Diario

Dal lontano 1938 all'annuale 2008 sono passati settant'anni dalle leggi antiebraiche di Mussolini e dei Savoia. Ma raccontare che cosa furono e come vennero applicate è ancora oggi molto difficile. Al cinema come nelle scuole

In nome della legge. Razziale

Fabio Levi

Il tempo passa, gli anniversari si inseguono e si sovrappongono. Le iniziative prese nel 1988 per ricordare, dopo tanto tempo, le leggi contro gli ebrei volute da Mussolini cinquant'anni prima, hanno segnato un punto di svolta. Finalmente, in Italia, varie istituzioni decidevano di rompere un silenzio che durava ormai dall'immediato dopoguerra. Ora, trascorsi altri vent'anni, la conoscenza e le discussioni su quegli eventi hanno fatto molti passi avanti, ma il quadro delle reazioni e dei punti di vista resta frastagliato e contraddittorio. Non sembrano profilarsi certezze rassicuranti e non è quindi possibile fare molto altro se non tentare un bilancio sommario di quel che è cambiato da quando la nuova attenzione posta sull'antiebraismo fascista ha portato anche in Italia a riconoscere la Shoah come un dato costitutivo della nostra storia. Il mondo è cambiato. Alla fine degli anni Ottanta, l'adagio secondo cui conoscere gli orrori nazisti sarebbe valso da sicuro antidoto contro le possibili ripetizioni del male sembrava giustificato da almeno due ragioni, allora sotto gli occhi di tutti: la diffusa fiducia in un mondo più libero e giusto, ispirata dal crollo dell'impero sovietico, e una insperata apertura all'incontro - di cui Primo Levi era stato uno dei protagonisti più convinti - tra i testimoni del genocidio hitleriano e le giovani generazioni. In quel clima, ascoltare direttamente la voce di chi aveva visto e sofferto la deportazione e i campi della morte faceva sentire diversi e richiamava a una precisa responsabilità per il presente. La realtà è venuta però di lì a poco a contraddire le speranze più ottimistiche. La carneficina nei Balcani è iniziata nel 1991. L'annientamento di un milione di tutsi in Ruanda è avvenuto nel 1994. L'uccisione a freddo, da parte delle milizie serbe di Mladic, della gran parte dei ragazzi e degli uomini di Srebrenica per cancellare definitivamente la presenza musulmana in quella città della Bosnia - e dell'Europa - è del luglio 1995. Il genocidio si è dunque imposto all'attenzione del mondo come una pratica estrema, ma collaudata e ricorrente nella gestione dei conflitti della società contemporanea. Anche se in molti hanno cercato sin dal primo momento di allontanare da sé una verità tanto sconvolgente, attribuendo quegli «eccessi» a presunti residui di crudele primitivismo radicati nelle culture altre dell'Africa o dei Balcani. Nei nostri anni, insomma, la crescente sfiducia nell' efficacia profilattica della conoscenza del male senza limiti si accompagna alla diffusa esitazione a riconoscere la persistenza di quello stesso male nel mondo di oggi. Per altri versi, alcuni dei grandi cambiamenti successivi alla fine della Guerra fredda, in particolare l'affermarsi del fondamentalismo islamista rivelatosi come un'incombente minaccia globale con l'attentato alle Torri gemelle del 2001, hanno contribuito a riaprire il capitolo dei totalitarismi, riportando al presente discussioni che sembravano ormai confinate al secolo appena concluso. Per non dire della ripresa, in forme aggiornate, dell'antisemitismo, meno connotato in senso razzista e forte invece dei rinnovati contenuti antisionisti. O dell'incremento straordinario - anche in Italia ­ dei movimenti di popolazione da Paesi diversi, terreno di coltura ben collaudato già nel secolo scorso di incroci esplosivi fra xenofobia, razzismo e, appunto, antisemitismo. Tutto questo mostra come si sia profondamente trasformato il contesto nel quale si forma e si articola oggi la memoria del passato; a maggior ragione quando si guarda agli anni della Shoah e, più in generale, al rapporto fra gli ebrei e le società di maggioranza prima e dopo tale evento. E la forza del pregiudizio che tende a imprigionare quella relazione entro schemi rigidi e all'apparenza sempre uguali a se stessi. Viceversa, la consapevolezza che le realtà in cui hanno vissuto e vivono ora gli ebrei e che la ragion d'essere e la forma concreta degli antisemitismi passati e presenti