Diario

Furono 716 mila i militari italiani imprigionati dai nazisti dopo l'8 settembre. A tutti venne offerto di tornare liberi, seguendo Hitler e Salò. 613 mila dissero «NO». Erano gli Imi, Internati militari italiani, ancora oggi dimenticati

Raccontatela, nelle scuole

Daniele De Luca

 

Claudio Sommaruga, Genova, 1920, matricola 750/367, internato militare italiano, Imi. Due anni nei lager nazisti, oltre 600 giorni, più di 50 milioni di secondi. E 75 NO. No al Reich, no alla Repubblica sociale. «Resistenza passiva», l'hanno chiamata gli storici ma solo loro, e solo pochi, perché dei soldati italiani che dopo l'8 settembre diventarono schiavi di Hitler non si ricorda praticamente nessuno. È stato così per decenni, come se ci fosse un senso di vergogna, di disonore e di imbarazzo per gli oltre 700 mila italiani che, lasciati senza ordini, vennero presi a pacchi, a mazzi, a carrettate, dalle divisioni che il Führer aveva già mandato nella penisola non appena il Duce venne sfiduciato dal Gran consiglio del fascismo. «Nella caserma di Alessandria eravamo cinquemila - dice Sommaruga, all'epoca ancora nel corso ufficiali - ci presero 250 tedeschi. Loro armati fino ai denti, noi in caserma avevamo solo qualche arma leggera, mentre i proiettili di quelle pesanti erano in legno, li usavamo per l'addestramento... Abbiamo anche provato a far finta di essere pronti a rispondere al fuoco ma non ci sono cascati». A scuola non ce l'hanno mai raccontata la storia degli Imi, una vicenda colpevolmente dimenticata dalle istituzioni e dalla cultura del nostro Paese e che merita invece di essere raccontata, se non altro perché ha riguardato milioni di famiglie. Sommaruga per decenni si è battuto perché non cadesse nell'oblio e la sua testardaggine, come quella di altri, ha avuto il merito di mettere all'attenzione della Repubblica la scelta che fecero oltre mezzo milione di soldati, che si rifiutarono di tornare a combattere nonostante stessero morendo di fame e di stenti. «Caso unico tra i prigionieri della Seconda guerra mondiale - continua Sommaruga - gli Imi nei lager erano i soli che potevano scegliere la libertà. Trattati, da prigionieri, come i tedeschi facevano solo con i russi: senza tutele, affamati, sfruttati mentre gli angloamericani erano assistiti dalla Croce rossa, nutriti e tutelati dalla Convenzione di Ginevra. Gli italiani no, perché avevano tradito il Reich. Ma era loro sempre concessa la possibilità di tornare nelle file dell'Asse. Non una possibilità qualsiasi, per chi era costretto a vivere con una razione di cibo calcolata per uccidere, in baracche senza finestre, con pochi stracci addosso, marce forzate e appelli continui, seminudi per ore al gelo». Più che una possibilità, spesso, un vero miraggio. L’idea che con una sola firma si potesse finalmente mangiare e poi tornare a casa. A casa. Una sola firma, pochi secondi e fine delle sofferenze, fine dell' ansia per i propri cari e della loro stessa angoscia. Eppure, 75 NO: uno in fila all'altro. E, come lui, fecero un altro mezzo milione di soldati italiani. C'è una frase famosa di Tonino Guerra, grande sceneggiatore, anche lui un Imi, che la dice tutta: «Capii il significato della parola libertà quando guardando una farfalla volare non mi veniva voglia di mangiarmela». «A Oberlangen, al mio arrivo, nel marzo del '44 - dice Sommaruga ­ c'era ancora qualche topo con poche speranze di vita, poi gustato in mancanza di osei, da veneti e da bergamaschi, con la polenta di qualche pacco spedito dall'Italia. Ebbi la fortuna di gustarne uno, lo confesso: ma a occhi chiusi. Gli scienziati di Hitler avevano calcolato un razionamento standard di 1.738 calorie al giorno, sulla base delle necessità di un uomo/donna medi, in condizioni di riposo. Lavorando, però, il fabbisogno superava le 2-3 mila calorie giornaliere. I civili se la cavavano con la borsa nera («integrazioni» non autorizzate) o altro, ma per i prigionieri nei lager le razioni arrivavano a 900-1.400 calorie. Senza qualche