Diario

Nel 1939 ai sudtirolesi fu permesso di «optare»: trasferirsi nel Reich o restare in Italia. In 57 mila andarono in Germania. Franz Thaler invece no e per questo, come altri, fu poi internato

Credere, obbedire, optare

Arturo Zilli

 

«Io non ho combattuto. Mi sono rifiutato, di collaborare, però. Questa è stata la mia Reistenza». È con poche, semplici parole che Franz Thaler inizia il racconto del suo passato. Da quasi vent'anni lo ripete ai tanti visitatori che salgono fino al maso di montagna a Reinswald-San Martino, dove abita, in Val Sarentino, Sudtirolo. Insegnanti, storici, giovani studenti, giornalisti, pacifisti di ogni lingua e luogo hanno percorso la strada tortuosa che da Bolzano porta ai monti Sarentini. L’hanno fatto per ascoltare una storia, la sua: quella del rifiuto di servire con le armi la Germania di Hitler, azione che gli costò l’internamento nel campo di concentramento di Dachau. E Franz li aspetta sulla porta di casa in camicia bianca, giacca di feltro scuro e bretelle di cuoio ricamate con piume di pavone: è il vestito tipico della valle, che Franz porta ogni giorno. Le braccia strette dietro la schiena. Franz accoglie ogni ospite con un sorriso dolce che le tante avversità non sono riuscite a spegnere. «Ormai sono stato a parlare in tutte le scuole medie e superiori del Sudtirolo, tedesche e italiane, sono stato invitato a varie commemorazioni in provincia di Bolzano e ho accompagnato molte scolaresche a Dachau: adesso però ho 82 anni e mi muovo poco», si rammarica. «Preferisco ricevere piccoli gruppi di giovani qui, a casa mia». Scrolla le spalle e, con timidezza disarmante, racchiude le mani ossute sul grembiule da lavoro blu mentre sua moglie Annah offre un delizioso succo di lamponi agli ennesimi «chiacchieroni», come scherzosamente Thaler soprannomina i giornalisti. Ci sediamo al tavolo della calda Stube per chiedere di far scivolare ancora una volta i ricordi, già raccolti nel libro di memorie Dimenticare mai - Opzioni, campo di concentramento di Dachau, prigioniero di guerra, ritorno a casa (edizioni Raetia). Concepito come una raccolta di memorie per i familiari, il libro di Thaler - anche se poco conosciuto al di fuori della provincia di Bolzano - rappresenta una delle più toccanti testimonianze dell'esperienza dell'universo concentrazionario di Dachau. È la storia di un kleiner Mensch, un piccolo uomo comune dal grande coraggio, che non ha esitato a dire «no», che ha patito isolamento e persecuzioni da parte dei propri conterranei per essersi rifiutato di essere complice di un sistema di morte, che non voleva «imbracciare le armi per ammazzare altri fratelli: italiani, tedeschi o di qualsiasi altra nazionalità», sottolinea tagliando l'aria in maniera decisa con la mano destra. «Sono nato nel 1925 in una numerosa famiglia di contadini della Val Sarentino». Il racconto è iniziato. «All'epoca vivevamo in una delle valli più isolate del Sudtirolo». Due anni prima, il regime fascista aveva avviato il processo di «italianizzazione» per le scuole delle minoranze linguistiche: vennero abolite le lezioni in tedesco. In Sudtirolo nacquero così le prime scuole clandestine in lingua tedesca, chiamate anche Katakombenschulen, scuole delle catacombe. La progressiva fascistizzazione e italianizzazione del territorio sudtirolese procedette poi a grandi passi. Nel 1934 venne costruita per decreto legge la zona industriale di Bolzano, che richiamò moltissimi immigrati da tutta Italia, «anche se da noi», chiarisce Thaler, «a parte qualche carabiniere e insegnante spedito qui per punizione, non si vide traccia dell'invasione di siciliani, che secondo la propaganda nazista, avrebbero dovuto toglierci la terra e i masi». Nel 1939 la questione sudtirolese venne risolta dal patto tra Mussolini e Hitler. In seguito alla Conferenza di Berlino del 23 giugno 