecutoria del novembre 1938
poteva essere classificato"ariano". Per la classificazione di
"ariano" occorreva che il suo genitore misto ed egli stesso
appartenessero ufficialmente a religione non ebraica alla data del 1 o ottobre
1938 (agnostici e catecumeni erano quindi sempre da classificarsi
"ebrei") e che non avessero compiuto, dopo l'inizio di tale
appartenenza, "manifestazioni di ebraismo" (tali ad esempio erano
l'iscrizione volontaria a una comunità ebraica, il matrimonio con persona
classificata "ebrea", la procreazione di figli classificati
"ebrei"), Ben presto però venne deciso, con una disposizione
amministrativa,
di classificare comunque "ebreo" chiunque avesse "più del 50% di
sangue ebraico".
c)
Il
discendente da 2 nonni ebrei poteva essere classificato "ebreo" o
"ariano", Per la classificazione di "ariano" occorreva che
almeno un suo genitore misto (nel caso i quattro nonni avessero
costituito due coppie miste) e comunque egli stesso appartenessero
ufficialmente a religione non ebraica (secondo i criteri indicati al punto b),
d)
Il
discendente da 1 nonno ebreo poteva essere classificato "ebreo" o
"ariano", Per la classificazione di "ariano" occorreva che
o il suo genitore misto o egli stesso appartenessero ufficialmente a
religione non ebraica (secondo i criteri indicati al punto b).
e)
Il
discendente da 4 nonni ariani era classificato comunque "ariano",
anche se apparteneva alla religione ebraica.
f) Nei casi c e d (e, inizialmente, in quello b) la possibilità di essere classificato "ariano" era prevista solo per chi faceva parte di famiglie italiane e "regolari": il "nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l'altro di nazionalità straniera" e il "nato da madre di razza ebraica quando sia ignoto il padre" erano sempre classificati "ebrei".
Questo sistema classificatorio teneva conto di fattori
variegati ed è di complessa definizione; tuttavia, essendo i suoi cardini
costituiti dagli automatismi dei casi a e e, il suo riferimento
principale va indubbiamente individuato nel razzismo di tipo biologico.
I criteri di classificazione dei misti del caso f e di quello b (versione definitiva) costituivano
- da
un punto di vista tecnico - una forzatura peggiorativa di tale asse di
riferimento; mentre quelli dei casi c e d costituivano null'
altro che uno dei possibili compromessi tra le opposte necessità razzisti che
di colpire il "sangue ebraico" e salvare il "sangue ariano".
Peraltro il fascismo razzista prese concrete misure contro il riprodursi di tali
situazioni: nel novembre 1938 venne vietata la celebrazione di nuovi matrimoni razzialmente
misti, e nel 1942 venne deciso di punire le unioni miste non
formalizzate (comprese quelle sancite solo da un matrimonio religioso
cattolico). Il divieto del 1938 concerneva anche i matrimoni misti tra un
"ariano" e un "camita" (ossia, ad esempio, un abitante
dell'Etiopia appena conquistata); peraltro le unioni miste non
formalizzate
di quest'ultimo tipo erano state vietate per legge già nel 1937. Con ciò, la
dittatura fascista era giunta al punto di revocare ai propri sudditi
("ariani" o no che fossero) anche il diritto di scegliere liberamente
il proprio partner. Non è noto il numero esatto di quanti furono
classificati "di razza ebraica" e quindi assoggettati alla
persecuzione; sulla base di complessi calcoli, si può ipotizzare che essi siano
stati circa 51.100, dei quali circa 46.600 erano effettivamente ebrei e
circa 4500 erano non ebrei (ossia appartenevano ad altre o nessuna
religione, ma per lo più a quella cattolica). I perseguitati inoltre erano
suddivisi - tenendo conto delle norme legislative del 1938 sulla revoca delle
cittadinanze e dei permessi di residenza - in circa 40.000 italiani e circa
11.000 stranieri (dei quali circa 3000 ammessi a risiedere). Nel complesso, i
perseguitati costituivano l' 1,1 per mille della popolazione della penisola.
II.
La persecuzione antiebraica era composta da singoli atti vessatori, volta per
volta aventi una specifica finalità o rispondenti a un disegno di carattere
generale. Quest'ultimo consisteva in sostanza nella totale arianizzazione del
paese. Mussolini prese in considerazione la possibilità di revocare la
cittadinanza a una parte o alla totalità degli ebrei italiani. In effetti
egli concretizzò tale proposito solo (nel settembre 1938, e con alcune
eccezioni) nei confronti degli ebrei stranieri che l'avevano acquisita dopo il
1918. Il principio della "denazionalizzazione" degli ebrei italiani
peraltro caratterizzò di fatto la loro persecuzione sociale e normativa
sin dal suo inizio: la propaganda orale e scritta affermò chiaramente che gli
"appartenenti alla razza ebraica" costituivano un gruppo distinto dall'entità regime-Stato-nazione italiana e ostile nei suoi confronti; le
leggi erano intitolate alla "difesa" della razza; in varie occasioni
"ebreo" venne contrapposto a "italiano", oltreché ad
"ariano" ecc. E, dato il significato che allora era attribuito alla
difesa militare della nazione, l'espulsione totale degli ebrei dall'esercito
significò la loro espulsione materiale dalla patria. Gli unici perseguitati che
mantennero una carica pubblica furono i nove senatori" di razza
ebraica": nel loro caso evidentemente il dittatore decise di rispettare la
natura regia della loro nomina e il Re decise di rispettare la durata vitalizia
della carica; essi pertanto conservarono il loro titolo per tutto il periodo, ma
venne loro sospeso l'invio degli atti parlamentari e i portieri del Senato
vennero incaricati di dissuaderli dall' entrare nel palazzo. Gli ebrei - e i
cattolici "di razza ebraica" perseguitati con loro - si videro
revocati molti diritti civili (il principale diritto politico, quello
di votare liberamente per liste alternative, era già stato soppresso per tutta
la popolazione), subendo un repentino declassamento di fatto. La mancata
revoca formale della loro cittadinanza sembra quindi da addebitare solo a motivi
di opportunità, quali il desiderio delle autorità statali di non perdere i
legami con gli influenti nuclei di ebrei italiani presenti sulle sponde del
Mediterraneo, o la loro consapevolezza che i paesi confinanti non avrebbero
consentito l'ingresso di questi nuovi ebrei apolidi. Perché, appunto,
l'obiettivo primo del fascismo (fino all'estate 1943) fu quello di
eliminare tutti gli ebrei dal territorio della penisola, con rapidità e
definitivamente. A questo riguardo, già nel settembre 1938 il Governo vietò
nuovi ingressi di ebrei stranieri a scopo di "residenza" e decretò
