Diario

A Cittadella, don Costante Berselli partecipò alla resistenza salvando gli ebrei e trasmettendo dal campanile della chiesa messaggi cifrati agli Alleati. Arrestato, finì a Dachau. Tornò. Poco amato dalla gerarchia, è morto in povertà

Il prete bello

Emanuele Salvato

 

È il 3 agosto del 1944 e a Mantova il caldo è terribile, reso ancora più opprimente dall'umidità e dalle zanzare, che si attaccano alla pelle sudata. A pochi chilometri dal centro cittadino, a Cittadella, un prete, don Costante Berselli, e un radiotelegrafista, Raffaele Ferraiolo detto il Napoletanino, stanno rinchiusi in una stanza sopra alla chiesa. Fuori c'è la guerra, c'è pieno di nazisti e di fascisti. E loro, nel buio dell'afosa saletta, sono in contatto radio con gli alleati, con il generale Alexander di stanza a Bari, al quale stanno trasmettendo i movimenti delle truppe tedesche sul territorio e la posizione di alcuni obiettivi strategici da colpire. Da qualche tempo, infatti, dopo che Felice Barbano e il suo gruppo di resistenti hanno deciso di impiantare a Mantova la nuova sede clandestina delle trasmissioni dell'Intelligence service, la città è divenuta uno snodo cruciale d'informazioni utilissime agli inglesi. Alcuni preti mantovani, oltre a civili avversi al regime, spalleggiano il gruppo di Barbano e utilizzano i campanili delle chiese per trasmettere, spostandosi di volta in volta per non farsi beccare. Fino a quel 3 agosto del 1944. Sono le 18, fuori c'è il sole. Ma nella stanzetta sopra la chiesa di Cittadella c'è buio, perché le tende sono chiuse per non farsi vedere. Improvvisamente, qualcuno bussa alla porta. Il terrore si materializza negli occhi di don Costante Berselli e del Napoletanino, intenti a trasmettere in codice agli Alleati. Nemmeno il tempo di realizzare cosa sta succedendo che gli uomini della Gestapo fanno irruzione nella sala e arrestano il prete e il radiotelegrafista, requisendo e distruggendo tutto il necessario per trasmettere. Non si sa se sia stato un delatore a informare i tedeschi della collocazione della radio, o se abbiano utilizzato un radiogoniometro per individuare il punto da dove partivano le trasmissioni. Fatto sta che in pochi minuti don Berselli e Ferraiolo sono trascinati via contro con con violenza, fatti salire sui camion e portati in via Corte, in città, dove si trova la sede del Comitato di liberazione nazionale. Qui sono arrestate altre persone, che in nottata, compresi don Berselli e il Ferraiolo, vengono tradotte nelle carceri di corso Porta Nuova a Verona, dove ha sede la Gestapo. Nella notte del 4 agosto, poi, don Berselli perde di vista i suoi compagni di sventura e viene rinchiuso nelle carceri degli Scalzi, sempre a Verona, dove è interrogato e picchiato selvaggiamente: «Mi davano dei calci talmente forti che finivo contro la porta, e a un certo punto l'ho sfondata», ha ricordato il prete, qualche anno prima di morire (il 7 ottobre del 1994), durante un incontro con gli studenti di un liceo registrato dallo studioso Carlo Benfatti. Dopo lunghi ed estenuanti interrogatori, «davano delle botte a non finire», don Berselli, il 14 settembre del 1944, è trasferito nel campo di smistamento di Bolzano, dove rimane per un po' di tempo. Già, nella sua mente, iniziano a delinearsi i tratti drammatici di ciò che l'aspetta: «Dopo qualche giorno mi hanno rinchiuso in un vagone bestiame, senza finestre, senza aria, e sono stato trasportato, come un animale, nel campo di concentramento di Dachau, dove sono arrivato il 9 ottobre del 1944. Lì ho conosciuto il demonio, presente in ogni centimetro di terra, addosso a ogni persona. Un orrore, una miseria». «Giudica tu», ha raccontato allo storico mantovano Giancarlo Malacarne, suo amico, «non eravamo mai soli. E dico mai, neanche al gabinetto. Per essere solo dovevi chiudere gli occhi e fingere di non essere lì». Sembra di vederlo raggomitolato su se stesso, seduto sulla branda della sua baracca a Dachau, con il viso scavato, reso ancora più nervoso dalla fame, ma orgogliosamente pronto a morire per non darla vinta ai nazisti, per non cedere all'umana tentazione di supplicare una crosta di pane a chi era capace di produrre tanto orrore: «Piuttosto crepo. Piuttosto che andare a chiedere una fettina, un pezzo di pane alle guardie naziste preferisco morire». Nonostante le difficoltà, don Costante Berselli riesce a sopravvivere agli orrori di Dachau. «Riuscire a resistere era una vittoria con te stesso», ha detto, «perché non scendere a nessun compromesso con i nazisti significava rimanere se stessi in un posto dove l'essere umano era annientato fisicamente e spiritualmente. Me li ricordo ancora tutti quei cadaveri ammassati uno sull'altro. Insopportabile». Al momento della sua detenzione, il campo di sterminio di Dachau conteneva 30 mila prigionieri, 10 mila dei quali deceduti all'arrivo degli americani, nel maggio del 1945. Don Berselli fu liberato il 15 dello stesso mese. Antifascista convinto, don Berselli non riusciva proprio a sopportare il regime, né, tanto meno, si è mai piegato alla logica non interventista della Chiesa del tempo, ben rappresentata anche dall'allora vescovo di Mantova, monsignor Menna, piuttosto ossequioso nei confronti dei governanti in camicia nera. Non sopportava, soprattutto, le persecuzioni. E dopo l'entrata in vigore delle leggi razziali si è dato da fare, a suo rischio e pericolo, assieme a