Diario

Con la grande solidarietà dei cittadini della Spezia i sopravvissuti ai lager nazisti erano quasi arrivati in Palestina quando la marina inglese aprì il fuoco sulla nave Exodus

Non è un film

Maria Pace Ottieri

 

Il 4 aprile del 1947 nella città della Spezia si sparse la voce che una colonna di fascisti si stava imbarcando per la Spagna. La gente corse al molo Pirelli di Pagliari per bloccarli, le fabbriche scesero in sciopero, si formò un corteo di protesta. Ma una volta arrivata al molo, la folla scoprì che non si trattava di fascisti in fuga, bensì di ebrei scampati ai campi di sterminio nazisti che provenivano dal centro di raccolta di Magenta. Stremata e distrutta dalla guerra, la terza città più bombardata in Italia, medaglia d'oro al valor militare per la sua strenua lotta antifascista, La Spezia adottò quei 1.014 profughi che guardavano alla terra dei padri come all'unico luogo dove era possibile ricominciare a vivere. La Jewish agency aveva affidato ai cantieri Bargiacchi due vecchie navi, la Fede di Savona e il motoveliero Fenice, per adattarle al trasporto dei profughi. Ma si trattava di un'immigrazione illegale. La Palestina era ancora (dal 1922, per decisione della Società delle nazioni) sotto il Mandato britannico. E ancora vigeva il Libro bianco del 1939 che, per paura di inasprire i conflitti tra arabi ed ebrei, poneva drastici limiti all'afflusso di ebrei e all'acquisto di terre. Malgrado la Shoah avesse reso quella misura paradossale, il governo laburista inglese guidato dal primo ministro Clement Attlee mantenne la sua politica restrittiva nei confronti dell'immigrazione ebraica in Palestina anche dopo la guerra. Ma nel maggio di quell'anno la questione scoppiò come caso internazionale. Fu proprio il sostegno dei cittadini e dei giornalisti di tutto il mondo a provocare la visita alla Spezia di Sir Harold Lasky, presidente dell'esecutivo del Partito laburista britannico, che persuase il governo inglese, le cui navi bloccavano l'uscita dal porto della Spezia, ad autorizzare la Fede e la Fenice a salpare dal molo Pirelli alle ore 10 dell'8 maggio 1946, per raggiungere le coste della Palestina. Il successo dell'operazione, l'accoglienza della comunità e la solidarietà delle autorità convinsero gli organizzatori del Mossad le Aliyà Bet, l'Istituto per l'immigrazione clandestina in Palestina, a puntare sulla Spezia e, nell'estate del 1946, a fissare la propria base operativa segreta a Bocca di Magra. Da nessun altro Paese europeo partirono per la Palestina tante navi come dall'Italia. Pochi sanno che la leggendaria nave Exodus, le cui vicende hanno ispirato il best seller di Leon Uris e il film di Otto Preminger, salpò proprio da qui. Il nome della Spezia divenne noto in tutti i campi di raccolta e attraverso i valichi alpini i profughi la raggiunsero dalla Polonia, dalla Germania, dall'Ungheria, dai Balcani. Dopo la guerra, 200 mila ebrei sopravvissuti, con lo status di DP, Displaced persons, aspettavano di raggiungere la Palestina, simbolo della speranza di una vita libera nel proprio Paese, lontani dall'antisemitismo. La politica dell'immigrazione clandestina, non solo dava agli ebrei la speranza di una terra, ma mirava anche ad aumentare il loro numero in Palestina in vista del voto delle Nazioni unite sulla «spartizione», atteso per il novembre del 1947. Così, nella notte tra il 7 e l'8 maggio di quell'anno la Trade Winds/Tikva, allestita al trasporto dei passeggeri in Portogallo, imbarcò alla Spezia altri 1.414 profughi. Nelle stesse ore era giunta nelle acque del golfo di fronte alla città ligure, proveniente da Marsiglia, la nave President Warfield, un battello a vapore che aveva portato ricchi turisti americani da Baltimora a Norfolk, nella Chesapeak Bay, sulla East Coast. Convertita in nave da trasporto per la marina britannica, aveva preso parte allo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944 ed era stata messa a riposo tra le navi da demolire nel porto di Baltimora. Qui l'Haganah (l'organizzazione paramilitare degli ebrei in Palestina, durante il Mandato britannico) l'aveva comprata per 40 mila dollari. Aveva poco pescaggio ed era adatta a navigare sottocosta per sbarcare i profughi senza che altre navi riuscissero a inseguirla. L’equipaggio era stato radunato attraverso i contatti dell'Haganah, quaranta volontari ebrei americani e il reverendo John Stanley Grauel, l'unico non ebreo, ministro metodista, che era l'osservatore ufficiale del Comitato cristiano americano per la Palestina. La nave lasciò le coste americane il 29 marzo 1947 diretta in Europa. tallonata dall'intelligence inglese. Il 10 aprile del 1947 attraccò al porto di Marsiglia. Il capitano Thompson, prestato per la traversata dell'Oceano, tornò in America e affidò il comando della nave al ventenne Itzak Aronowitz (Ike il nome in codice nell'Haganah), il più esperto di mare tra i membri dell'equipaggio. Poiché anche i francesi avevano messo la nave sotto osservazione, il capitano Ike decise di lasciare la Francia e, alla fine di aprile, ormeggiò nella baia di Portovenere, dove gli operai del cantiere dell'Olivo cominciarono subito con grande dedizione i lavori sulla nave, costruita per 140 passeggeri e destinata a trasportarne 4515 dall'altra parte del Mediterraneo. Qui l'equipaggio fu raggiunto da Yossi Harel, Amnon in codice, ventottenne veterano dell'Haganah, incaricato da Ben Gurion e da Shaul Aligur, responsabile del Mossad le Alyia Bet, di guidare l'intera operazione. Ike e gli altri americani lo presero per un commissario politico venuto a sorvegliarli dalla Palestina. A Portovenere l'intelligence britannica osservava con i cannocchiali la vita di bordo momento per momento. Ada Sereni, che con Yehuda