Diario

Nel Nord Africa molti arabi salvarono gli ebrei dalle persecuzioni hitleriane, ma ì discendenti di quei Giusti considerano un disonore l'aiuto dato al «nemico». E anche lo Yad Vashem ha iniziato a onorarli solo con sessant'anni di ritardo

Gli Schindler scomodi

Bruno Segre

 

Degiudaizzare il mondo. L'idea, nata nel cuore dell'Occidente cristiano e messa largamente in opera con la Shoah, sta da qualche tempo prendendo piede anche nell'Oriente islamico. L'interminabile stato di guerra in Medio Oriente e l'avversione spesso delirante del mondo arabo e islamico nei confronti di Israele rischiano di vanificare l'obiettivo di fondo proclamato fin dal 1897 dal movimento sionista: creare per il popolo ebraico uno Stato capace di porsi su un piano di autentica parità con le altre entità statali. E normalizzare in tal modo l'immagine degli ebrei nella percezione degli altri popoli. E se, fino a qualche anno fa, sembrava doveroso tenere nettamente separati i problemi mediorientali dalle tragiche vicende dell'epoca del nazifascismo, ora, sia pure con i dovuti e ovvii distinguo, questa separazione è divenuta precaria. I dirigenti iraniani non hanno esitato, in odio verso Israele, a negare la Shoah. E gli ebrei sono chiamati a fare i conti, non più con il razzismo degli europei - che sembrano ora maggiormente attratti da altri bersagli polemici -, ma con l'estremismo religioso di marca islamista, che esprime se stesso riutilizzando tutti gli argomenti portati in auge e fatti circolare in Europa nel passato, compresi quelli del razzismo nazista. Ma, al di là dell' oltranzismo antiebraico degli islamisti, è piuttosto diffusa tra gli arabi, e non soltanto tra di loro, la convinzione che la Shoah vada vista come una vicenda nella quale gli arabi non avrebbero avuto alcuna parte. Alla luce di questa lettura della storia, ideologica e riduttiva, la Shoah viene presentata come un evento che si sarebbe consumato in Europa esclusivamente a opera degli europei, mentre agli arabi sarebbe poi toccato in sorte l'amaro calice di veder nascere lo Stato d'Israele, e di assistere impotenti alla conseguente espropriazione e dispersione di una parte della popolazione palestinese. Secondo la narrazione israeliana ­ che alla narrazione araba si contrappone in termini altrettanto ideologici e riduttivi - nel contesto della Shoah vi sarebbe un'unica personalità araba a emergere con un certo rilievo, e sarebbe quella di Haj Amin al Husseini, il gran muftì di Gerusalemme che, in effetti, fu un notorio amico di Hitler e uno strenuo sostenitore del nazismo in terra di Palestina. In realtà, il quadro storico offerto da queste due narrazioni, reciprocamente contrapposte, presenta una lacuna non trascurabile. Viene messo fra parentesi, o meglio taciuto scientemente, un capitolo piuttosto importante della storia del genocidio ebraico: quello della Shoah che ebbe luogo nell'Africa settentrionale. Ed è un silenzio consapevole, voluto tanto dagli ebrei quanto dagli arabi. All'epoca della Shoah, nell'Africa del nord non esisteva alcun governo arabo che potesse far propria la campagna di sterminio degli ebrei. Ma nel giugno del 1940, quando i francesi, umiliati militarmente, si arresero alla Germania nazista, i territori del Maghreb sotto amministrazione francese (Marocco, Algeria e Tunisia) vennero considerati parte della cosiddetta Francia «non occupata», ossia di quella parte meridionale del territorio metropolitano nella quale il vecchio maresciallo Pétain aveva creato, sotto la tutela nazista, uno Stato collaborazionista e reazionario, con la città termale di Vichy per capitale. Accadde allora che alle popolose minoranze dell'ebraismo sefardita, residenti da secoli nel Maghreb, vennero via via applicate, a partire dall'autunno del 1940, le misure vessatorie che il regime di Vichy - il «governo