Diario

In Svizzera oggi, come negli anni Trenta, «campagne di sensibilizzazione» per scoraggiare l'immigrazione. L'idea è sempre quella di dare un'immagine poco «appetibile» del piccolo Stato. Ora si fa con gli africani, un tempo con gli ebrei

Un insolito spot

Silvana Calvo

 

Durante la pausa della partita di caldo Nigeria-Svizzera, il 27 novembre scorso, i telespettatori in Africa non hanno visto, come sempre, il solito spot con alte cime innevate, pascoli alpini, paesaggi lacustri, accoglienti alberghi con tanto di infrastrutture sportive e città svizzere ricche di storia e tradizione. È stato mandato in onda, invece, un breve filmato dal titolo Prevention campaign oJ the dangers of illegal migration departure from Cameroon (Campagna di prevenzione dei pericoli dell'immigrazione illegale a partire dal Camerun). Parte una telefonata: un ragazzo africano entrato illegalmente, non si dice se in Svizzera o in altro Paese dell'Unione europea, chiama il padre. Il giovane racconta di aver fatto buon viaggio e di essere arrivato bene, di aver trovato una decorosa sistemazione presso amici, d'essersi iscritto e d'aver iniziato a frequentare i corsi all'università. Il padre, a sua volta, dice di godere di buona salute e che a casa tutto procede per il meglio e i suoi fratellini sono tornati a scuola, quindi può stare tranquillo. Le immagini che scorrono durante la telefonata dicono, però, inequivocabilmente altro. Mentre il padre è situato in un accogliente salotto dai luminosi e caldi colori dell'arandone e giallo, il figlio è immerso in un freddo blu-nero. Raffiche di vento con pioggia e nevischio, si sentono in sottofondo rumori di scrosci e rombi simili a tuoni. Si vede poi l'alloggio del protagonista: un tetro capannone dove per proteggersi dal freddo si devono indossare guanti e berretto. E ancora, il giovane che corre disperatamente, si intuisce per sfuggire alla polizia, e che, accucciato sul marciapiede, chiede l'elemosina ai passanti. Chiudono i titoli di coda: «Don't' believe everything you hear - Leaving is not always living - Campaign financed by the Switzerland government and the European union Iom/Oim International organization of migration» (Non credete a tutto quello che sentite - Partire non è sempre vivere ­ Campagna finanziata dal governo Svizzero e dall'Unione europea ­ lom/Oim Organizzazione internazionale per l'immigrazione). Questo spot mette in luce una situazione reale: condizioni di vita che per molti stranieri, purtroppo, sono all'ordine del giorno in Europa. Una informazione rivolta anche ai diretti interessati non sarebbe quindi criticabile se fosse finalizzata a dar loro strumenti utili per poter prendere con piena coscienza qualsiasi decisione. Significativo è tuttavia che la «campagna di sensibilizzazione» sia stata promossa dal governo svizzero e dall'Ue, ossia da organismi i quali pur di non mettersi ad affrontare e risolvere i problemi causati dalla presenza di immigrati, scoraggiano l'arrivo dai Paesi poveri di profughi politici ed economici. Potrebbero magari adoperarsi per leggi che promuovano l'integrazione e tolgano di mezzo i divieti che rendono ancora più precaria e marginale, la presenza di questa umanità che non si è certamente spostata per spirito di avventura ma perché spinta da necessità concrete e dall'assenza di alternative. In Svizzera, a monte di una certa politica di chiusura, sta la paura «contaminazione da Altro»: il pericolo per l'identità nazionale, per l'ordine e la tranquillità sociale turbati, per la disoccupazione ed eventuali crisi politiche ed economiche. Serpeggia inoltre il timore che tra gli immigrati possano celarsi terroristi. E allora è uno dei più efficaci mezzi di dissuasione proprio lasciare che le cose vadano come nello spot: il tollerare una situazione marginale di degrado, viene considerato da molti politici il prezzo da pagare per non rendere la Svizzera «troppo appetibile» ai potenziali nuovi immigrati. La politica della dissuasione è stata praticata già nel passato, ai tempi del nazismo. Dopo l'Anschluss, quando nel 1938 Hitler occupò l'Austria e iniziò anche lì la