pacco di generi spediti da casa o non riuscendo ad arrangiarsi in altro modo, la speranza di vita si riduceva a qualche settimana. A forza di dire «NO» nel '44 mi condannarono ai lavori forzati con 400 giovani compagni studenti come me. Nello Straflager di Colonia gestito dalla Gestapo, non ero più solo un Internato militare ma un deportato civile, nemico dell'Europa. Ci "noleggiavano" per lavorare a 4,50 marchi al giorno in una fabbrica di raion per paracadute, dove ci ammutinammo per solidarietà ai compagni in cella di rigore, al buio e al freddo, senza cibo né acqua e né coperte. Lavoravo in fabbrica e al campo per 16 ore al giorno. Dimagrii 14 chili in 25 giorni». Su 716 mila militari italiani catturati l'8 settembre, la stragrande maggioranza - 613 mila - continuò a disobbedire fino alla fine della guerra: furono in 51 mila a pagare questa scelta morendo per fame o malattie. Di quelli che firmarono per il Reich o la Rsi, tanti disertarono quasi subito perché firmare voleva soprattutto dire mangiare. Eppure più di seicentomila continuarono a ogni costo a dire «NO». «Ero nel campo di Deblin, avevo un mal di denti terribile. I tedeschi proibivano a tutti di tenere medicine, ci facevano sempre spogliare nudi per vedere se qualcuno nascondeva aspirine o altro. Quel giorno davanti alla mia baracca avevano imbandito apposta una tavola con sopra ogni ben di Dio... Salami, uova, carne, verdura... Lo facevano spesso... E io stavo così male e vedevo quel cibo e allora mi dissi: "Basta! Basta, io firmo... Una volta in Italia diserterò, scapperò, farò qualcosa... Non ce la faccio più". Allora avvenne una cosa incredibile. Ci fu un passaparola in tutte le baracche e non so come, o da dove, saltò fuori un'aspirina per me. Quando cominciò a fare effetto e il dolore iniziò a scendere, allora riuscii a ritrovare me stesso. E anche quella volta dissi "NO"». Per lui fu importante anche la fede, come per molti altri. Sommaruga nei campi incontrò Giuseppe Lazzati, figura di spicco del cattolicesimo milanese, e non solo, per cui è anche in corso una causa di beatificazione. «Lazzati all'epoca era presidente diocesano dei Giovani cattolici milanesi, io studiavo al Politecnico. Quando venni a sapere che si trovava anche lui nel campo, una domenica mattina riuscii a incontrarlo e gli dissi che non ce la facevo più, che volevo firmare. Allora Lazzati mi disse semplicemente: "Se sei un cristiano sai qual è il tuo dovere". lo l'ho ringraziato, e non ho firmato. Perché per Lazzati non si poteva dire di sì a Hitler, a colui che uccidendo, torturando, ammazzando e umiliando l'Uomo, di fatto uccideva e umiliava Dio! Lazzati mi diceva.. "Claudio, tu non devi vedere troppo le cose come fascismo e antifascismo. Guardala così, guarda cosa fanno questi uomini ad altri uomini, uomini che hanno sulla cintura la scritta Gott mit uns (Dio è con noi): è quello il loro Dio, è il paganesimo del Walalla. Non si può accettare di collaborare con loro." Queste cose non le diceva solo a me - continua Sommaruga - le disse a centinaia, a migliaia di italiani e ne catechizzò tanti. Fu una figura fondamentale per tanti di noi». Sommaruga, ottantottenne, un pezzo d'uomo di un metro e ottanta, che oggi vive a Milano, riuscì a tornare in Italia, resistendo anche a una delle tante marce della morte organizzate dai nazisti una volta compreso che la guerra era persa. Tornato a casa, ricominciò da capo, conobbe Enrico Mattei, viaggiò in 53 Paesi in tutto il mondo e fu tra coloro che scoprirono i nuovi giacimenti di petrolio in Libia. Insomma, una vita intensa: ma il lager se lo porta ancora dietro. «Rimane dentro per sempre - dice - è impossibile toglierselo di dosso, è una seconda pelle. E per tanti anni ho provato vergogna. Perché quando siamo tornati siamo stati accolti con diffidenza e sospetto. Chi ci guardava come fascisti, chi testimoni scomodi di una tragedia da dimenticare a tutti i costi, chi come monarchici o semplicemente dei pavidi che avrebbero potuto risparmiarsi tante