- salve alcune eccezioni - l'allontanamento dall'Italia di coloro che avevano
iniziato a risiedervi dopo il 1918; successivamente vietò gli ingressi a
scopo di "soggiorno" o di "transito" agli ebrei apolidi,
tedeschi o di altri paesi antisemiti. Al momento dell'ingresso dell'Italia
nella seconda guerra mondiale (10 giugno 1940), divenuti largamente impossibili
gli allontanamenti forzati alla frontiera, fu deciso di estendere la misura
bellica dell'internamento degli "stranieri nemici" agli ebrei
stranieri non autorizzati a risiedere nella penisola. Essi dovevano essere
internati
in campi di concentramento a loro riservati, ove sarebbero rimasti - come fu
detto ufficialmente - «anche a guerra ultimata, per essere trasferiti di là
nei paesi disposti a riceverli» (il principale di questi campi fu allestito a
Ferramonti, in provincia di Cosenza). L'internamento fu in sostanza una forma di
prigionia, non accompagnata da violenze fisiche; tuttavia fu, appunto, una
misura punitiva, motivata solo dall' antiebraismo. Anche per gli ebrei italiani
il fascismo si proponeva di giungere alla loro eliminazione dal territorio
della penisola. Data la profonda integrazione esistente tra essi e gli altri
italiani, tale obiettivo non venne però immediatamente proclamato e perseguito
pubblicamente. L'azione pubblica governativa fu quindi inizialmente rivolta
soprattutto a eliminare gli ebrei dalla vita nazionale (espulsione dalle
cariche pubbliche e dal comparto educativo-culturale) e a separarli dai
non ebrei (divieto di matrimoni misti ecc.); mentre le altre misure persecutorie
(revoca o limitazione della possibilità di lavorare e di istruirsi)
stimolavano oggettivamente i perseguitati separati a emigrare. Per quanto
è oggi noto, solo il 9 febbraio 1940 Mussolini fece comunicare ufficialmente
all'Unione delle comunità israelitiche italiane che gli ebrei italiani
dovevano lasciare, gradualmente ma definitivamente, la penisola. Tale ordine era
connesso a un progetto legislativo, elaborato appunto nel 1939-1940, ma al
dunque
rinviato al termine della guerra nel frattempo iniziata, che disponeva
l'espulsione definitiva dal paese, entro 10 anni, della grande maggioranza dei
perseguitati (ne sarebbero stati eccettuati quelli di religione cristiana
aventi coniuge ariano cristiano e figli cristiani). Il progetto legislativo
prevedeva, per coloro che non fossero espatriati volontariamente entro il
termine stabilito, l'accompagnamento coatto alla frontiera o - in caso di
impossibilità - l'internamento in «colonie di lavoro per opere di pubblico
interesse». Arenatosi il progetto, e avendo la situazione bellica ridotto
ai minimi termini la stessa emigrazione ."spontanea", il governo
mise in atto l'alternativa suddetta, stabilendo nel maggio 1942
l'assoggettamento dei perseguitati al "lavoro obbligatorio" e
decidendo nel maggio-giugno 1943 l'istituzione di veri e propri "campi di
internamento e lavoro obbligatorio". La realizzazione di questi ultimi
(dislocati in quattro regioni e destinati ad ospitare gli ebrei tra i 18 e i 36
anni) fu al dunque interrotta il 25 luglio 1943, quando le vittorie degli
alleati nel Mediterraneo
e il loro sbarco in Sicilia determinarono la crisi politica del regime
fascista e la caduta di Mussolini.
III.
I divieti e le esclusioni varati nel corso del quinquennio contro gli
"appartenenti alla razza ebraica" riguardarono tutti gli ambiti della
vita sociale. Essi ebbero sempre caratteristiche umilianti; ma furono in genere
atti persecutori "finalizzati", e solo raramente atti unicamente
umilianti. Occorre qui precisare che inizialmente il regime aveva promesso di
esentare in parte dalla persecuzione (ossia, come fu detto all' epoca, di discriminare)
le persone" di razza ebraica" parenti di caduti in guerra o per la
causa fascista, o in possesso di speciali "benemerenze" personali di
ordine bellico (volontario, ferito, decorato ecc.), politico (iscrizione al
Partito nazionale fascista prima del 1923 o nel secondo semestre 1924, cioè
prima dell'ascesa di Mussolini al Governo o subito dopo l'assassinio di Giacomo
Matteotti), o di natura comunque "eccezionale". Al dunque, però,
anche in questo campo la normativa effettivamente varata fu più grave di quanto
annunciato e la discriminazione comportò sostanzialmente solo la
possibilità di poter possedere fabbricati urbani, terreni e aziende (e poter
dirigere
queste ultime) in misura superiore a quella fissata per gli altri ebrei, e di
poter svolgere una libera professione (avvocato, medico, ostetrico, farmacista,
giornalista, ragioniere, perito, agronomo ecc.) anche a favore di clienti non
ebrei (ovviamente, a condizione che questi volessero servirsi di un ebreo).
Stando alla legge persecutoria del novembre 1938, il discriminato avrebbe
dovuto conservare anche altri diritti, come quello di prestare servizio
militare; ben presto però queste ulteriori concessioni furono annullate da
altre leggi o da disposizioni amministrative. In termini concreti quindi, la discriminazione
costituì un beneficio ridotto e decrescente nel tempo (e per di più non
ottenibile automaticamente e trasmissibile ai discendenti solo per un massimo di
due generazioni); molti perseguitati tuttavia ne richiesero la concessione,
per via del suo significato simbolico di attestazione di "benemerenza"
per l'Italia, o "perché non si poteva mal sapere... . Relativamente alle
attività lavorative, i comparti preclusi in modo totale furono quello degli
impieghi pubblici e assimilati, quello delle libere professioni (con le
eccezioni già menzionate per i discriminati), quello del credito e delle
assicurazioni, quello delle attività turistiche ed alberghiere, quello dello
spettacolo, quello delle attività commerciali a carattere ambulante o
comunque tali da comportare una apposita licenza di polizia, quello del lavoro
dipendente presso aziende qualificate dalla normativa bellica come ausiliarie
alla difesa della nazione (ad esempio la Fiat, la Compagnia Generale di
Elettricità
ecc.). In alcuni casi i divieti si accavallavano, come nel caso di
professionisti dipendenti dalla pubblica amministrazione; altre volte invece si
espandevano verso limiti mal definiti, arrivando a comprendere i dipendenti di
aziende industriali a capitale pubblico, o le aziende commerciali che
rifornivano comparti arianizzati, o insegnamenti particolari come le
scuole private di ballo o di cucito. Nel febbraio 1942, poi, il Ministero
delle corporazioni ordinò alle aziende e agli uffici di collocamento di
favorire sempre l'occupazione dei "lavoratori di razza ariana", sia in