persecuzione antisemita, numerosi ebrei fuggirono in Svizzera in cerca di asilo mentre molti altri si preparavano a seguirne l'esempio. Per impedire l'entrata nel Paese, il governo elvetico introdusse, il 1° aprile, il visto obbligatorio per i cittadini con passaporto austriaco e si premurò di dare istruzioni alle autorità cantonali e ai funzionari delle rappresentanze svizzere all'estero, affinché ai potenziali rifugiati - gli ebrei - questo permesso non venisse rilasciato (se non nel caso in cui il richiedente fosse stato in grado di esibire una garanzia di un Paese terzo pronto poi ad accoglierlo). Pochi giorni dopo, il capo del dipartimento federale di Giustizia e Polizia, ministro Johannes Baumann, inviò alle direzioni di polizia dei vari cantoni una circolare (n. 210 dell'8 aprile 1938) con istruzioni molto chiare da seguire con eventuali profughi: «dev'essergli consigliato l'immediato ritorno al proprio luogo di domicilio. Si deve spiegare loro che anche se avranno da subire considerevoli condizioni sfavorevoli di diversa natura, ciò sarà comunque largamente preferibile al destino degli emigranti. In Svizzera non possono rimanere. Negli altri Stati è generalmente parimenti impossibile stabilirsi. L'assunzione di un'attività lucrativa viene ostacolata dappertutto se non resa del tutto impossibile. Inoltre vi è il rischio di rimanere senza documenti. Il destino della maggior parte degli emigranti sarà quello di venir scacciati senza fine da un Paese all'altro». Definire «emigranti» i profughi ebrei era un eufemismo che all'epoca veniva correntemente usato da autorità e stampa svizzere: permetteva di sottrarsi al dovere di accoglierli senza essere tacciati di antisemitismo. Il 19 agosto 1938 vennero chiuse tutte le frontiere, fu mobilitato anche l'esercito per sorvegliarle. Lo stesso giorno, per alleggerire la pressione al confine, si pensò di intervenire anche «alla fonte» del «problema» chiedendo ai giornali austriaci di ospitare nelle loro pagine un comunicato stampa del consolato generale di Svizzera, che rendeva nota la decisione del governo di sbarrare il confine agli emigranti: tutti coloro che avrebbero tentato di passare sarebbero stati inesorabilmente respinti dagli organi di controllo doganali, rafforzati appositamente per l'occasione. Qualche giorno più tardi si apprenderà dalla stessa stampa - tra tutti, Wiener Zeitung e Wiener Neueste Nachrichten - come l'annuncio riuscì nell'intento di diminuire gli arrivi di ebrei alla frontiera. Un altro mezzo di dissuasione adottato fu poi quello di chiedere ai rappresentanti degli ebrei svizzeri di intercedere presso le organizzazioni israelitiche austriache perché scoraggiassero i loro affiliati dal tentare un espatrio verso la Svizzera. Stesso scopo anche per l'applicazione di disciplina di tipo militare nei campi profughi e per lo smembramento delle famiglie, per cui per esempio il padre veniva mandato in un campo di lavoro in alta montagna, la madre messa a servizio in città come domestica e i figli affidati a famiglie svizzere a qualche centinaio di chilometri di distanza. L'imposizione di queste condizioni di vita non dipendeva da esigenze oggettive ma era finalizzata a rendere sgradevole il soggiorno dei rifugiati affinché non diffondessero all'estero, con lettere o altro, un'immagine allettante della Svizzera. Anche qui, all'origine si trovava la paura dell'Altro: si temeva la «giudeizzazione della Svizzera». Degli ebrei spaventava soprattutto la possibilità che contaminassero il Paese con il verbo rivoluzionario e bolscevico mentre, con le loro capacità economiche e intellettuali, sarebbero potuti riuscire in breve a occupare i migliori posti di lavoro, accaparrandosi gran parte delle risorse nazionali. Per «difendersi» da questi pericoli, e anche nella speranza di disincentivare ulteriormente il loro arrivo, le autorità avevano pensato prima di tutto di vietare loro l'esercizio di qualsiasi attività lucrativa, rendendo di fatto difficile il soggiorno. Allora, come oggi.

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

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