mutano continuamente, può favorire una più autonoma capacità di interpretazione e di giudizio. Gli ultimi anni Ottanta hanno aperto importanti novità anche sul piano storiografico: fra l'altro è emerso in forma pienamente documentata come molti italiani si fossero macchiati di gravi responsabilità nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei. Ricerche di indiscutibile rilievo hanno mostrato che mettere le azioni più abominevoli in conto al solo regime hitleriano voleva dire falsificare la storia. Ma vediamo più precisamente alcuni dei risultati di quel nuovo modo di guardare agli ultimi anni del fascismo. In primo luogo, fu Mussolini a decidere in piena autonomia di emanare la normativa volta a emarginare definitivamente gli ebrei da tutti gli ambiti della società italiana. Non lo fece su pressione di Hitler, semmai agì nell'intento di offrire al dittatore tedesco un pegno ulteriore di amicizia. All'origine dell'azione persecutoria vi furono ragioni di politica estera e interna; ma quella fu, soprattutto, una vera e propria rottura con il passato, in un Paese dove gli ebrei, dopo l'emancipazione loro concessa a metà Ottocento, avevano potuto integrarsi nella società in modo molto più agevole rispetto alla gran parte degli altri Paesi dell'Europa occidentale, e dove l'antigiudaismo di matrice cattolica si era tradotto in antisemitismo politico solo episodicamente e senza conquistare un consistente radicamento. Quanto agli sviluppi successivi, va detto che la campagna antiebraica, una volta avviata dai vertici del regime, riuscì poi a permeare dall'alto verso il basso tutte le istituzioni dello Stato fino a investire le articolazioni periferiche a contatto più diretto con la quotidiana realtà del Paese. E a coinvolgere progressivamente, lungo un arco di tempo di ben cinque anni - dal 1938 al 1943 - e senza opposizioni rilevanti, settori sempre più ampi della popolazione, incoraggiati ad applicare e ad assecondare le disposizioni razziste dalla diffusa evidenza che il potere stava facendo sul serio. Anzi, proprio la facilità - pur fra molte contraddizioni - con cui gli ebrei vennero messi all'angolo in un Paese dove l'antisemitismo non aveva mai mostrato grande presa, è emersa dagli studi come uno dei dati più inquietanti, destinato a sollevare importanti interrogativi, non solo sulla condizione specifica delle comunità ebraiche e sui modi della persecuzione contro di loro, ma prima ancora sulla storia e sulle caratteristiche del rapporto fra società e istituzioni del nostro Paese. Le ricerche avviate una ventina d'anni fa come sviluppo, spesso assai critico, del lavoro pionieristico pubblicato da Renzo De Felice nel 1961, hanno messo in luce la sostanziale acquiescenza di gran parte della popolazione di fronte alle leggi razziali del 1938 e agli sviluppi successivi. Se poi le cose cominciarono a cambiare fu in relazione con l'entrata in guerra dell'Italia e, soprattutto, con il collasso delle isti­tuzioni provocato dall'armistizio con gli Alleati dell'8 settembre 1943, quando peraltro si stava or" mai profilando l'inevitabile sconfitta delle potenze dell'Asse. A quel punto molti mutarono atteggiamento e offrirono il proprio aiuto, impedendo che altri ebrei si aggiungessero ai circa 8.000 deportati, fino al 1945, nei campi di sterminio. Malgrado questo, non mancarono però segni di ostilità e un numero consistente di delazioni, grazie alle quali le milizie della Repubblica sociale italiana poterono moltiplicare gli arresti - e gli espropri dei beni - compiuti in costante collaborazione con le forze tedesche. Quegli studi hanno infine cominciato a considerare gli anni immediatamente successivi alla Liberazione, quando le forze dell'antifascismo chiamate al governo del Paese non seppero o non vollero riconoscere agli ebrei la condizione di vittime esclusivamente in quanto ebrei, come era effettivamente stato nelle intenzioni e nella pratica del regime fascista e della Repubblica sociale. Così, i sopravvissuti impiegarono molto tempo a ritrovare una vita normale, dovendo affrontare da soli le difficoltà di reinserirsi nel mondo del lavoro o di recuperare quel che era rimasto dei propri beni, senza il minimo sostegno da parte delle istituzioni. Non poterono contare su alcun atto di