occasione di nuove assunzioni, sia in caso di riduzioni di personale. La
documentazione relativa ai "campi di internamento e lavoro
obbligatorio" sembra attestare che tale misura avrebe separato pressoché
definitivamente gli ebrei dal mondo lavorativo "ordinario". Gli
ebrei stranieri furono assoggettati alle medesime disposizioni, ma la maggior
parte di loro perse il diritto a lavorare già in conseguenza della perdita del
diritto a risiedere. Si è detto che alcuni divieti lavorativi furono decisi
direttamente dall'autorità di polizia. In effetti, tra il dicembre 1938 ed il
dicembre 1942, oltre a quella del commercio ambulante, vennero disposte decine
di interdizioni di tutti i tipi. Agli ebrei fu vietato di essere amministratori
o portieri in case abitate da ariani; di essere titolari di attività nei
seguenti settori: agenzie d'affari di brevetti e varie; commercio di preziosi;
esercizio dell' arte fotografica; mediatori, piazzisti, commissionari;
tipografie; impiego di gas tossici; raccolta di rottami metallici e di
metalli; raccolta di lana da materassi; ammissione all'esportazione della
canapa; ammissione all' esportazione di prodotti ortofrutticoli; raccolta di
rifiuti; raccolta e vendita di indumenti militari fuori uso; vendita di
oggetti antichi e d'arte, di libri, di oggetti usati, di articoli per bambini,
di carte da gioco, di articoli ottici, di oggetti sacri, di oggetti di
cartoleria, di carburo di cacio; guida di autoveicoli di piazza ecc. Agli
ebrei fu vietata la pubblicazione sulla stampa di avvisi mortuari e di pubblicità;
l'inserimento del proprio nome in annuari ed elenchi telefonici; la
concessione di riserve di caccia; la licenza di pescatore dilettante; la vendita
e la detenzione di apparecchi radio ecc. Vennero sostituiti i nomi ebraici
attribuiti a vie, piazze e moli marittimi; vennero rimosse le lapidi poste in
ricordo di ebrei; agli ebrei fu vietato di accedere ai locali delle borse
valori; di affittare camere a non ebrei; di accedere alle biblioteche pubbliche;
di far parte di cooperative; di far parte di associazioni culturali e sportive
(e una circolare apposita stabiliva l'esclusione dalle società di protezione
degli animali); di essere titolari di permessi per ricerche minerarie; di
esplicare attività doganali; di pilotare aerei di qualsiasi tipo; di allevare
colombi viaggiatori; di ottenere il porto d'armi ecc. Agli ebrei italiani non discriminati
fu vietato di possedere o dirigere aziende commerciali o industriali
"interessanti la difesa della nazione" o comunque aventi più di 99
dipendenti (in caso di possesso di più aziende, questo valore era riferito al
complesso di esse). Peraltro vari ebrei - discriminati e non - furono
indotti a cedere le proprie aziende già al momento del prospettarsi della
persecuzione o, soprattutto, a causa degli effetti dell’insieme della
normativa. Agli ebrei italiani non discriminati fu inoltre vietato di
possedere
case e terreni oltre un valore definito dalla legge. Gli enti operanti nel
teatro, nella musica,' nel cinema, nella radio ecc., afferenti direttamente o
indirettamente allo Stato, licenziarono subito tutti i dipendenti stabili (dai
dirigenti agli operai) ebrei e annullarono tutti i contratti temporanei ad
artisti ebrei; nel giugno 1940 questa norma fu ufficialmente estesa alle
imprese private. Le opere di autori ebrei vennero progressivamente escluse
dalle trasmissioni musicali della radio, dai programmi dei teatri lirici e di
prosa, dai cataloghi delle case discografiche, dalle sale cinematografiche, fino
a essere bandite dall'intero settore dello spettacolo nel giugno 1940. Tra la
fine del 1938 e gli inizi del 1939 le case editrici cessarono pressoché del
tutto di pubblicare nuove opere di autori ebrei; mentre il ritiro dalla
circolazione di quelle già in commercio si sviluppò confusamente - e
segretamente - tra la primavera del 1938 (quando vennero sequestrati alcuni
libri di ebrei tedeschi), l'agosto 1939 (quando venne presa la decisione di
ritirare
tutta la produzione "ebraica") e il febbraio 1940 (quando venne
ufficialmente comunicato agli editori il divieto pressoché totale di stampa,
circolazione e inclusione nei cataloghi). Vennero anche sequestrati i libri non
razzisti, come un dizionario da tempo in commercio contenente la definizione: "antisemiti,
gente poco civile che osteggia e combatte gli ebrei". La normativa
persecutoria non colpì invece la vita organizzativa e religiosa degli enti
ebraici. Peraltro, tra i diritti individuali colpiti vi fu anche quello di
"vivere ebraicamente": il 19 ottobre 1938 venne vietata la
macellazione degli animali secondo il rito ebraico; entro la fine di
quell'anno tutti i periodici ebraici dovettero in un modo o nell'altro cessare
le pubblicazioni e l'anno successivo le autorità respinsero formalmente la
richiesta dell'Unione delle comunità israelitiche di riattivarne uno per
soddisfare unicamente i "bisogni religiosi" dei singoli e le necessità
informative delle comunità; nel 1942 agli ebrei assoggettati al "lavoro
obbligatorio" venne vietato di rispettare anche le principali festività
ebraiche.
La normativa persecutoria nella scuola
La
politica arianizzatrice nella scuola attuata dal Ministro
dell’educazione nazionale Giuseppe Bottai fu totalitaria ed effettivamente
completa. Nell'agosto 1938 egli emanò primi provvedimenti antiebraici di natura
amministrativa, decretando il divieto di iscrizione alle scuole di ogni ordine e
grado degli studenti ebrei stranieri (divieto successivamente, come si dirà,
leggermente emendato), il divieto di conferimento di incarichi o supplenze a
insegnanti ebrei, il divieto di adozione di libri di testo di autori ebrei. Egli
inoltre, al pari degli altri ministri, dispose l'effettuazione di un censimento
razzista di tutto il personale dipendente del suo ministero (docente e non
docente), e raccomandò la diffusione generalizzata nel mondo scolastico della
nuova rivista La dIfesa della razza. L' 1-2 settembre 1938 il Consiglio
dei ministri esaminò un primo gruppo di provvedimenti legislativi persecutori
aventi carattere di urgenza, due dei quali concernevano la scuola. Il varo
anticipato di questi ultimi rispetto al provvedimento persecutorio di
carattere generale (promulgato due mesi dopo) era dovuto all' approssimarsi
del nuovo anno scolastico e quindi all'intenzione di Bottai di introdurre le
nuove norme antiebraiche prima della formazione delle classi e dell'inizio delle
lezioni. Tali provvedimenti erano: il regio decreto-legge 5 settembre 1938, n.