del disonore» - impose nell'intento di «arianizzare» la società e la vita economica. In questo contesto, una menzione particolare merita il caso degli ebrei algerini, ai quali fu tolta, dopo settant'anni, la cittadinanza francese ottenuta in virtù del decreto Crémieux del 24 ottobre 1870. E il fatto che i loro diritti politici fossero tornati a essere quelli degli «indigeni musulmani algerini» costituì soltanto una prima deminutio, cui ne tennero dietro altre che li privarono dei diritti alla proprietà, all'istruzione scolastica, all'esercizio delle professioni, alla facoltà di muoversi e di viaggiare. Ma nell'Africa settentrionale, oltre e accanto ai francesi di Vichy, durante la seconda guerra mondiale erano presenti e attivi, in Libia, i fascisti italiani e i nazisti tedeschi (con l'Afrika Korps che, sotto il comando del generale Rommel, tentò invano di impadronirsi dell'Egitto). E tutti insieme - prima di essere definitivamente sbaragliati ed estromessi dalle truppe angloamericane - esercitarono, fino al maggio del 1943, un ampio controllo militare e amministrativo su un territorio che si estendeva da Casablanca fino a Tripoli e Bengasi. Sebbene in tale territorio non siano mai stati allestiti dei veri e propri campi di sterminio, alcune migliaia di ebrei vennero concentrati in oltre cento campi di lavoro, nei quali risulta che le condizioni di vita fossero decisamente disumane (oltre al lavoro forzato, vi furono ca­si di tortura, deportazioni ed esecuzioni). Complessivamente si calcola che, tra il 1940 e il 1943, nel Nord Africa egemonizzato dai nazifascisti perirono da quattro a cinque mila ebrei, pari all'uno per cento circa della popolazione ebraica totale: un tributo alla Shoah assolutamente incomparabile, è vero, con le perdite pesantissime subite in quegli stessi anni dagli ebrei d'Europa. È tuttavia lecito presumere che, se gli eserciti alleati - presenti in Egitto dal 1940 e poi sbarcati ad Algeri nel novembre del 1942 - non avessero definitivamente cacciato le forze dell'Asse dal Nord Africa nel maggio del 1943, alle comunità ebraiche d'Algeria, Libia, Tunisia, Marocco, e forse anche dell'Egitto e della Palestina, sarebbe stata riservata una sorte del tutto simile a quella degli ebrei europei. A un'attenta analisi storica risulta che, nei confronti del destino degli ebrei, il comportamento delle popolazioni arabo-musulmane, maggioritarie in quei Paesi, non si discostò in misura significativa da quello delle società civili dei Paesi europei sottoposti al giogo nazifascista. I più, fra gli arabi, palesarono una sostanziale indifferenza. Alcuni fecero i delatori, collaborarono con i persecutori, diedero loro una mano. Altri, invece, compirono a favore dei perseguitati atti di gratuita solidarietà, riuscendo a salvarne molti senza trarne alcun vantaggio e mettendo persino a rischio la propria vita. Insomma, si comportarono, come si dice oggi in Israele, da autentici Giusti tra le Nazioni. Tutto ciò emerge dal recente libro dello storico americano Robert Satloff: Among the Righteous - Lost stories from the Holocaust's long reach into Arab lands (Public Affairs, New York, 2006 e 2007). L'autore, che dirige il Washington Institute for Near East Policy, è uno studioso ebreo che conosce a fondo la storia moderna e contemporanea degli arabi, dei quali ha appreso la lingua, vivendo a lungo tra loro. Il suo lavoro di ricerca è iniziato all'indomani dell'11 settembre 2001 e, nonostante il fuoco di polemiche gremite di fantasmi, di satanici sospetti e di veleni circa presunti complotti seguiti agli attentati alle Torri Gemelle, è stata condotta con approccio equanime. Satloff si è concesso un periodo di tre anni per raccogliere, sui luoghi e fra la gente del Nord Africa, documenti e testimonianze su atti di solidarietà compiuti da qualche «Schindler del Maghreb». La