sofferenze. Per tanti anni, noi Imi, ci siamo vergognati, abbiamo rimosso e la Repubblica e gli Italiani ci hanno dimenticati del tutto. Non volevano sapere. Più di cinquemila diari scritti da internati militari non sono mai stati pubblicati, non interessavano a nessuno, e poi c'era la Guerra fredda, non si poteva mica rischiare di aprire un nuovo contenzioso con la Germania per il trattamento che ci era stato riservato. Noi schiavi di Hitler come milioni di altri uomini. Ma per noi nulla era dovuto. Niente indennizzi, niente risarcimenti, perché per anni nei tribunali militari e civili, nei contenziosi, noi non eravamo considerati prigionieri di guerra ma disertori! "Traditi, disprezzati, dimenticati", scrisse lo storico tedesco Gerhard Schreiber. Erano anni in cui lo stesso Andreotti, per ragion politica, preferì evitare di parlare di Cefalonia o della caccia ai responsabili di Marzabotto e gli Imi che non erano "giuridicamente" prigionieri di guerra non ebbero diritto ad alcun risarcimento, tanto meno dalla Germania. Ci sono voluti sessantanni prima che con la Finanziaria del 2006 si stanziasse una cifra simbolica per dare a tutti gli Imi una medaglia d'onore. Delle medaglie a me interessa poco, anche se meglio tardi che mai. Il mio sogno - dice ancora Sommaruga - è che il giorno del centenario dell'8 settembre, a Roma e a Berlino, vengano poste due lapidi a ricordo del sacrificio di 700 mila italiani, dimenticati per oltre mezzo secolo». Negli ultimi anni la matricola 750/367 si è battuta per tenere vivo il ricordo di quelle centinaia di migliaia di italiani. Viene invitato nelle scuole, racconta e ci tiene sempre a evitare i particolari più raccapriccianti perché non vuole turbare la sensibilità dei ragazzini. «Quello che mi ha sempre colpito è come, alla fine degli incontri con le scolaresche, molti ragazzi e ragazze sentano il bisogno di avvicinarsi e di toccarmi. Hanno bisogno di toccarmi, come per verificare con le loro mani se esisto davvero, se sono davvero la prova vivente dei miei racconti. Ricordo una volta due ragazzine che mentre raccontavo dei campi si sono messe a piangere, con tutto il rimmel che gli colava sulle guance. Forse mi guardavano e pensavano ai loro nonni. E mi sono commosso anche io». Ma c'è qualcosa che non torna, qualcosa non quadra. Perché così tanti italiani, la stragrande maggioranza, si rifiutarono di firmare e continuarono a patire per mesi e mesi fame e sofferenze? Non erano politicizzati e non erano nemmeno vigliacchi che aveva­no paura di tornare a combattere, quando un uomo soffre la fame farebbe qualsiasi cosa pur di mangiare. Non basta nemmeno la fede. E allora perché così tanti, sia pur imbevuti di retorica fascista, allevati durante il ventennio, decisero quella «resistenza passiva» dopo il tracollo dell'8 settembre? Lo chiedo a Sommaruga. «La prima volta che ho pensato con la mia testa è stato proprio l'8 settembre. Fino a quel momento per me aveva pensato la mamma, e sopra la mamma il confessore, e sopra tutti il Duce. Eravamo cresciuti nel totale indottrinamento e improvvisamente tutto si sciolse come neve al sole. Qualcosa scattò, qualcosa che forse dovremmo comprendere meglio. Come mai soldati che venivano dalla Barbagia, dalle Madonie o dalla Sila, braccianti o manovali senza istruzione, abituati per ceto e per consuetudine a dire sempre "Sì, sissignore al padrone di turno... Sissignore al Gerarca", come mai tutti loro, davanti alla prospettiva di tornare a casa, di poter mangiare a sazietà, dissero "NO" e rimasero nei campi a patire la fame? C'era, evidentemente, un'Italia più forte della retorica fascista e dell'asservimento ai potenti. Un'Italia che era Patria a tutti gli effetti, che esisteva a prescindere dal Re o dal Duce. Un'idea di appartenenza che veniva da lontano. Evidentemente. Qualcosa è scattato, qualcosa su cui oggi varrebbe la pena tornare a riflettere».

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

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