Diario

Arpad Weisz era uno degli allenatori più vincenti degli anni Trenta, ma, ungherese ed ebreo, passò dal tricolore sulla maglia alla stella di David al braccio. Morì nel lager con tutta la famiglia

Dallo scudetto ad Auschwitz

Matteo Marani

 

Fu il più grande allenatore dell'anteguerra, vincitore di uno scudetto con l'Ambrosiana-Inter, in coincidenza con la nascita della serie A, e di altri due titoli conquistati con il Bologna. Un terzo scudetto rossoblu, e quarto personale, Arpad Weisz lo avrebbe meritatamente guadagnato alla fine della stagione 1939, se non fosse uscito dal Paese il 10 gennaio, allontanato dalle leggi razziali varate nell'agosto 1938 contro gli ebrei stranieri. Di questa storia nessuno sapeva più nulla, sepolta tra le tantissime contrassegnate dall'Olocausto. Nella popolarità del personaggio sta la piccola straordinari età della vicenda. È infatti sorprendente che centinaia di giornalisti sportivi e migliaia di tifosi di calcio, in oltre mezzo secolo, non si siano più domandati nulla dell'atroce fine toccata a Weisz. In un certo senso, è come se un Capello, un Lippi o un Mancini scomparissero di colpo dalle prime pagine dei giornali, per cadere altrettanto velocemente nell'oblio. A portarmi sulle sue tracce, quattro anni fa, è stata una fotografia ritrovata in un libro. Un'immagine in bianco e nero di Weisz. Di lui si tramandava, ma senza prove, che fosse morto durante la Seconda guerra mondiale, probabilmente in un campo di sterminio. Era appena un'ipotesi, determinata dall'unica notizia certa sul suo conto: Weisz era ebreo. Avrei poi scoperto, nel seguito della ricerca, spinto proprio da quella prima fotografia, che era nato a Solt nel 1896, da genitori entrambi ebrei. Il padre, Lazzaro, veterinario del paesino a sud di Budapest. La madre, Sonia, casalinga. Tutti elementi messi insieme nel tempo, con grande difficoltà. E qui proverò a raccontare, in breve, il percorso fatto per arrivare a scrivere Dallo scudetto ad Auschwitz, il libro uscito in occasione della scorsa Giornata della Memoria. La prima tappa è stato il sito dello Yad Vashem, dove ho scoperto che Arpad Weisz era in effetti morto ad Auschwitz il 31 gennaio del 1944. Ma c'erano con lui una moglie e qualche figlio? Una tale domanda fa sorridere davanti all'interesse odierno per i divi della domenica, conditi dagli scoop sulla loro vita privata. Negli anni Trenta, invece, non una parola veniva scritta sui fatti personali dei protagonisti del pallone. Per cui l'unica strada a disposizione rimaneva l’archivio anagrafico di Bologna. E da lì, assieme alla sorpresa di scoprire che si trattava di un mio vicino di casa, sono usciti per la prima volta i nomi della moglie Elena, anche lei ebrea e anche lei ungherese, e dei figli Roberto e Clara, nati alla clinica Mangiagalli di Milano mentre il padre era allenatore dell'Ambrosiana. Fatto il riscontro sul solito sito, ho poi trovato la data di morte degli altri componenti di casa: il 5 ottobre 1942, anche loro ad Auschwitz. Se questa è stata la prima fase dell'inchiesta, la seconda ha riguardato lo studio del lavoro fatto da Weisz, i cui meriti superavano ogni immaginazione. Oltre ad avere vinto parecchio, compreso un Trofeo delle Esposizioni con il Bologna contro i maestri inglesi del Chelsea, era stato un innovatore straordinario, un autentico capofila. Per primo aveva introdotto i ritiri prepartita, cosa impensabile sino agli anni Venti, e per primo aveva allenato la squadra sul campo. Carlo Carcano, grande tecnico della Juventus, nello stesso periodo non si era mai tolto giacca e gilet per guidare le esercitazioni dei giocatori (osservate rigorosamente da bordo campo). Di fatto, si può dire che Weisz, in gioventù studente di Giurisprudenza e bancario a Budapest, abbia inaugurato la moderna figura dell'allenatore. Il rigore nell'alimentazione, l'attenzione alla tattica, la scientificità applicata agli allenamenti. Il tutto compendiato in maniera eccellente in un libro, Il giuoco del calcio, scritto nel 1930 assieme al dirigente dell'Ambrosiana Aldo Molinari. La prefazione porta la firma del futuro campione del mondo Vittorio Pozzo, ammirato e quasi ispirato dalle trovate del collega. Altri meriti: avere lanciato in prima squadra un diciassettenne di nome Giuseppe Meazza e aver dato cinque campioni del mondo all'Italia, non certo riconoscente nei suoi confronti. In un salto continuo tra pubblico e privato, sono arrivato alla svolta trovando - dall'esame degli archivi scolastici, rinvenuti tra la polvere di un vecchio scantinato - un compagno di classe di Roberto, il figlio di Weisz. Giovanni Savigni, ora settantaseienne, aveva conservato le lettere dell'amico del cuore ricevute settant'anni prima. Miracoloso. E un modo per consentire a me di capire le tappe successive dei Weisz all'uscita da Bardonecchia: l'hotel di Parigi, con lo stemma riportato sulla carta intestata di una lettera, e quindi Dordrecht, in Olanda. Fu lì che il più grande allenatore del calcio italiano andò a rintanarsi, con la vana speranza di salvare sé e gli altri familiari. Nel 1940 i tedeschi occuparono il Paese. Nel 1941, Arpad fu costretto dai nazisti a lasciare il lavoro, con una lettera tuttora disponibile nell'archivio cittadino. Un anno dopo, in agosto, sarebbe avvenuto il rastrellamento della famiglia. Ancora un paio di mesi, giusto il tempo di passare da Westerboork, prima della destinazione finale di Auschwitz. In Olanda, Weisz aveva continuato a lavorare con il solito metodo. Impegno, professionalità, sperimentazione. Un collezionista di calcio ha rinvenuto altre lettere scritte nel periodo parigino da Weisz a un ex giocatore del Bologna, tale Montesanto. La regione Lazio ha nel frattempo dedicato un torneo contro il razzismo all'ungherese, con visita finale ad Auschwitz. Il Bologna si è impegnato a mettere una targa in sua memoria davanti allo stadio. Decine di persone, infine, mi hanno scritto, compresa un'insegnante raggiante. Il motivo? Aveva trovato un modo diretto per spiegare agli alunni, appassionati di calcio, cosa è stata la Shoah. Altri collezionisti mi hanno inviato foto, una particolarmente toccante proveniente dall'Olanda: Arpad con il figlio Roberto. Un giorno, durante la presentazione del libro, mi si è avvicinato un anziano. Era il figlio di Giovanni Viola, ungherese e allenatore di Juve, Milan e Inter. «Lo sa? Weisz ha abitato a casa nostra», mi ha detto. Beh, era la prova finale che anni di ricerca avevano riguardato un uomo vero, in carne e ossa.

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

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