1939, Italia e Germania si accordarono e nacquero le «Opzioni». «Chi voleva rimanere tedesco doveva emigrare in Germania dove, secondo le false promesse del nazismo, avrebbe ricevuto una casa e un maso», ricorda Thaler, «ma si sapeva già che non c'era da fidarsi di Hitler come di Mussolini». Chi fosse restato in Italia, invece, avrebbe dovuto accettare la per­dita totale della propria cultura: in tedesco Dableiber, «colui che resta qui». Alla fine del 1940 furono 57 mila quelli che si trasferirono nel Reich (e gli optanti arrivarono a essere alla fine della guerra quasi 200 mila). Franz ammette che molti conoscenti all'epoca furono ingannati dalla propaganda, condotta con ogni mezzo, del Völkischer Kampfing Südtirols (movimento di sostegno al nazismo in Sudtirolo che, tra gli obiettivi, prevedeva il ritorno della regione nella Grande Germania). «lo, però, non volevo trasferirmi in Germania né combattere per qualcosa in cui non credevo». Gli abitanti della Val Sarentino tuttora godono la fama di gente dura, abituata alla fatica, che parla un dialetto proverbialmente incomprensibile, anche per il resto dei sudtirolesi. E Franz è orgoglioso di essere sarentinese, proprio lui, per anni schernito dalla sua stessa gente e chiamato Walscher - dispregiativo che si può tradurre con «italianaccio» o «italiano bastardo» - perché il padre non aveva accettato di optare per il Reich e abbandonare così le amate montagne per seguire le sirene hitleriane. La grande Storia che divora i destini individuali sconvolse anche le foreste di abeti innevati, che circondano la casa di Thaler. Una storia fatta di lancinanti lacerazioni, durate decenni e che spaccarono famiglie intere, come quella dell'artigiano sudtirolese: «alcune sorelle decisero di trasferirsi nella Germania nazista. Cedettero anche loro alla propaganda e ci insultarono perché noi rimanevamo. Solo in seguito ammisero di aver avuto torto». Nel '43, con la caduta del regime di Mussolini venne creato nelle tre province di Trento, Belluno e Bolzano l'Alpenvorland, ovvero la «Zona operativa Prealpi». «Alla caduta del fascismo i pezzi grossi nazisti si rifecero vivi e presero a perseguitare i capi dei Dableiber con vessazioni di ogni genere», sottoli­nea Thaler, «e a tutti noi vennero sequestrati fucili e radio». Nel marzo del 1944, Franz, diciannovenne, venne chiamato alle armi dal Reich: «Solo dopo seppi che non avrebbero potuto farmi arruolare perché ormai ero un cittadino italiano in territorio occupato». Da quel momento ebbe inizio la sua odissea. Divenne renitente alla leva e scappò nei boschi. «La mia scelta era stata chiara, non avevo la minima intenzione di andare a servire quel criminale». Per quattro mesi Franz sopravvisse a freddo e fame, ricevendo cibo dai contadini della zona in cambio di un aiuto nel lavoro dei campi e di piccoli oggetti di legno che incideva stando seduto sui rami più alti degli alberi, per non farsi scoprire. La sua fuga sfortunatamente durò poco: il 23 settembre 1944 Thaler dovette consegnarsi al comando nazista di Silandro. «Le SS avevano minacciato di incarcerare la mia famiglia e di spedire i miei fratelli in un campo di concentramento». Due mesi dopo arrivò la condanna del tribunale militare di Bolzano: il renitente alla leva Franz Thaler veniva condannato a scontare dieci mesi di reclusione in un lager. Il 15 dicembre 1944 ebbe inizio il viaggio in treno: destinazione Dachau. Ricorda ancora lo spavento provocato dal rombo delle bombe sganciate dagli aerei: «Quando il treno partì ero terrorizzato, c'erano continui bombardamenti, gli aerei volavano sulle nostre teste e non sapevamo mai se la prossima esplosione ci avrebbe fatto morire. Quando ci fermammo a Innsbruck rimasi sconvolto vedendo la città sepolta dalle macerie». Thaler parteciperà a febbraio come testimone a un convegno internazionale