Arazi, detto dottor Paz, capo dell'immigrazione ebraica clandestina in Italia e Raffaele Cantoni, presidente della comunità ebraica italiana, aiutava le partenze, fece caricare sulla nave decine di barili di nafta e autocisterne, al riparo di un folto uliveto. Una cannoniera italiana bloccava l'uscita dalla baia. La mattina dell'11 giugno 1947, con grande sorpresa, Ike e Yossi Harel videro che la cannoniera se ne era andata e ne approfittarono per lasciare Portovenere. Su ordine via radio dell' Haganah, con una solenne cerimonia in mare aperto, la President Warfield fu ribattezzata «Exodus 1947» al canto dell'Hatikwa, il futuro inno d'Israele. La Exodus sostò a Port-le-Bouc e caricò i profughi a Sète: 4550 passeggeri di cui 1.282 donne, molte di loro incinte, 1.600 uomini e 1.672 bambini trasportati fin lì su 150 camion. L'11 luglio 1947 finalmente salpava. «Eravamo stivati su quattro piani di cuccette, avevamo mezzo metro quadrato a testa, un litro d'acqua al giorno, i bagni erano sul ponte superiore, il rischio era che le scale di legno crollassero per il via vai continuo. Ricordo lo strano riverbero dei numeri sulle braccia, per via del fosforo contenuto nei tatuaggi», racconta Yossi Harel, oggi ottantottenne, venuto lo scorso novembre, dopo sessant'anni alla Spezia, a ritirare il Premio Exodus, con cui ogni anno la città ricorda l'episodio. «Durante il viaggio, che durò sette giorni, il mare si alzò e la nave dovette procedere inclinata di 25 gradi. La maggior parte dei passeggeri soffriva di mal di mare, era una situazione terribile, l'unico sollievo per i profughi era la passeggiata di 45 minuti sul ponte della nave. Sono nato in Israele, ero un sabra, la mia famiglia era in Palestina dai tempi di Napoleone, non avrei mai immaginato una simile catastrofe per gli ebrei d'Europa, restai stupefatto dalla voglia di vivere e di raggiungere Eretz Israel di chi era scampato all'orrore dei campi». Sulla nave si respirava un'atmosfera di grande energia, la radio diffondeva notizie in quattro lingue, sebbene l'yiddish fosse la lingua franca. Si ballava e si cantava. Le donne avevano perfino organizzato una scuola per bambini. Agli occhi dei sopravvissuti ai lager il peggio che poteva capitare era di venire chiusi nei campi di Cipro. Ma il 18 luglio 1947, in vista delle coste palestinesi, accadde l'imprevedibile: gli inglesi circondarono la Exodus 47 con due cacciatorpedinieri e due dragamine, sotto il comando dell'incrociatore Ajax, la speronarono e l'assalirono davanti a Kfar Vitkin, nelle acque tra Netanya e Haifa. Disarmati, i profughi, si difesero con qualunque oggetto riuscissero a raccogliere: scatolette di carne kasher, cacciaviti, patate, bottiglie, barre di metallo e assi di legno. Erano determinati a non arrendersi senza combattere. La battaglia durò sette ore e solo dopo che aprirono il fuoco, gli inglesi riuscirono a prendere il controllo della nave. Ci furono tre morti, tra i quali il primo ufficiale, William Bernstein, oltre a 150 feriti gravi che rischiavano di morire per mancanza di sangue per le trasfusioni. Yossi Harel ordinò allora la resa in cambio di sacche di plasma. Nel tardo pomeriggio del 18 luglio 1947, sventolando la bandiera sionista, la Exodus 1947, fu scortata nel porto di Haifa dalle navi da guerra inglesi. Qui, sotto gli occhi inorriditi dei membri della delegazione internazionale dell'Unscop (lo United nations special committee on Palestine, istituito nel maggio del 1947), i passeggeri esausti furono caricati a suon di insulti, calci e colpi di manganello su navi fornite di gabbie di filo spinato e pavimenti di lamiera. Qualcuno si gettò in acqua, moltissimi urlavano tra donne svenute e bambini calpestati. Era cominciata l'Operazione Oasi. Il giorno dopo, le tre navi prigione lasciarono Haifa e quella che all'inizio era solo una voce si confermò: sarebbero ripartite alla volta dell'Europa. Arrivati in Francia, i profughi si rifiutarono di sbarcare e gli inglesi si prepararono a evacuare le navi. Il governo francese si oppose e offrì loro asilo politico, a condizione che lasciassero spontaneamente la nave. Solo 130 persone accettarono, il resto rimase ad aspettare gli eventi sotto l'ardente sole di luglio. Il 21 agosto gli inglesi presentarono un ultimatum, il comunicato numero 127: se i passeggeri non fossero sbarcati entro le 6 di pomeriggio del 22 agosto, le navi sarebbero partite alla volta della Zona inglese in Germania. I profughi non cedettero e furono portati ad Amburgo. L'altoparlante annunciò: «Il viaggio è finito, avanti, avanti, tutti fuori!». E le famiglie con gli anziani e i bambini abbandonarono la nave, accompagnati dalla musica jazz a tutto volume dagli altoparlanti, esattamente come ad Auschwitz, come a Bergen Belsen. Su treni blindati e con i finestrini sbarrati furono trasferiti nei campi di Poppendorf, tra Lubecca e Travemünde, e di Am Stau sullo Herreninsel, circondati da una recinzione alta due metri di filo spinato. «Fu sconvolgente che il governo inglese rimandasse indietro i sopravvissuti ai campi di concentramento», dice Yossi Harel. «Avevo combattuto con gli inglesi in Nord Africa contro i tedeschi, ma qui c'era uno scontro tra un potente impero che arrivava fino all'India e un popolo che non aveva niente, che era il mio popolo. Ci riorganizzammo e, dopo molti mesi, riuscimmo a portare ad Haifa non 4.515 ma 15 mila sopravvissuti». La storia di Yossi Harel, poi diventato colonnello dell'esercito israeliano e imprenditore, è stata raccontata per la prima volta dall'amico Yoram Kaniuk, uno dei più importanti scrittori israeliani contemporanei, nel libro Il comandante dell'Exodus. Secondo Kaniuk il vero atto di nascita dello stato d'Israele fu proprio l'arrivo dell'Exodus.