ricerca si è rivelata fruttuosa. In effetti, vi furono arabi che ospitarono ebrei nelle loro case, che custodirono con gelosa fedeltà i loro oggetti di valore, evitandone la confisca, che condivisero con gli ebrei le scarse razioni alimentari disponibili e misero in allarme i leader delle comunità ebraiche preavvertendoli delle incombenti razzie delle SS. Tanto il sultano Muhammad V del Marocco quanto il bey Mohamed al Moncef di Tunisi offrirono agli ebrei sostegno morale e, più d'una volta, concreto aiuto materiale. Quando Algeri era controllata dal regime di Vichy, vari predicatori musulmani impartirono ai fedeli, nelle omelie del venerdì, l'esplicita proibizione di fungere da ricettatori di beni ebraici confiscati o rubati. Accanto a manifestazioni di straordinaria solidarietà da parte di notabili (come lo sceicco algerino Taieb el Okbi, il primo ministro tunisino Mohamed Chenik, l'imam Si Kaddour Benghabrit della Grande Moschea di Parigi, il proprietario terriero tunisino Khaled Abdel­wahhab), il libro di Satloff documenta puntigliosamente i casi di molti altri arabi che nel Nord Africa si comportarono con eroica generosità. Persone note e anonime, potenti e umili, membri delle più elevate sfere dell'establishment e gente comune dei villaggi: nutri ci arabe che crebbero bambini ebrei, fornai arabi che produssero pagnotte supplementari per sfamare ebrei cui erano concesse razioni estremamente ridotte, pastori arabi che salvarono ebrei accogliendoli nei loro capanni. A Gerusalemme, dalla fine degli anni Cinquanta è attivo l'istituto Yad Vashem, un'autorevole organizzazione ebraica che, oltre a custodire le memorie della Shoah, identifica e onora i Giusti tra le Nazioni, attribuendo loro i dovuti riconoscimenti. Alla fine del 2006, quando Satloff pubblicò il suo libro, lo Yad Vashem aveva proclamato Giusti più di ventimila «salvatori non ebrei». Parecchi di questi erano musulmani, in particolare turchi, albanesi e bosniaci, ma nel novero non figurava neanche un arabo. È allora lecito chiedersi quali considerazioni estranee a un sereno e scientifico approccio alla storia abbiano indotto lo Yad Vashem a inibirsi per sei decenni dall'identificare e onorare i Giusti arabi del Maghreb, alimentando in tal modo una sorta di negazionismo a carico della Shoah nordafricana. E, sul versante opposto, vale la pena di tentare di capire come mai gli eroici salvatori arabi di ebrei mostrino molto spesso - come il libro di Satloff documenta - di non gradire affatto d'essere proclamati Giusti dallo Yad Vashem. I veleni degli ultimi sessant'anni fanno sì, ora, che per questi arabi, o per i loro discendenti, l'essere visti come «coloro che hanno salvato gli ebrei» riesca inaccettabile, quasi si trattasse d'un titolo di disonore. Ma quali sono le ragioni di questo «impedimento bilaterale», di questa sorta di pluridecennale negazionismo incrociato? Per l'insieme del mondo arabo, gli effetti di breve periodo della Seconda guerra mondiale e le memorie della Shoah vennero ben presto messi in ombra da due ordini di eventi: le lotte per l'indipendenza dai regimi coloniali europei e il conflitto con il movimento sionista per il controllo della Palestina. In particolare, nell'immaginario di molte società civili arabe, la nascita dello Stato d'Israele, nel 1948, rappresentò un radicale cambiamento del modo tradizionale di rapportarsi alle comunità dell'ebraismo sefardita con cui avevano convissuto senza eccessivi problemi per molte generazioni. Gli arabi avevano sempre considerato tali comunità come minoranze da tollerare, anche perché ritenevano che i nuclei di popolazione ebraica fossero destinati a restare comunque esclusi dall'esercizio del potere politico, e che quindi costituissero entità fondamentalmente inoffensive. Nella narrazione del conflitto arabo-israeliano, gli arabi amavano