un altro sacerdote mantovano, don Aldo Porcelli. Anche don Porcelli faceva parte del gruppo della radio clandestina e scampò all'arresto proprio perché, quel giorno, era altrove, impegnato a salvare alcune famiglie della numerosa comunità ebraica mantovana. «Ne ho nascosti tanti», era solito dire a chi glielo chiedeva, quasi infastidito da tanto clamore per un gesto che lui considerava di «normale umanità». Quando qualcuno gli domandava: «Quanti ne ha salvati? Chi ha salvato? Li ha poi rivisti», si irrigidiva. Diventava scuro in volto e diceva: «Ma cosa volete che importino queste cose? Bisognava farlo e l'ho fatto. Adesso non conta niente». È entrato nella Resistenza perché, già prima del 25 luglio 1943 - quando Mussolini è stato sfiduciato dal Gran consiglio del fascismo e deposto dal Re - era orientato politicamente contro il regime, ma si è sempre rifiutato di spiegare questa sua decisione semplicemente come un gesto politico: «Si è trattato di una reazione diffusa, perché ci sentivamo schiacciati. Un giovane, piuttosto che farsi prendere dai tedeschi, si dava alla macchia. La scelta era abbastanza facile. Perché sono entrato io che ero prete? Perché con il disfacimento delle istituzioni, in uno stato tradizionalmente cattolico, la gente cercava l'aiuto e il conforto della religione; anche chi non era credente. La Resistenza, quindi, più che di fatti era uno stato d'animo e di pensiero». E ci ha creduto, nella Resistenza, don Berselli, tanto che il Cln mantovano è stato fondato a casa sua nel luglio del 1944. Nello stesso mese, a Mantova, proveniente da Verona, è arrivato - come detto - Felice Barbano, con l'intenzione di impiantarvi la nuova sede clandestina delle trasmissioni dell' Intelligence service, e subito don Costante e don Aldo hanno appoggiato e sostenuto la radio. Il rischio per loro era molto alto e se ne sono accorti qualche giorno dopo, quando nella notte tra il 25 e il 26 luglio hanno nascosto tre paracadutisti inglesi lanciati nelle campagne mantovane per operazioni di spionaggio. È filato tutto liscio e i tre agenti segreti, grazie all'aiuto dei due sacerdoti, sono riusciti a raggiungere luoghi sicuri, non prima di aver fatto ciò per cui erano stati mandati in missione. L’attività di resistenza di don Berselli e don Porcelli, in quei mesi, è stata intensissima; tanto che da più parti i due sono stati accusati di aver favorito il bombardamento di Mantova e dei suoi ponti di accesso, fondamentali perché la città è circondata da tre laghi. I due prelati si sono sempre difesi da queste accuse, dicendo che si sono limitati a fornire indicazioni sugli spostamenti delle truppe tedesche, ma è vero che nel periodo in cui ha funzionato la radio clandestina, a Mantova i bombardamenti alleati si sono fatti intensissimi e il ponte di Mulina è stato raso al suolo. Non fosse sufficiente questo, a testimonianza della determinazione di don Berselli a non darla vinta ai tedeschi e ai fascisti, basti ricordare che è stato lo stesso sacerdote a piazzare delle mitragliatrici dietro alle statue poste sul tetto del Duomo di Mantova, pronto a usarle in caso si fosse messa male per la Resistenza. Poi è arrivato il 3 agosto 1944 e per il prete mantovano è iniziato l'incubo, culminato nella detenzione a Dachau. «Ci tornò dopo la Liberazione», ricorda lo storico Malacarne, «e ne uscì molto turbato. Mi disse che forse sarebbe stato meglio che non ci fosse andato. Appena si trovò di fronte al cancello del campo di sterminio, a pochi chilometri da Monaco di Baviera, gli tornarono in mente gli orrori vissuti, la morte, il fumo dei forni crematori e quelle docce... Fu l'unica volta che mi parlò spontaneamente della sua detenzione. Disse che si riteneva fortunato perché era riuscito a sopravvivere, ma aggiunse che era tornato profondamente mutato». «Nessuno di chi è andato a Dachau ed è riuscito a tornare vivo», disse il sacerdote all'amico Malacarne, «è rimasto uguale a com'era prima di entrarvi. Tutti siamo tornati mutati. Assolutamente mutati. Spesso anche maturati, ma con una visione più distaccata dai piccoli fatti emotivi che possono turbare, che entusiasmano, o che deprimono. Da tutto ciò c'è una specie di lontananza». Grande studioso di storia e pungente giornalista, don Berselli è stato il fondatore delle Cittadelle, settimanali cattolici ancora diffusi, e di varie riviste di carattere culturale, tra cui il semestrale Civiltà mantovana. A lui, inoltre, e ai suoi studi, si deve, nell'agosto del 1965, la scoperta delle ossa di Isabella d'Este Gonzaga e del marito Francesco II Gonzaga nella chiesa di Santa Paola. Ossa che misteriosamente sono sparite, senza che nessuno, scandalosamente, si sia mai chiesto come mai e, soprattutto, dove siano finite. «Fu osteggiato in ogni sua attività», ricorda Malacarne, «e per questo si fece la nomea di prete burbero e scontroso, quale effettivamente era. Tutti i suoi studi, le sue scoperte, sono sempre stati minimizzati, soprattutto dalla curia mantovana, con la quale è sempre stato in conflitto. Venne preso a pugni in faccia per tutta la vita e morì in miseria, senza nemmeno i soldi per prendersi un caffé o per comprare le sue amate sigarette». Ora riposa nel cimitero degli Angeli, a Mantova, nel campo 94. A ricordarlo, solo una croce, nemmeno una foto.

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

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