1390, che dispose l'esclusione (ossia l'espulsione dei già iscritti e il
divieto di nuove iscrizioni) immediata di tutti gli studenti "di razza
ebraica" dalle scuole statali o riconosciute di ogni ordine e grado (la
dizione comprendeva anche le università, dalle quali però non vennero
espulsi gli studenti già iscritti) e la sospensione dal servizio (misura
provvisoria in attesa del varo del provvedimento di carattere generale) dal 16
ottobre di tutti gli insegnanti ebrei; e il regio decreto-legge 23 settembre
1938, n. 1630 (promulgato con qualche ritardo perché occorreva definire
alcuni dettagli tecnici), che introdusse la possibilità di costituire
"speciali sezioni di scuola elementare" (laddove vi fossero perlomeno
10 iscritti) o scuole elementari dipendenti dalle comunità israelitiche
(laddove queste fossero in grado di provvedervi) destinate esclusivamente a
"fanciulli di razza ebraica" (questa disposizione era dovuta alla
preoccupazione governativa di non violare del tutto il principio dell'obbligo
scolastico). Il 7 -1O novembre 1938 il Consiglio dei ministri varò il regio
decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, che definiva le caratteristiche
generali della persecuzione antiebraica, e il regio decreto-legge 15 novembre
1938, n. 1779, che riepilogò, modificò e ampliò la normativa concernente la
scuola. Il primo di essi tra l'altro stabilì chi doveva essere
classificato" ebreo" ai fini dell'applicazione delle norme
persecutorie (il decreto del 5 settembre aveva provvisoriamente classificato
tale solo il figlio di due genitori ebrei). Il secondo stabilì la seguente
normativa definitiva:
a)
Esclusione
di tutti gli studenti "di razza ebraica" dalle scuole elementari e
medie di ogni tipo frequentate da alunni" di razza ariana"; peraltro
gli esclusi potevano frequentare le scuole elementari e medie cattoliche
(qualora essi professassero tale religione), o quelle elementari e medie per
soli ebrei eventualmente istituite, a determinate condizioni, dalle comunità
israelitiche, o le già menzionate "speciali sezioni di scuola elementare
.
b) Esclusione
di tutti gli studenti "di razza ebraica" dalle università, ad
eccezione di coloro che - italiani o stranieri, ma non tedeschi -
fossero
già iscritti nell' anno accademico 1937-1938 e non fossero fuori corso.
c)
Esclusione
di tutti gli insegnanti "di razza ebraica" dalle università e dalle
scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado, ad eccezione di quelle
eventualmente istituite dalle comunità e delle "speciali sezioni".
d)
Esclusione
di tutti gli altri dipendenti "di razza ebraica" dalle scuole
(bidelli, segretari ecc.), dagli uffici del ministero, dagli enti da questo
sostenuti o sorvegliati ecc.
e)
Divieto
di adozione nelle scuole medie di libri di testo redatti, commentati o riveduti
da autori "di razza ebraica", anche se in collaborazione con autori
"di razza ariana".
La radicalità e la
totalitarietà di queste norme è evidente, ed a questo riguardo è interessante
notare che, relativamente all'esclusione degli studenti ebrei dalle scuole
pubbliche, l'Italia fascista precedette la stessa Germania nazista, la quale
solo dopo il sanguinoso pogrom del 9-10 novembre 1938 decise a sua volta
di abbandonare il sistema di numerus clausus istituito nel 1933 e di
adottare anche per gli studenti un provvedimento di esclusione generalizzata.
In sostanza, dal sistema scolastico italiano vennero espulsi: 96 professori
universitari ordinari e straordinari, più di 133 aiuti e assistenti
universitari, numerose decine di incaricati e lettori, 279 presidi e professori
di scuola media (173 in quelle di istruzione classica, scientifica e magistrale
e 106 in quelle di istruzione tecnica), un numero tuttora ignoto (ma superiore
al centinaio) di maestri elementari, varie decine di impiegati, 114 autori di
libri di testo per le scuole medie (peraltro spesso colpiti anche quali
professori), oltre 200 liberi docenti, alcune migliaia di studenti elementari e
medi e alcune centinaia di studenti universitari. Di tutti questi dati, il più
rilevante è forse quello concernente i 96 professori universitari. Essi
costituivano il 7 per cento della categoria, e questa percentuale (70 volte
maggiore, in termini relativi, di quella dell'intero gruppo ebraico nel
complesso della popolazione) era forse la più elevata conseguita in quell'epoca
da ebrei in una specifica professione nazionale. Una percentuale così alta
segnalava sia la forte propensione ebraica agli studi, sia la larga accettazione
degli ebrei da parte degli altri italiani. In quel 7 per cento però vi era
anche qualcosa di profondo e fondamentale, di connesso alla stessa italianità:
si può legittimamente ipotizzare che il gruppo ebraico costituisse uno dei
modelli di elaborazione e trasmissione della cultura superiore e specializzata
nella penisola. Anche per questo, l'espulsione dei docenti ebrei è stata una
profonda ferita che il regime fascista ha inferto all'Italia, oltre che ai
singoli perseguitati. Queste misure legislative furono affiancate ed aggravate
da misure disposte con provvedimenti amministrativi. Così, con successive
circolari, Bottai ordinò di rimuovere dalle aule le carte geografiche murali
realizzate da ebrei (in quanto assimilate ai libri di testo); dispose la
sostituzione dei nomi ebraici di scuole e istituti; decretò che i libri di
testo potevano contenere una quantità minima di citazioni e riferimenti al
pensiero di autori ebrei e solo a condizione che questi fossero morti prima del
1850; dispose che gli studenti ebrei presentatisi come privatisti agli esami dei
cicli elementare e medio venissero esaminati separatamente dagli studenti ariani
(e, agli orali, dopo di essi) ecc. Inoltre, per l'università, vennero istituiti
o potenziati gli insegnamenti concernenti la razza; fu vietato il
riconoscimento dei titoli accademici conseguiti all' estero da ebrei italiani e
stranieri; vennero allontanati dalla vita universitaria i professori emeriti e
onorari (gli annuari universitari non dovevano dare notizia delle loro attività
e della loro eventuale morte); fu proibita la concessione di sussidi e premi
agli studenti ebrei ammessi a concludere gli studi ecc. Queste circolari vennero
emanate tra l'autunno 1938 e l'estate 1939; ma si trattava di infamie tutto
sommato secondarie: la normativa persecutoria principale era già inserita nei
regi decreti-legge del 5 settembre e del 15 novembre, significativamente
intitolati
"per la difesa della razza nella scuola fascista" e "per la
difesa della razza nella scuola italiana". Ma nella scuola non vi fu solo
l'introduzione delle norme direttamente antiebraiche. Dall'autunno 1938, e per
cinque - sette anni scolastici, le scuole pubbliche della penisola sollecitarono
gli studenti rimasti (quelli classificati "di razza ariana") ad essere
coscienti ed orgogliosi della loro superiore arianità, della loro
superiore cattolicità, della loro superiore bianchezza, della
loro superiore fascistitudine. Razzismo ed antisemitismo dilagarono nei
libri di testo, nell'insegnamento, nella vita scolastica quotidiana, nella
formazione degli stessi insegnanti. L'ampiezza di questa vera e propria riforma
strutturale è testimoniata dall'impegno profuso nell' “aggiornamento”
degli insegnanti. Ad esempio, in quegli anni vennero pubblicati il manuale
di F. Cassano, Argomenti di pedagogia fascista, guida per la preparazione ai
concorsi magistrali, Bari, Macrì, 1938, 2a ed., contenente i capitoli «Necessità
di razzismo» e «Il razzismo nella scuola»; e quello di M. Crapanzano e A.