sottolineare di «non aver nulla contro gli ebrei», e di considerarsi «nemici soltanto dei sionisti». Ma non più tardi della crisi di Suez, nel 1956, ogni distinzione tra lo Stato d'Israele e «gli ebrei» era ormai definitivamente scomparsa. Da lì in poi, per un arabo, l'essere identificato come difensore di ebrei, o tutore di interessi ebraici, sarebbe stato scarsamente desiderabile, se non decisamente disdicevole. Dal punto di vista degli ebrei, la questione è un po' più complicata. Per molti di coloro che risiedevano da generazioni nel Nord Africa, le memorie delle feroci persecuzioni vissute durante l'occupazione nazifascista vennero ben presto offuscate, nel dopoguerra, dall'antisionismo degli arabi, la cui ostilità si manifestò in forme meno sistematiche ma talvolta persino più violente rispetto a quella delle truppe hitleriane. Così, a cavallo tra anni Quaranta e Cinquanta, alcune centinaia di migliaia di ebrei maghrebini, non tutti animati - si badi - dagli ideali del sionismo, si videro costretti ad abbandonare le loro case e a rifugiarsi in Israele. E allorché si trovarono nella nuova terra d'asilo, le memorie del tempo di guerra - le storie delle sofferenze patite e quelle degli arabi salvatori - furono messe ulteriormente in ombra e finirono sommerse dalle montanti tensioni fra ebrei ashkenaziti ed ebrei sefarditi. Gli ashkenaziti, che all'interno della popolazione israeliana, seppur non maggioritari, rappresentavano e tuttora rappresentano il nucleo socialmente e politicamente più forte, e che dallo sterminio subito in Europa furono colpiti in modo molto più grave e profondo rispetto ai loro correligionari nordafricani, tendevano a esercitare sull'eredità della Shoah una sorta di monopolio, inducendo i sefarditi maghrebini a mettere la sordina sulla pagina di storia che li riguardava. Ma a rendere ancora più precaria la conoscenza di quella pagina contribuirono in modo determinante la generale negligenza delle istituzioni e della storiografia, nonché la curiosa posizione assunta a questo proposito dagli esigui nuclei di ebrei che, ancora dopo la nascita dello Stato d'Israele, continuarono a risiedere là dove, nel mondo arabo, erano vissute per lungo tempo floride comunità. Mentre in Algeria e in Libia le antiche agglomerazioni di fatto scomparvero, in Marocco e in Tunisia rimase, e persiste tuttora, una presenza ebraica pari al due per cento circa di quella originaria. La sopravvivenza di questi nuclei residuali è oltremodo insicura. Stretta tra regimi indifferenti alloro destino e l'estremismo islamista, questi ebrei hanno in generale optato per un'esistenza appartata, poco appariscente. Tale atteggiamento di prudente understatement investe, retrospettivamente, anche la loro storia. Satloff non ha dubbi: l'oblio nel quale questo capitolo della storia della Shoah è stato intenzionalmente lasciato cadere affonda le sue radici in due coriacei sistemi ideologici contrapposti, alla cui rigidità va in larga misura imputato il pluridecennale identico perdurare della situazione mediorientale. Il lavoro che Satloff porta avanti si collega idealmente alle espressioni culturali di quei settori della comunità ebraica americana, oggi in rapida crescita, che non hanno atteso l'emergere delle devastanti implicazioni della «grande strategia per il Medio Oriente» di George W. Bush per favorire in Israele e, dove possibile, nel mondo arabo, le iniziative delle forze che si mostrano pronte a negoziare con «il nemico» qualche soluzione di compromesso. Nell'introduzione al suo libro, Satloff parla di se stesso e del suo lavoro in questi termini: «Per formazione sono uno storico del moderno Medio Oriente. Quasi tutto ciò che ho scritto concerne gli arabi [...]