riparazione per le gravissime perdite subite. Fu per loro molto difficile e doloroso, al ritorno dai lager o dai luoghi in cui avevano ricevuto asilo, ritrovarsi accanto i colleghi o i vicini che li avevano isolati nei lunghi anni della campagna antisemita o li avevano abbandonati nel momento del pericolo estremo. Nei processi del dopoguerra, quasi mai vennero prese in considerazione le azioni commesse contro gli ebrei. Insomma, il forte coinvolgimento di una parte non indifferente dell' Italia nella pratica persecutoria del periodo precedente la Liberazione contribuì in misura decisiva a porre le condizioni perché, dopo, il Paese non riuscisse a liberarsi consapevolmente anche di quell'oscuro capitolo del proprio passato e preferisse procedere sulla strada della rimozione e del silenzio. Il lavoro degli storici sull'Italia è stato parte di un impegno d'indagine ben più ampio, condotto in tutto il mondo occidentale e destinato a comporre una ricca rappresentazione d'insieme dello sterminio e del suo rapporto con la guerra e con la storia dei vari Paesi. Nello stesso periodo, quei temi hanno cominciato a diventare oggetto di crescente attenzione per i media - cinema e televisione in primo luogo - che hanno offerto al grande pubblico quanto negli anni precedenti era rimasto patrimonio di pochi (come per pochi era rimasta Shoah, la fondamentale opera di Claude Lanzman: un film monumentale, lungo ben nove ore). Non è il caso di ricordare i titoli più noti della nuova stagione, da Schindler's list in avanti. Senza dubbio lo sviluppo della ricerca storica ha influito non poco sulle iniziative di ampia divulgazione, ma le vere ragioni del duplice interesse di studiosi e comunicatori vanno cercate in esigenze e processi storici di portata più ampia rispetto al ristretto ambito degli archivi, delle biblioteche o degli stessi studi televisivi. Due sono stati i fattori principali, che si sono manifestati in modo diverso a seconda dei luoghi e delle culture di riferimento: da un lato il bisogno profondo di fare i conti con un nodo troppo a lungo rimosso della storia d'Europa e, dall'altro, la straordinaria opportunità offerta dalla caduta del muro di Berlino di svincolarsi, finalmente, dagli impedimenti ideologici e politici imposti da decenni di Guerra fredda. Infatti, per ragioni diverse, né i partiti comunisti - sia quelli al potere nell'Est sia quelli schierati all'opposizione nei Paesi dell'Ovest - né le democrazie occidentali, avevano saputo trovare le motivazioni, gli strumenti culturali e il coraggio per misurarsi tanto con gli aspetti più distruttivi della politica di Hitler, quanto con la colpevole inerzia mostrata dagli Alleati durante la guerra di fronte al genocidio del popolo ebraico e, di conseguenza, con le pagine meno limpide della vittoria sul nazismo. Fatto sta che tutta l'Europa ­ la stessa Europa investita cinquant'anni prima dal ciclone nazista, al di qua e al di là del confine che l'aveva spaccata in due per tanto tempo - è stata posta inopinatamente di fronte al luogo più oscuro e regressivo della sua storia recente, rivissuto in forma virtuale ma in presa diretta attraverso le immagini autentiche dei fatti di allora e le parole dei protagonisti. E tutto questo si compiva, per una sorprendente coincidenza, negli stessi anni in cui stava crescendo la consapevolezza degli effetti distruttivi, per l'umanità intera, dello sviluppo senza limiti. Così, quel tanto di fiducia nel futuro che dopo i disastri della guerra e dello sterminio era stata restituita dal benessere e dalla lunga pace della seconda metà del Novecento subiva ulteriori pericolose incrinature su più fronti, con conseguenze che è a tutt'oggi molto difficile valutare. Non è agevole misurare, per esempio, gli effetti della traduzione nei linguaggi dei vari media del discorso sulle persecuzioni antiebraiche e sullo sterminio. Che cosa rimane e che cosa si perde in quel passaggio? Qual è il grado di conoscenza diffusa che ne deriva, in particolare fra i più giovani? Quanto pesano la distanza dai fatti e la virtualità dei messaggi - si pensi alla programmazione ripetuta e imposta senza alcuna cautela, in tv, delle immagini più orribili - nel produrre reazioni distratte e banalizzanti o effetti di assuefazione? Quanto e come la