Caro, Educazione fascista. Fondamenti dottrinali e dissertazioni per i
candidati ai concorsi magistrali, Milano, Casa Editrice Nuova Italia, 1942,
contenente il capitolo «Il problema della razza». Nel frattempo, il 16 ottobre
1938 il regio ispettore scolastico T. L. Flores tene a Littoria una
conferenza ai maestri e direttori della provincia su Razzismo, autarchia e
scuola (poi pubblicata a Napoli, tipo Amitrano, 1938); S. Sabatini parlò a
una conferenza-lezione per maestri indetta dal provveditorato agli studi su La
scuola e il problema della razza (poi pubblicata a Teramo, tipo Teramana,
1938); M. Gentile tenne a Padova una lezione ad un convegno per dirigenti e
insegnanti medi organizzato dal provveditore agli studi su Autarchia dello
spirito ed orgoglio di razza negli insegnamenti storico-filosofici; sempre
nell'autunno 1938, «quattrocento tra Provveditori agli studi, ispettori
scolastici e direttori didattici dell'Italia centrale... hanno chiuso i lavori
del loro convegno trattando il tema: Mezzi e forme per radicare nel fanciullo
l’orgoglio e la fierezza della propria razza»; nel gennaio 1939 N. Giani
tenne la prolusione inaugurale al corso di dottrina fascista per maestri
elementari su Perché siamo antisemiti (poi pubblicata in un quaderno
della Scuola di mistica fascista Sandro Italico Mussolini, Milano-Varese, 1939)
ecc. Anche i risultati di questo "aggiornamento" vennero, in almeno
un caso, pubblicati: il preside di un istituto tecnico di Treviso raccolse nel
volumetto Per la difesa della razza (Treviso, Longo e Zoppelli, 1940), i
propositi di insegnamento razzista e antisemita esplicitati, su sua richiesta,
dagli insegnanti delle varie materie. E, tra l'autunno 1943 e la primavera
1945, non pochi giovani "ariani", cresciuti in questa Italia e
formati in questo sistema scolastico, si trovarono ad arrestare i loro
non-compagni-diclasse ebrei e i loro non-professori o
non-autori-di-libri-di-testo ebrei, per consegnarli a killer specializzati
stranieri.
La deportazione (1943-1945)
Il
10 luglio 1943 i primi reparti angloamericani sbarcarono in Sicilia. Il 25
luglio Mussolini venne deposto e arrestato, e il Re incaricò Pietro Badoglio di
formare un nuovo Governo; questi mantenne l'alleanza con la Germania, ma iniziò
a trattare un armistizio con gli alleati, che venne infine annunciato l'8
settembre.
Per quanto concerne gli ebrei, in quei quarantacinque giorni il Governo Badoglio
operò nel seguente modo: mantenne in vigore tutte le leggi antiebraiche e
revocò alcune disposizioni persecutorie di natura amministrativa o aventi
scopi ideologico-propagandistici. Del resto, mentre immediatamente dopo il 25
luglio i partiti antifascisti e varie personalità democratiche avevano
sollecitato una radicale abrogazione della legislazione antiebraica, altri
ambienti si erano pronunciati diversamente: in agosto la Santa Sede aveva
informato il Ministro dell'interno che la legislazione in questione, «secondo
i principii e la tradizione della Chiesa cattolica, ha bensì disposizioni che
vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma». Alla fine
del settembre 1943 il paese si trovò diviso in due parti: le regioni
meridionali e le isole sotto il controllo degli alleati e del Regno d'Italia,
le regioni centrali e settentrionali sotto il controllo della Germania nazista
e del nuovo Stato costituito dai fascisti (poi denominato Repubblica sociale
italiana). Nella prima zona, il Governo Badoglio prese infine atto delle
richieste degli alleati (l'articolo 31 del cosiddetto armistizio lungo stabiliva:
«Tutte le leggi italiane che implicano discriminazioni di razza, colore, fede
od opinioni politiche saranno, se questo non sia già stato fatto, abrogate») e
il 24 novembre 1943 il Consiglio dei ministri iniziò l'esame dei provvedimenti
legislativi di abrogazione della normativa persecutoria. Nella seconda zona la
persecuzione antiebraica assunse immediatamente nuove e più gravi
caratteristiche. In conseguenza del lento spostamento della linea del fronte,
essa durò nove mesi a Roma, undici mesi a Firenze e quasi venti mesi nelle
città settentrionali. Vi furono assoggettate presumibilmente 43.000 persone,
suddivise in poco meno di 33.000 ebrei effettivi e in circa 10.000 non
ebrei classificati "di razza ebraica". I tedeschi effettuarono i
primi arresti di ebrei subito dopo l'8 settembre. Il 23 di quel mese, il RSHA
(la centrale di polizia tedesca che gestiva la politica antiebraica), in
accordo col Ministero degli affari esteri tedesco, comunicò formalmente ai
propri uffici dipendenti e periferici che gli ebrei di cittadinanza italiana
.erano divenuti immediatamente assoggettabili alle "misure" in
vigore per gli altri ebrei europei (ossia alla deportazione verso i campi di
sterminio). Già il giorno dopo, il 24 settembre, il responsabile della
polizia tedesca a Roma ricevette l'ordine di iniziare i preparativi per
l'arresto e la deportazione degli ebrei di quella città (la retata nella
capitale fu poi effettuata il 16 ottobre). Gli ebrei arrestati venivano
raccolti nelle carceri delle principali città (o, successivamente e nell'area
nord-orientale, nel campo di transito allestito dai tedeschi nella Risiera di
San Saba, a Trieste) e periodicamente avviati per lo più al campo di
sterminio di Auschwitz-Birkenau. Inizialmente, il Governo fascista-repubblicano
costituito da Mussolini il 23 settembre 1943 non effettuò arresti (senza
peraltro
contestare quelli operati dai tedeschi); ma il 14 novembre il nuovo Partito
fascista repubblicano, in un'assemblea tenuta a Verona, approvò un
"manifesto programmatico" che proclamava tra l'altro: «Gli
appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra
appartengono a nazionalità nemica». Questa dichiarazione giustificava e
preannunciava i provvedimenti di arresto delle persone e di confisca dei beni.