Quando i fascisti romani attaccarono la Rai contro «Exodus»

 

Una dimenticata storia lega il film Exodus a uno dei monumenti più conosciuti dell'Italia di oggi, il cavallo morente, simbolo della Rai in viale Mazzini a Roma. La storia andò così. Nei primi anni Settanta la Rai acquistò il film di Otto Preminger con Paul Newman ed Eve Marie Saint (uscito nelle sale nel 1960 e successo internazionale) per un passaggio in quella che era allora l'unica serata. Ma la decisione fu clamorosamente avversata dalle organizzazioni della destra fascista romana, che consideravano il film «sionista». Una manifestazione (non era la prima) venne inscenata davanti a viale Mazzini e vennero lanciati pomodori e uova contro il cavallo e contro le finestre. Era un'impresa allora tutto sommato facile, perché dal marciapiede di viale Mazzini all'ingresso della televisione di Stato non esistevano sbarramenti. Fu in seguito a quella manifestazione che venne deciso di proteggere il palazzo: la cancellata di metallo che oggi tutti conoscono e che circonda il palazzo venne costruita a tempo di record per proteggere il sistema radiotelevisivo dalle manifestazioni di piazza. (Probabilmente tra i manifestanti «antisionisti» di allora ci sono alcuni attempati esponenti dell'Alleanza nazionale di oggi che si dichiarano i migliori amici di Israele). Sicuramente senza ricordare gli episodi di allora, la Rai attuale ha prodotto e trasmesso in due puntate in prima serata (28 e 29 gennaio 2007, in occasione del Giorno della Memoria), la fiction Exodus, dedicata alla memoria di Ada Sereni (sullo schermo Monica Guerritore) che in Italia organizzò l'Aliah Bet, ovvero l'espatrio clandestino verso Israele degli ebrei sopravvissuti all'Olocausto. La fiction ha avuto discrete recensioni e un buon pubblico. E il cavallo morente non ha nitrito, in ricordo della prima volta.

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

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