Diario
La fine del Novecento ha visto un vero e proprio boom di musei della Shoah. Ma è difficile dar conto di una tragedia del tutto unica nella storia: se si raccontano i carnefici c'è il rischio di dimenticare le vittime. E viceversa
Se questo è un museo
Michele Sarfatti
Verso la fine del XX secolo, in Europa e negli altri Paesi occidentali è improvvisamente cresciuto il numero dei musei di storia della Shoah. Tanto che lo studioso James E. Young ha parlato di un vero e proprio «Holocaust and Jewish museums boom». I musei della Shoah sono diventati un elemento importante di trasmissione della conoscenza storica, talvolta trasformandosi in una specie di libri tridimensionali, illustrati ed enciclopedici. Nel vocabolario ebraico shoah significa «catastrofe», «distruzione». Negli ultimi anni il termine si è diffuso largamente in Francia e in Italia, assai meno altrove. Nel mondo anglosassone (e anche in Israele, quando i suoi abitanti si esprimono in inglese) è assai più diffuso il termine Olocausto. Non a caso, quindi, quest'ultimo compare nelle denominazioni dell'United States Holocaust Memorial Museum di Washington, dell'Holocaust Exhibition all'Imperial War Museum di Londra e dell'Holocaust History Museum allo Yad Vashem di Gerusalemme. La parola Shoah compare invece nelle denominazioni ufficiali dei tre grandi progetti italiani in corso di realizzazione a Ferrara, Roma e Milano. Forse è la prima volta nella storia che un singolo evento storico viene musealizzato in numerosi Stati di vari continenti, e che viene descritto sulla base di una cronologia e di una griglia interpretativa largamente omogenea, con un'identificazione uniforme dei responsabili politici e operativi e delle vittime. Anche se le architetture degli edifici e gli allestimenti hanno caratteri sempre diversi, e anche se ciascuna esposizione fa riferimento a differenti identità culturali e nazionali, la vicenda storica narrata è sempre la stessa. Il fenomeno dei musei della Shoah sembra pertanto avere caratteristiche uniche nel mondo dei musei storici. La rappresentazione della Shoah, sembra, insomma, richiamare quell'unicità che è stata proposta per la sua dimensione di evento storico, e che tanti dibattiti ha suscitato. Ma pure in questo caso quella definizione è null'altro che il risultato di una comparazione, e non di una sacralizzazione o di una demonizzazione. I musei storici della Shoah sono assimilabili ai memoriali della Shoah, laddove entrambi intendono ammonire i visitatori sulle tragedie e sui pericoli insiti nella civilizzazione contemporanea europea, e sulla necessità di non dimenticare. Ma le due tipologie di memorizzazione sono in realtà differenti: il memoriale (sia quando è una rimanenza materiale dell'evento storico, sia quando è una nuova creazione artistica), conserva o evoca la Shoah e sollecita la sua memoria come atto di umanità e di civiltà. Il museo, invece, consiste in una narrazione storica documentaria e si prefigge di trasmettere e accrescere la conoscenza dell'evento. Si tratta di finalità distinte e diverse, seppur non contrapposte. Probabilmente sono entrambe necessarie. Infatti, in vari casi, quando vi è disponibilità di spazio e richiesta sociale, accade che il memoriale ospiti un museo o che questo crei al suo interno un memoriale. Il caso forse più noto è quello del Denkmal für die ermordeten Juden Europas (il Memoriale per gli ebrei d'Europa assassinati) vicino alla porta di Brandeburgo, a Berlino. Inizialmente doveva essere costituito solo da una realizzazione memorialistica (il campo di stele), cui venne però ben presto deciso di aggiungere un Otider Information (Centro informazioni), che possiede caratteristiche di vero e proprio museo. I musei della Shoah sono quindi esposizioni documentarie che hanno per oggetto ciò che accadde in Europa contro gli ebrei tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento. L'allestimento può comprendere l'illustrazione della situazione degli ebrei prima e dopo il periodo della Shoah. L'esposizione è comunque incentrata sulla narrazione della persecuzione e in particolare sul suo acme finale: l'uccisione sistematica degli ebrei europei. Un tema che in genere colpisce l'attenzione dei visitatori molto più di quello della discriminazione giuridica antiebraica che precedette lo sterminio nazista. Va tenuto presente che vasti settori della popolazione ebraica (e non) ritengono che un Museo della Shoah è anche un luogo deputato al ricordo delle vittime. Da un punto di vista museo grafico, tutto ciò determina una caratteristica speciale dei musei della Shoah: essi devono narrarne la storia dando conto di tutte le singole fasi e tappe, ma farlo in modo tale che il visitatore, giunto verso la fine del percorso espositivo, sia sempre in grado di recepire pienamente l'ultimo sanguinario stadio della persecuzione. Quello, notorio ma non per questo facilmente comprensibile, della messa a morte collettiva nelle camere a gas o in fucilazioni di massa, dal Mar Baltico al Mar Nero. Non è semplice illustrare un assassinio di massa, ma il Museo della Shoah deve farlo, e lo deve fare verso la fine del percorso, col visitatore ancora pienamente attento. I musei di Gerusalemme, Washington e Londra, nonché i due berlinesi (il Centro informazioni del Denkmal e la Mostra storica permanente della Haus der Wannsee-Konferenz) sono accomunati dal proporre una narrazione della Shoah imperniata pressoché esclusivamente sulle azioni decise e attuate dai nazisti. Ora, non vi è dubbio che la Germania nazista fu il primo Paese a dotarsi di una «moderna» legislazione antiebraica (nel 1933), e