Il 30 novembre 1943 il Ministro dell'interno Guido Buffarini Guidi diramò un
"ordine di polizia" che disponeva l'arresto degli ebrei di qualsiasi
condizione o nazionalità e il loro concentramento dapprima in campi
provinciali e poi in campi nazionali in corso di allestimento. Così, sulla
base di una semplice disposizione burocratica, le autorità locali della
Repubblica sociale italiana iniziarono ad arrestare gli ebrei, a raccoglierli in
campi provinciali e poi ad inviarli nell'unico campo nazionale nel frattempo
allestito: quello di Fossoli di Carpi, in provincia di Modena. Gli ebrei
arrestati per ordine italiano ebbero lo stesso destino di quelli arrestati per
ordine tedesco: sia gli uni sia gli altri furono deportati dai tedeschi. Sul
piano tecnico, la saldatura tra le politiche antiebraiche italiana e tedesca
ebbe luogo nel campo nazionale di Fossoli: lì, a partire dalla fine del
dicembre 1943, gli italiani fecero affluire gli ebrei arrestati nelle varie
province e da lì, a partire dalla seconda metà del febbraio 1944, i tedeschi
fecero partire i convogli di deportazione. Questo meccanismo non subì
alcuna modifica né nel marzo successivo, quando anche la gestione
amministrativa del campo fu trasferita dalla polizia italiana a quella tedesca,
né alla fine di luglio, quando i tedeschi decisero di spostare il campo da
Fossoli a Bolzano. Mussolini conosceva da tempo il "destino" riservato
da Hitler agli ebrei deportati da tutta Europa; e, dopo l’8 settembre 1943,
costituendo il suo nuovo governo sotto la protezione del potente alleato;
fu ben consapevole del fatto che quel destino avrebbe ormai riguardato anche gli
ebrei d'Italia. È vero il fatto che non sono stati finora reperiti (e chissà
se mai lo saranno) autografi del dittatore o verbali di parte tedesca
attestanti la decisione formale mussoliniana di partecipare all'assassinio degli
ebrei da lui governati. Ma le parole scritte diventano largamente inutili di
fronte all' esplicita evidenza di un meccanismo concreto ripetuto decine di
volte: gli italiani arrestavano e trasferivano a Fossoli, i tedeschi
prendevano in consegna e deportavano; gli italiani arrestavano e trasferivano a
Fossoli, i tedeschi prendevano in consegna e deportavano; gli italiani arrestavano
e trasferivano a Fossoli, i tedeschi prendevano in consegna e deportavano... Nel
frattempo, il 4 gennaio 1944, era stata disposta la confisca di tutte le
proprietà immobili e mobili degli ebrei (compresi gli spazzolini da
denti). La nuova legge stabiliva tra l'altro dure pene per coloro che avessero
compiuto «atti diretti all'occultamento, alla soppressione, alla
distribuzione, alla dispersione, al deterioramento o alla esportazione dal
territorio dello Stato» di quei beni; ed è opportuno ricordare che nessuna
pena venne invece mai stabilita dalla Repubblica sociale italiana nei confronti
di coloro che attuavano o predisponevano l"'esportazione" e la
"soppressione" dei corpi viventi dei proprietari di quei beni.
Gli effetti, le reazioni, il lascito
I. La persecuzione
varata nel 1938 violentò gli uomini e le donne, le loro identità, le loro
coscienze, i loro rapporti sociali, i loro affetti. L'impostazione razzista
data alla legislazione violentò anche le differenze di convinzione politica
dei perseguitati, trasformandoli tutti - fascisti, antifascisti o afascisti
che fossero - in nemici del regime (e ciò per i primi costituì uno specifico
ulteriore tradimento). Alcune migliaia di ebrei si risolsero ad abbandonare la
penisola, senza sapere se vi sarebbero tornati. Altre migliaia abbandonarono
l'ebraismo, spesso senza peraltro cessare di essere perseguitati. Il numero
annuo dei matrimoni di ebrei crollò, e così quello delle nuove nascite nelle
famiglie già costituite. Alcuni infine si suicidarono. In fin dei conti, già
prima del settembre 1943 la dittatura fascista era ben incamminata verso il
conseguimento dell' obiettivo che si era data: l'eliminazione degli ebrei dal
paese. I rimasti si riambientarono lentamente in un mondo uguale al precedente e
però stranamente nuovo. Coloro che avevano familiari "ariani", o
che avevano solide amicizie con non ebrei, mantennero alcuni legami con la
società circostante e in taluni casi furono anche aiutati a proseguire o
sostituire l'attività che era stata loro vietata; gli altri, e specialmente i
più giovani, si rinserrarono nella famiglia e nella vita comunitaria ebraica,
si trovarono rinchiusi in una sorta di ghetto immateriale. Gli enti ebraici,
ossia le comunità e l'Unione delle comunità israelitiche ita1iane, si
trovarono stretti tra l'amarezza e la rabbia determinate dalla persecuzione e
la consapevolezza dell'isolamento che ormai li circondava, tra il desiderio di
richiedere un qualche alleggerimento della nuova normativa e il timore di
provocare
invece ulteriori indurimenti. Alcuni dirigenti dell' ebraismo trovarono la
forza per impegnarsi nella difesa della dignità propria e degli altri
perseguitati. Il veneziano Giuseppe Jona,
ad esempio, di fronte all' ennesimo articolo antisemita del quotidiano della sua
città, il 18 ottobre 1941 si recò dal direttore per dirgli:
“Non sono così ingenuo da
chiedervi ritrattazioni o rettifiche. Vengo a chiedervi qualche cosa di molto
più semplice: vi chiedo che sappiate nell'avvenire serbare una maggiore
misura nella vostra campagna di persecuzione. Voi sapete bene che noi siamo un
bersaglio senza difesa. Non possiamo reagire colla violenza, perché sarebbe
provocare un massacro. Non possiamo reagire per le vie legali, perché saremmo
inascoltati. Perciò ci si può pugnalare, colla offesa atroce di tutti i
giorni, sicuri dell'impunità. Comunque io non san venuto ad invocare generosità
od equità. Vi ripeto, domando una cosa sola: sappiate. serbare nell' avvenire
maggiore misura, per rispetto a voi stessi”.
(«Relazione alla Giunta
della Comunità israelitica di Venezia (23 ottobre 1941)», citata in: Renata
Segre (a cura di), Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una comunità tra
persecuzione e rinascita, il Cardo, Venezia, 1995, p. 95).
Il primo e più rilevante
problema che le comunità israelitiche si trovarono ad affrontare fu quello
della scuola: nello spazio di poche settimane (talora, per le medie, di pochi
giorni) dirigenti e comitati improvvisati si dedicarono a una frenetica attività
per comprendere gli effettivi termini giuridici e burocratici della questione,
reperire e attrezzare i locali, censire gli scolari, individuare gli insegnanti,
organizzare insomma una struttura la più completa possibile. Tali difficoltà
furono parzialmente compensate dall'elevato livello del corpo insegnante,
comprendente anche docenti universitari licenziati, noti artisti espulsi da
tutte le attività, studiosi di chiara fama estromessi da istituti e redazioni.
Tutto ciò valeva comunque solo per le comunità più popolose; e, in termini
complessivi, è stato osservato che la persecuzione fascista causò «un netto
rallentamento, e perfino un regresso, in seno a certe generazioni», del livello
educativo degli ebrei della penisola. Per una parte crescente degli adulti, la
legislazione persecutoria significò invece prima di tutto la perdita del
posto di lavoro, spesso senza possibilità di reimpiego. Alla fine del 1938 un
esponente dell'Unione delle comunità israelitiche parlava già di «impellenti
dolorose necessità di tanti correligionari stranieri divenuti improvvisamente
indigenti, mentre comincia ad avanzarsi lo spettro della indigenza di
correligionari connazionali colpiti dai recenti provvedimenti». Tra gli
italiani, la punta di massima miseria si verificò probabilmente a Roma, ove
la sola revoca nel 1940 delle autorizzazioni al commercio ambulante colpì
numerose centinaia di «capi-famiglia del popolino, tutti con moltissimi figli
ed altre persone a carico». In termini generali, la persecuzione comportò un
deciso impoverimento medio del gruppo ebraico nel suo insieme e un forte
impoverimento di ampi strati di esso; e occorre tenere presente che a questo
fenomeno finì per contribuire la stessa opera di assistenza agli ebrei
bisognosi, sostenuta largamente da quelli facoltosi o per il momento meno
colpiti dalla persecuzione. La grande maggioranza dei non ebrei, la cosiddetta gente
comune (ossia coloro che non erano fascisti convinti o antifascisti) si
dovette misurare con la propaganda attivata dal regime. Ernesta Bittanti,
l'intelligente compagna (non ebrea) di Cesare Battisti, così descrisse
quest'ultima, nel novembre 1938:
“La stampa che è tutta statale, e vuole avere uno
spirito antiebraico, dà uno spettacolo pietoso, ributtante di incongruenze,
contraddizioni, spropositi storici, nefandezze da sciacalli (approva, per
esempio,
con enfasi, la soppressione d'una casa editrice, soppressione che ha condotto
l'onesto editore ebreo al suicidio). Lo spettacolo di un pagliaccio ubriaco. Ma
dàlli, dàlli, dàlli, il senso di diffidenza e di odio si appiccicherà, si
diffonderà (a nostra vergogna) forse. Non mancano già i pappagalli ed i
malvagi. (* Ernesta Bittanti Battisti,
Israel-Antisrael. Diario 1938-1943, Manfrini, Trento, 1984).