. Sono anche un ebreo. Sono leale verso il mio Paese, l'America, e sono orgoglioso del legame che mi unisce a Israele, la patria degli ebrei. Intellettualmente e politicamente sono diventato maggiorenne tra i tardi anni Settanta e i primi anni Ottanta, all'epoca di Anwar al Sadat, del suo viaggio a Gerusalemme, della pace tra Israele ed Egitto: un momento carico di speranza per molti americani, e certamente per la maggior parte degli ebrei americani. Gli arabi smisero di essere caricature e iniziarono a farsi carne e sangue, figure a tre dimensioni. Fu quello, anche, il tempo in cui gli estremisti islamici, compresi gli assassini di Sadat, iniziarono a considerare l'America come il Grande Satana, e a relegare Israele al ruolo subalterno dell'aiutante del demonio. Prendendo una di quelle tacite risoluzioni che determinano l'orientamento di una vita, decisi che per il mio essere ebreo era importante capire gli arabi. E a cagione dei molti vincoli che legano fra loro l'America e Israele, e dei crescenti segnali di uno scontro diretto tra gli Stati Uniti e il Medio Oriente, decisi che il comprendere gli arabi era una parte importante anche del mio essere americano. Ho vissuto la mia vita in un punto d'intersezione nel quale queste quattro entità ­America e Israele, ebrei e arabi - si incontrano». Appare chiaro, allora, come mai il riconoscimento della qualifica di Giusti fra le Nazioni conferito dallo Yad Vashem a un congruo numero di «salvatori arabi» costituisca per Satloff un esito non secondario del suo lavoro, l'implicita conferma che anche una corretta operazione storiografica può dare origine a iniziative aperte verso insospettati orizzonti di pace, di speranza e, soprattutto, di rispetto per dei valori condivisi. Pochi mesi dopo la pubblicazione del suo libro, Satloff ha avuto la soddisfazione di vedere onorato come Giusto il tunisino Khaled Abdelwahhab, l'eroico difensore di una donna ebrea minacciata di violenza da un ufficiale nazista. E di assistere alla candidatura del sultano Muhammad V del Marocco, la cui nomination è attualmente caldeggiata in Israele niente meno che dal presidente della Repubblica Shimon Peres e, in Marocco, da Serge Berdugo, presidente del consiglio delle locali comunità ebraiche. A Satloff e alla pervicacia con cui persegue la sua caccia agli «Schindler arabi» non sono mancate accuse di filoarabismo, censure e note di biasimo. Una critica ricorrente è quella di ingenuità. In particolare gli si rinfaccia l'ingannevole e illuministica convinzione che la conoscenza della storia possa di per sé costituire un antidoto efficace all' odio irrazionale. Nel recensire il libro di Satloff (sul Washington Post del 10 dicembre 2006), Deborah Lipstadt, la storica americana celebre per la sua vittoriosa controversia giudiziaria contro il negazionista David Irving, ha scritto: «Satloff ritiene (ma in ciò si illude) che, se gli arabi d'oggi fossero informati circa gli arabi che durante la Shoah soccorsero gli ebrei, si asterrebbero dalla negazione della Shoah e dall'antisemitismo che sono tanto diffusi nel mondo arabo-musulmano». A rilievi di questo tipo Satloff replica affermando di non considerare né inutile né ingenua la fiducia nell'educazione e nella conoscenza. «Il pubblico al quale intendo rivolgermi», afferma, «comprende gli uomini e le donne di buona volontà. lo non ho alcun motivo per ritenere che gli emuli dei distruttori delle Torri Gemelle modifichino le proprie opinioni. Gente di quel tipo ha già compiuto le proprie scelte. Ma su questa terra vivono miriadi di persone che non hanno scelto alcunché. E l'unico mezzo che abbiamo per sconfiggere coloro che diffondono le idee più dannose in tema di Shoah e di fondamentalismo islamico è quello di aiutare la gente a compiere le proprie scelte avvalendosi del potere che deriva dalla conoscenza».

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

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