sull' obiezione di coscienza organizzato dal Centro per la Pace di Bolzano, «ma io non ho mai fatto nulla di speciale, sono solo un uomo come tanti altri». Purtroppo non furono molti quelli come lui o come il martire sudtirolese Josef Mayr-Nusser che, arruolato a forza nelle SS, rifiutò di fare giuramento a Hitler e, per questo motivo, venne ucciso. Ha occhi piccoli e buoni. E, come avviene con le persone che conoscono il silenzio e la solitudine, lo sguardo si abbassa per qualche istante se deve parlare di sé: solo quando rievoca la decisione con cui si oppose alla propaganda, gli occhi si fanno fermi e diventano sempre più forti le parole che usa per definire chi, oggi come allora, finge di ignorare che il criminale regno nazista era fondato sul sangue e sulla totale indifferenza verso la vita umana. Il riferimento è alle foto dei sudtirolesi neonazisti che, di recente, sono apparse su internet e sui principali media: alcuni gruppuscoli di estrema destra che si sono fatti fotografare mentre tendevano il braccio nel saluto hitleriano proprio a Dachau, il luogo dove Franz ha visto morire tanti compagni. «Mi fanno pena ma anche tanta rabbia, non si rendono conto di quello che è successo». L'artigiano sarentinese ricorda tutti i compagni morti davanti agli occhi, dietro al fossato e al filo spinato che circondavano Dachau. «Di scappare non se ne parlava nemmeno. Chi tentava, così debilitati e malconci com' eravamo, veniva immediatamente freddato dalle SS. Bisognava cercare di stare in salute per quanto fosse possibile, sopportare tutto, sperando di tornare presto a casa. A noi disertori e renitenti, che soffrivamo indicibilmente, è andata comunque meglio che agli altri internati, che sono passati attraverso il camino o che sono stati trasferiti ad Auschwitz». Sono ancora vividi nella memoria i diversi colori del fumo dei forni di Dachau: giallo ocra se i corpi cremati erano di nuovi arrivati, biancastro nel caso di prigionieri che si trovavano nel campo da qualche tempo. Solo la fede lo ha sostenuto in quella disperata mancanza di senso. «Pregavo, sono sempre stato credente», sottolinea Thaler, «penso che il lager sia stato più duro per chi non poteva trovare conforto in Dio o per chi aveva perso la fede. Per me, invece, la religione è stata la salvezza». Nel laboratorio dove fino a poco tempo fa svolgeva il mestiere tradizionale di ricamatore di piume, vicino alla fisarmonica che suona sempre alle feste di paese, agli attrezzi da lavoro, al cuoio e al metallo, che incide e ricama ancora per hobby - soprattutto per confezionare anelli per moglie e figlie o regali per amici - è appesa una foto di Alex Langer. Anche lui figlio della stessa terra, anche lui stigmatizzato come Walscher perché riconosceva in sé un'identità peculiare, quella di sudtirolese, diviso tra un'anima tedesca e una italiana. «Una volta venni invitato a un incontro cui partecipava anche il vescovo di Milano ed ebbi l'onore di avere come mio interprete Alexander Langer. Fu proprio lui a offrirmi aiuto. È stata una grande persona che aveva capito che il futuro di questa provincia è nella convivenza con i nostri amici italiani. lo sono di madrelingua tedesca ma sono cittadino italiano e ne sono anche orgoglioso, come lo era Langer». Un'ultima domanda. E possibile perdonare? «lo l'ho fatto. Al mio ritor­no ho incontrato sulla strada il mio delatore», ricorda l'artigiano sudtirolese, «aveva paura di vendette e subito mi ha porto la mano. lo ho fatto altrettanto e poi ho proseguito per la mia strada. Tutte le persone possono sbagliare, per viltà o per cattiveria. L'unica cosa che non posso tollerare è che si dimentichi o che si falsifichi la storia. Per questo continuo a testimoniare. Per non dimenticare».

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

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