E la già menzionata Silvia
Forti Lombroso così ha tratteggiato gli effetti di questa campagna e la
diversità di comportamento dei suoi conoscenti "ariani":
“Ripenso a voi, nobili e
cari e indimenticabili amici, che ci siete venuti incontro nell' ora del
dolore con tanta delicata comprensione, con generosità così calda, con così
consolante e coraggioso disinteresse! Siete sparsi un po' dappertutto, dalla
Liguria rude ma sincera, alla cara lontana Sicilia, e nell'agonia dei giorni
tormentosi, i fili d'oro della vostra amicizia ci hanno protetto, con un velo
impalpabile, dalle ferite più crudeli. Una parola fu coniata per voi:
"pietisti", e vi fu gettata in faccia come un'accusa. Come pietisti
l'avv. R. e il dr. B. furono mandati al confino; e con loro quanti altri! La
nuovissima civiltà infatti ha paura specialmente di una cosa; di lasciar
sussistere negli individui dei sentimenti umani. Giustizia, tolleranza,
solidarietà, pietà, sono i nemici peggiori, e vanno combattuti con ogni arma.
E curiosa è la "reazione", cioè la "non reazione" che ho
osservato nelle persone anche intelligenti, anche buone. Protesterebbero se
voi diceste loro che sono inumani, anticristiani; eppure, in pratica, si
sforzano
giorno per giorno di diventare un poco più indifferenti al tormento quegli
altri; e se proprio qualche scrupolo rimane, lo fanno tacere; e si consolano
dicendo che, in fondo a questa campagna, ci deve essere "una ragione",
un qualche cosa di misterioso, che nessuno ha scoperto mai, che nessuno sa
cosa sia, ma che" ci deve essere", non fosse che per permettere a
questa brava gente di dormire i propri sonni tranquilli”.
Così, - l'antisemitismo attivo,
praticato senz'altro da una minoranza della popolazione, venne affiancato da
una fascia di indifferenza, ben più diffusa del primo, e di fatto complice
di esso. Vi furono, certamente, donne e uomini "giusti" (i "pietisti"),
e non furono pochi. Ma, giorno dopo giorno, il regime fascista accrebbe il tasso
medio di antisemitismo della società nazionale.
II. Senza considerare i
circa 200 ebrei trasferiti dall'isola di Arbe a Trieste e lì
"unificati" a quelli rastrellati nella penisola, durante l'intero
periodo vennero deportati dall'Italia 7400-7600 ebrei, 6720 dei quali sono stati
identificati; di questi, 5896 vennero uccisi e 824 sopravvissero. Altri 299
ebrei morirono nella penisola. La retata più numerosa (oltre 1000 deportati) fu
quella effettuata a Roma il 16 ottobre 1943; gli eccidi principali furono
quelli delle Fosse Ardeatine (ove vennero uccisi ebrei e non ebrei) e del Lago
Maggiore. Il totale dei deportati e degli uccisi in Italia fu pari a poco meno
del 20 per cento delle circa 43.000 persone classificate "di razza
ebraica" presenti nelle regioni assoggettate all'occupazione tedesca e
alla Repubblica sociale italiana (la percentuale delle vittime tra le persone effettivamente
ebree fu più alta; tra i rabbini-capo fu pari al 43 per cento). Gli altri circa 35.000 perseguitati evitarono l'arresto
grazie alla fortuna, al proprio spirito di iniziativa, o all' aiuto di altri
ebrei e - soprattutto - non ebrei; di essi, circa 6000 riuscirono a rifugiarsi
in Svizzera o nell'Italia del sud, 28.000 riuscirono a rimanere nascosti, un
migliaio partecipò alla Resistenza. Una relazione, redatta nel febbraio 1945 da
una torinese impegnata nell' azione di soccorso ai perseguitati, così
descrisse la loro condizione:
“Da oltre un anno gli
ebrei sono scomparsi dalla circolazione. Non ne devono più esistere nella
Repubblica Sociale Italiana. Eppure di tanto in tanto per la strada accade di
incontrare qualche parente, qualche amico. I volti si animano, la gioia di
ritrovarsi brilla negli occhi. Istintivo e reciproco è il pensiero: "Sei
ancora vivo?". Si narrano in breve le vicende e le peripezie subite. Sono
per lo più le medesime: gravi pericoli corsi, vagabondaggi di paese in paese,
sempre con il terrore di essere scoperti, separazioni improvvise di famiglie,
sofferenze morali e disagi fisici sopportati. E purtroppo immancabilmente c'è
qualche brutta notizia: "Sai, hanno ucciso in combattimento Sergio. Hanno
preso Guido e sua moglie. Il bimbo di pochi mesi è stato raccolto da
parenti!". Il pensiero va agli amici cari di un tempo, a qualche serata
passata insieme lietamente, spensieratamente. Amici che non rivedremo più.
Uccisi o deportati è la stessa cosa. Anzi, l'ucciso ha dato generalmente la
propria vita per un ideale; muore subito o quasi; riceve, sia pure nel modo più
occulto o modesto, sepoltura. I compagni ne riferiscono gli ultimi istanti,
parlano della sua morte. Del deportato in Germania non se ne sa più nulla;
muore in qualche oscuro campo di concentramento dopo atroci sofferenze fisiche o
morali, ridotto forse ad uno stato di abbrutimento animalesco. I due si
lasciano. Naturalmente l'uno tace all'altro il proprio indirizzo, le proprie
nuove generalità. E chissà quando si riincontreranno, se pure si incontreranno
ancora. (Giorgina Segre, Gli ebrei nella Repubblica sociale
italiana, Archivio della fondazione Centro di documentazione ebraica
contemporanea, Milano, Fondo Raffaele Jona).
Il gravissimo cambiamento di
qualità della persecuzione determinò anche un cambiamento nelle reazioni dei
non ebrei; tanto più che le sconfitte militari e ora anche l'esistenza (al
sud) di un'Italia non fascista spingevano ad interrogarsi finalmente a fondo
sulla condizione propria e del paese. Così, molti ebrei furono salvati e
protetti da molti italiani non ebrei. Questi erano persone di tutti i ceti
sociali e di tutte le condizioni professionali; tra essi vi erano contadini e
impiegati delle anagrafi comunali e delle questure, dirigenti di ospedale e con
un ruolo spesso determinante - responsabili di conventi e altre strutture cattoliche.
In quei mesi, tra le persone classificate "di razza ariana" (ossia
il 999 per mille della popolazione della penisola), si svolse un duro confronto
tra gli "italiani mala gente" - gli arrestatori, i delatori, gli
acquiescenti, i noncuranti - e gli "italiani brava gente" -
i
soccorritori attivi, i caritatevoli, i solidali, i "giusti" -. Fu
l'impegno militare degli Alleati e quello politico e militare della Resistenza
a permettere la vittoria dei valori di questi ultimi, e quindi la salvezza e
il ritorno all'eguaglianza degli ebrei non ancora arrestati.
III. In una Firenze appena
liberata, e mentre nell'Italia settentrionale ancora avvenivano arresti e
deportazioni, il giornale del Comitato toscano di liberazione nazionale, La
Nazione del Popolo, scrisse:
“Si è tanto parlato, in tempo fascista, sui
giornali, sulle riviste e sui muri, del cosiddetto problema della razza, e
quelle parole si sono accompagnate ad azioni così feroci e così
profondamente offensive del senso civile degli italiani, che l'improvviso
silenzio sull'argomento viene accolto, in generale, con sollievo. È una
vergogna di cui tutti preferiscono dimenticarsi, una volta che i nostri
concittadini perseguitati abbiano ritrovato il loro posto nella libera comunità
del nostro popolo. Se le leggi e le persecuzioni razziali fossero state un
episodio occasionale nella lunga storia dei misfatti fascisti, il silenzio
sarebbe giustificato. Se le rovine causate da queste leggi riguardassero
soltanto
coloro che ne furono colpiti, non avremmo da fare altro che abolirle, cercando
di sanare per quanto è possibile, con spirito di fraterna solidarietà, i
danni e i lutti dei perseguitati. ... Ma la politica razziale non fu un episodio
occasionale, e le sue presenti rovine hanno travolto non i soli perseguitati,
ma la vita intera del nostro Paese. Poiché il razzismo è la base stessa del
nazismo, un suo momento necessario, un suo sinonimo; e non potremo dirci
veramente liberati dall'ombra funesta del fascismo fino a che non avremo
spazzato dalle nostre anime e dai nostri costumi fin l'ultimo ricordo della
distinzione razziale. Il problema coinvolge tutta la nostra civiltà, e non
deve,
oggi, essere taciuto, né ridotto a una semplice questione di giustizia e di
rivendicazione”. (La
Nazione del Popolo, a.
I, n, 19, 18-19 settembre 1944).
E, in quelle stesse
settimane, a Roma, Silvia Forti Lombroso osservò:
“Ed
ora, a poco a poco, giorno per giorno, si rinasce alla vita; no, non è questo;
troppo comune è la frase, e non esprime che una parte della verità, la più
superficiale. È una frase che vale per chi, grave per malattia, si salva all'ultim'ora,
e ritorna agli umani con quel sorriso incerto e stanco di chi ha intravisto un
al di là di pace, ma se ne distacca con gioia per rigodere il sole, per
riattaccarsi all'amore. Ogni giorno porta una forza nuova, accresce una
vitalità perduta; ma soltanto il corpo è malato, e le cellule e la linfa si
rinnovano, man mano che l'infezione è indebolita e vinta. Ma siamo noi malati,
siamo noi convalescenti? No, noi siamo della gente che per lunghi anni è stata
ferita, calpestata, calunniata, e ha dovuto trovare in sé ed in sé sola, la
forza di non soccombere. Noi siamo della gente che ha dovuto ad un tratto,
senza colpa, senza ragione, rompere tutti i rapporti umani, rinunciare al
supremo bisogno e al diritto di lavorare, far fronte a difficoltà e a
pericoli mortali, e tutto questo senza potersi difendere, senza poter reagire:
e ancora oggi che si ritesse intorno a noi la trama sottile che ci lega agli
altri esseri, ancora oggi che dai frantumi della nostra vita sta per sorgere
una vita nuova, più pensosa, più profonda, ancora oggi, per molti di noi, un
qualche cosa di non preciso, di non ben chiaro, un qualche cosa che deve essere
detto, e non fu detto, resta, sottile ed amaro, nell' anima ancora
indolenzita... Questo martirio che noi abbiamo sofferto, ancora più nell'anima
che nel corpo, questi nostri morti dilaniati, queste madri torturate, questi
bimbi trucidati, e tutte le lacrime sparse, e le gioie perdute, e i focolari
violati, tutta questa marea di furore e di sangue, tutto questo cumulo di
rovine e di stragi che fu in Europa la persecuzione razziale, servirà a qualche
cosa, servirà a una causa comune? Sarà la lava livellatrice che brucia e
divora, ma prepara il ricco fiorire dei mandorli, o sarà la melma sassosa che
uccide il seme e soffoca gli armenti? Nel dramma universale della guerra, nella
vastità sconfinata delle stragi, la campagna razziale può sembrare, ed è
realmente, un dramma che va considerato rispettando le leggi della prospettiva
e dell’insieme. Gli ebrei non devono e non vogliono mettersi al centro del
quadro: tutt'altro. Dopo tanta gratuita pubblicità, non desiderano che
rientrare nelle file in silenzio, con dei capelli grigi di più, con delle rughe
più fonde, coi loro lutti nell'anima; la loro tragedia si affianca a quella di
tutti, scompare e si riassorbe nella tragedia della Patria. Ma è legittimo che
essi chiedano a sé stessi e agli altri: servirà a qualche cosa questo sangue
versato, il sangue di quasi sei milioni di uccisi, come il sangue del più
umile fantaccino francese, inglese, americano, polacco, russo, come il sangue
del patriota italiano, come il sangue dei civili di tutto il mondo sepolti dalle
macerie della propria casa, serve una causa comune, la causa della libertà e
della civiltà? Per questa nostra sventura, per questi morti invendicati, per
questa ingiustizia sofferta, che vuole e deve essere dimenticata, potranno i
figli, e i figli dei nostri figli, pensare a noi come a chi, cadendo, ha
preparato un mondo migliore, che non sia più il mondo dei "se", dei
"ma", delle mezze frasi reticenti, delle allusioni offensive, delle
insinuazioni misteriose, delle reminiscenze approssimative, che prepararono
così bene il terreno per il sorgere e lo scatenarsi di queste persecuzioni
mostruose? Ecco il dubbio che ci tormenta, ecco la ragione, la vera ragione del
nostro pensoso accoramento... Si vorrebbero abolite, non sulla carta soltanto,
ma nei cervelli, anche le premesse per le quali la persecuzione stessa ha
potuto essere, non dirò approvata, ma sopportata, senza che da parte di molti
ci fosse una vera, profonda, sincera rivolta morale”.
Da La persecuzione degli ebrei durante il fascismo - Le leggi del 1938, a cura della Camera dei Deputati, 1998