Shoah, ricompresa e amalgamata nel flusso ininterrotto e omnicomprensivo della comunicazione quotidiana, finisce per perdere il suo carattere di evento dirompente e irriducibile? Anche la scuola non può sottrarsi a simili domande, tenuto conto sia della sua funzione specifica, sia del suo essere parte, malgrado tutto, di un sistema educativo integrato, coinvolto nella trasmissione alle giovani generazioni di informazioni e punti di vista diversi sulle grandi tragedie del Novecento. Se guardiamo alla storia dell'istruzione pubblica degli ultimi vent'anni, notiamo una prima fase di iniziative prese direttamente dagli insegnanti più sensibili agli argomenti di attualità - una volta si sarebbe parlato di iniziative dal basso - e poi un intreccio non facile da descrivere fra lavori in classe e sollecitazioni dall'alto, sui programmi di studio - per esempio l'insistenza del ministero sulla storia del Novecento - in occasione di concorsi, di viaggi sui luoghi della deportazione, fino all'istituzione della Giornata della Memoria. La decisione, a partire dal 2001, di celebrare il 27 gennaio, è senza dubbio servita a legittimare e a raccogliere quanto già c'era; ma anche a stimolare molto altro e soprattutto a dare un riconoscimento di universalità alla memoria dello sterminio nazista. L'applicazione concreta di tale decisione non ha tuttavia risolto un'ambiguità di fondo. Il carattere inevitabilmente rituale di quella scadenza annuale tende a tradursi troppo spesso in mera ripetitività: perché le istituzioni non sanno spiegare l'importanza e il significato della giornata con convinzione e autorevolezza adeguate, perché nelle scuole serpeggia un dissenso più o meno visibile ma tutt'altro che irrilevante, con il quale si ha raramente il coraggio di confrontarsi in modo esplicito, perché molti docenti non sanno come comportarsi e, per non sbagliare, scelgono la passività o il basso profilo. Perché quelli più attivi si trovano quasi sempre da soli a dover riproporre ogni anno iniziative nuove su temi difficili e di grande impegno emotivo e civile. A volte, l'errore consiste però anche nel pretendere troppo dai docenti o dai dirigenti scolastici, come se tutti - magari anche i professori di matematica o di scienze ­ dovessero diventare esperti di storia e di stermini. Quando invece sarebbe forse più produttivo che intorno alla Shoah si sapessero formulare ogni anno alcuni, anche pochi, interrogativi di fondo su cui chiamare a riflettere insegnanti e allievi, chiedendo certo a chi può di mettere a disposizione le proprie competenze, ma a tutti di partecipare a quella ricorrenza, diciamolo pure, a quel rito, mettendo in campo in primo luogo la propria umanità. Proviamo ora a guardare alle esperienze degli ultimi anni dal punto di vista di chi, sui contenuti del 27 gennaio, ha lavorato con i propri studenti, magari anche prima che la Giornata della Memoria venisse istituita. Come si fa a considerare particolarmente riuscita un'iniziativa sulla Shoah a scuola? Si potrebbe forse rispondere così: quando i partecipanti - chi più, chi meno - si sono sentiti direttamente coinvolti e hanno potuto confrontarsi con il problema delle responsabilità, in primo luogo della propria. Lascia infatti a dir poco perplessi la posizione, manifestata così spesso in questi anni, di chi fa di tutto per sottrarsi a qualsiasi discussione su quanto possa pesare il fardello del passato che, comunque, siamo costretti a portarci dietro. Per esempio ho accennato a come sia stato importante riconoscere e provare in modo indiscutibile le responsabilità italiane nella persecuzione e nella deportazione degli ebrei affinché la Shoah potesse entrare a pieno titolo, anche da noi, nella memoria collettiva e aiutarci a conoscere più a fondo la nostra storia e la nostra cultura. Viceversa, è significativo come la pretesa di assolvere, contro ogni evidenza, l'Italia da ogni colpa del passato venga riproposta nel dibattito attuale con un accanimento e una debolezza argomentativa tali da far pensare, più che a un vero impegno nello studio del passato, alla difesa di posizioni di potere e interessi particolari ben radicati nella realtà di oggi, in particolare nelle istituzioni e nel mondo della politica. Sul versante opposto, si è però troppo spesso assistito, in questi anni, a forme di coinvolgimento dei ragazzi - proposte per lo più con le migliori intenzioni - che non esiterei a definire intimidatorie. È il caso di quando si punta tutto e soltanto sulla risposta emotiva dell'interlocutore, cui si sottopongono immagini di morte che tolgono il fiato, senza fare del ragionamento un mezzo per prendere le distanze e lenire la sofferenza; quando si operano corto circuiti forzati fra presente e passato, fra condizioni lontane e diversissime e la propria realtà di oggi, senza rispettare l'autonomia della storia; quando si pretende di catturare l'attenzione puntando con vera prepotenza sul senso di colpa per delitti orribili commessi da altri. Gli sbagli appena indicati ci insegnano quanto sia fuorviante e pericoloso confondere la responsabilità storica di una cultura, di un Paese, che può condizionare chi vi appartiene anche a distanza di molto tempo e di cui è doveroso essere consapevoli, con la responsabilità personale di atti direttamente compiuti. Questo non significa tuttavia rinunciare a chiedersi se sia possibile assumere in prima persona una qualche responsabilità facendo qualcosa di concreto, non solo in un futuro più o meno lontano, nella mal augurata eventualità che il male si ripresenti in forma dispiegata e quindi tanto più difficile da combattere, ma ora, subito, di fronte a una minaccia ancora impalpabile e difficilmente riconoscibile. Anche su questo le esperienze degli ultimi anni hanno saputo dare indicazioni preziose, quanto meno sui primi passi che si possono effettivamente compiere per riscuotersi dagli effetti paralizzanti spesso indotti dall'enormità delle questioni in gioco. Fra le cose da fare - in certi casi voler conoscere è già fare - al primo posto sta l'impegno di apprendere, anche se si tratta di argomenti difficili e carichi di dolore, senza illudersi che la conoscenza possa bastare da sola, ma con l'intenzione di misurarsi con le sofferenze imposte ad altri come se almeno in parte fossero le nostre. C'è poi lo sforzo di aiutare gli altri a conoscere, rispettando però la loro sensibilità, il loro diritto di non sapere ancora e di formulare obiezioni, anche le più imbarazzanti. Questo nella consapevolezza che il patrimonio condiviso cresciuto nel libero confronto rappresenta ben di più della semplice somma di diversi punti di vista. Ma in cosa deve consistere quel patrimonio? In alcune, anche poche, verità verificate alla luce dei fatti, laddove quelle verità - pur difficili da accertare e da accettare - possono diventare un solido riferimento per la propria vita. Le discussioni più appassionanti a scuola sono spesso quelle che, prendendo spunto da atti di sopraffazione imposti dai persecutori - anche solo una frase umiliante o una discriminazione sul posto di lavoro ­ adeguatamente contestualizzati e di cui si sia verificata con cura la verità storica, conducono al confronto sulle cose da fare, su come gestire in concreto i rapporti con gli altri, su quali responsabilità sia giusto e possibile assumere. Tutto questo costringe a fare i conti con l'esperienza di ognuno - il filtro attraverso cui inevitabilmente guardiamo al passato - e, insieme, a trattare anche gli eventi più tragici e distruttivi non di per se stessi, ma come il confine, pur estremo e insondabile, della vita. Nel tentare questi primi passi, deve insospettire l'unanimismo troppo facile che tende a manifestarsi così sovente - ma assai di rado fra i ragazzi - quando si tratta dello sterminio degli ebrei. E non solo perché quell'atteggiamento può nascondere ignoranza, scarsa attenzione o esplicita insofferenza. C'è dell'altro. Se si scava sotto la superficie si scopre, a volte, che il consenso è solo apparente e dipende sin troppo dall'acquiescenza passiva alle direttive dell'autorità. C'è da chiedersi: se dal ministero o da qualche altra istanza scolastica venissero indicazioni diverse, in nome, per esempio, della pacificazione fra le memorie contrapposte di fascisti e antifascisti, di persecutori e perseguitati, come si comporterebbero gli insegnanti, i genitori o gli allievi? È già successo e gli esempi che conosciamo non autorizzano alcun ottimismo.

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

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