che lo sterminio sistematico degli ebrei del continente fu deciso da Adolf Hitler e venne attuato principalmente dalle strutture politiche e militari tedesche. Ma ciò non toglie che negli anni Trenta e Quaranta l'antisemitismo e la legislazione antiebraica fossero fenomeni diffusi in tutta Europa (vedi la dura legislazione antiebraica italiana del 1938), e che alcuni governi (a iniziare da quello ustascia croato e da quello romeno) così come alcuni segmenti della popolazione (per esempio in Lituania) attuassero autonomamente o partecipassero spontaneamente ai massacri. Sembra quasi che, di fronte alle difficoltà di ordine storiografico e dimensionale-tecnico di narrare tutta la storia, Washington, Londra, Berlino e Gerusalemme abbiano privilegiato l'aspetto più notevole e più grave (e quindi più facilmente esprimibile nei pannelli espositivi). Non a caso, tra le esposizioni prese in considerazione, solo la Mostra storica permanente del Mémorial de la Shoah di Parigi ha dedicato uno spazio rilevante all'illustrazione dell'iniziativa antisemita di un altro Paese (la Francia, appunto). Ma tale illustrazione è stata attuata quasi sempre per mezzo di una giustapposizione: la persecuzione antiebraica avvenuta in Francia e quella attuata dai nazisti in Germania e in Europa sono spesso narrate su pannelli collocati sulle pareti opposte della sala, che si specchiano ma restano distanti. I musei della Shoah raccontano la storia di un'enorme ingiustizia. Ciò determina un notevole problema per quanto riguarda l'impostazione strutturale delle esposizioni. Da un lato, infatti, i musei parteggiano - se si può usare questo termine - per le vittime. E la loro esperienza umana, personale e collettiva, deve quindi essere protagonista. Dall'altro, i fatti raccontati sono stati determinati dagli «ingiusti», e ciò non può passare in secondo piano nell'allestimento del museo. Ma più si illustra nel dettaglio la persecuzione, più si accantonano gli ebrei, e viceversa. I musei che raccontano più minuziosamente la persecuzione e i persecutori sono forse quelli di Washington e di Londra. Quello inglese, in particolare, è stato accusato di avere un'impostazione di tipo quasi giudiziario. Il Centro informazioni del Denkmal della porta di Brandeburgo, a Berlino, invece, è l'esposizione di carattere museale più dedicata alle vittime. E fin dal nome stesso, che contiene la parola ebrei, anziché Shoah o Olocausto. Lo spazio iniziale rappresenta l'intera vicenda continentale con sessanta fotografie che ritraggono quasi esclusivamente le vittime, e venti testi esplicativi che presentano i fatti senza proporre nemmeno una volta il nome di Adolf Hitler. Nella Sala delle famiglie, poi, i documenti e le fotografie illustrano le traversie di 15 nuclei ebraici di diverse regioni del continente, ponendo i singoli sempre al centro della storia. Si potrebbe dire che il visitatore di Londra termina la visita con una maggiore chiarezza della storia dell'evento, mentre il visitatore del Denkmal di Berlino ne esce con una maggiore consapevolezza della dimensione umana. In attesa della realizzazione dei progetti dei tre musei italiani, le vicende della Penisola sono menzionate nelle esposizioni all'estero. Allo Yad Vashem di Gerusalemme il vecchio allestimento del 1973 affermava che «in Italia furono approvate delle leggi razziali, ma grazie alla tradizionale tolleranza furono poco applicate». Quello nuovo, del 2005, attesta invece sia la durezza che l'effettiva applicazione della legislazione antiebraica fascista e afferma che «il regime di Mussolini partecipò alla deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio e prese parte alla confisca dei loro beni». Al museo di Londra, inaugurato nel 2000, il visitatore apprende che «nel 1938 furono introdotte da Roma delle normative antiebraiche per accontentare i tedeschi, ma non furono rigorosamente applicate». Nulla più; nemmeno sulla Repubblica sociale italiana. A Washington, l'intera legislazione antiebraica è condensata in una riga: «Il 17 novembre del 1938 il matrimonio tra ebrei e non ebrei fu proibito per legge». Poi, quanto ai mesi dell'occupazione tedesca e dell'esistenza dello «Stato fantoccio di Salò», viene affermato che «vi furono migliaia di ebrei deportati e uccisi» ma anche che «la gran parte degli Ebrei italiani sopravvisse all'Olocausto [...] principalmente perché le autorità italiane ostacolarono il progetto nazista di deportazione e di genocidio e a causa della mancanza di un radicato sentimento antisemita tra gli italiani». Il Denkmal di Berlino, inaugurato nel 2005, informa il visitatore che «dopo l'occupazione da parte della Wehrmacht della Toscana, nel settembre del 1943, la famiglia Turteltaub cadde nelle mani della polizia tedesca e, nel 1944, fu deportata ad Auschwitz». In realtà, i Turteltaub furono arrestati da italiani il 12 dicembre 1943, in base all'ordine italiano del 30 novembre, e internati nei campi italiani di Roccatederighi e Fossoli, per poi essere deportati su vagoni piombati dai tedeschi nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Da tutto ciò risulta che, fuori d'Italia, con l'importante eccezione del nuovo allestimento allo Yad Vashem, si ha un'immagine abbastanza erronea della storia dell'Italia fascista antiebraica. Ciò significa che anche nel caso della Shoah i musei narrano non tanto l'effettiva realtà dei fatti, quanto la conoscenza dei fatti posseduta dai loro progettisti. Speriamo che le imminenti grandi realizzazioni italiane siano capaci di sovvenire anche a questa oggettiva difficoltà.
da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione