Diario

A cosa serve il Giorno della Memoria? A non perdere il senso della proporzione e a non smarrire il filo della storia (come fa chi non riconosce Israele). Anche perché i morti non hanno mai dato ai vivi nessuna delega d'oblio...

Ricordarsi di ricordare

Furio Colombo

Si dice spesso che in una buona scuola si dovrebbe imparare a imparare. Significa dare vita a un modo di apprendere così vitale e creativo che continuerà a generare altro apprendimento, altri interessi, altra voglia di allargare l'orizzonte di ciò che si fa e che si conosce. La storia della cultura è tutta qui. Si dice del Giorno della Memoria: «A che serve? Chi deve sapere sa, chi vuole dimenticare lo ha già fatto. E non è poi così importante avere una cerimonia in più». Come vedete, mi riferisco alle obiezioni serie e tristi che rispondono non al negazionismo ma a eventi obbligati e formali che rischiano di essere soltanto un ornamento inadeguato alla grandiosità dell'evento. L’evento è la Shoah, unico progetto finora tentato al mondo (e proprio nel cuore del mondo più civilizzato e più colto) di eliminare dalla terra un intero popolo. L’evento, dunque, è sproporzionato a qualunque tentativo di dargli un luogo e una dimensione nella memoria, e qualunque impegno di rievocazione è per forza inadeguato. E rischia di cercare nella ritualità un modo di compensare questa ineliminabile inadeguatezza. Resta però necessario tentare di rispondere alla domanda, che ho visto sollevata e discussa l'altr'anno anche sulle pubblicazioni delle comunità ebraiche. «A che serve il Giorno della Memoria?». Mi sento di dire questo: serve a ricordare di ricordare. Non è altro che il tentativo di rinsaldare in un punto delicato e feribile, la sequenza di civiltà che impedisce l'oblio, la normalizzazione, la perdita del senso e della proporzione degli eventi, la consapevolezza di ciò che è avvenuto e che invade molti strati e livelli e dimensioni della nostra percezione-memoria. Impedisce di vedere il passato come una vasta pianura in cui il passare del tempo fa tutto uguale. Da prima il male uguale al male. E poi il male uguale al bene nel senso che ogni cosa trova un suo posto nello scaffale della storia. E ti inducono a pensare che sia di cattivo gusto intestardirsi a definire («etichettare», ti dicono) gli eventi. Ricordare di ricordare vuol dire impegnarsi a impedire che alle spalle si formi gradatamente un gran vuoto, un senso di non avvenuto. A quel punto, gli eventi che collochi nel passato (se ti dedichi ancora a questo esercizio, che però viene screditato o visto come malevola divisione) diventano scelta politica. lo colloco i miei morti (o caduti), tu collochi i tuoi. Poi verrà qualcuno a dirci, mostrando un nobile senso di pietà, che i morti sono tutti uguali e che noi vivi, invece di contare le tombe, dovremmo darei la mano. Il fatto è che possono darsi la mano solo coloro che sanno quello che stanno facendo. E solo se pensano di poterlo fare non a nome dei morti, che non hanno mai dato deleghe di oblio. Il che vuol dire che è stato tracciato un segno profondo di dolore e distruzione e morte, nel bel mezzo della civiltà occidentale, e dei suoi luoghi e punti più alti e colti, che non si può rimuovere una volta accaduto. La memoria della memoria ti porta davanti ai fatti e ti dice (non impone, non comanda, non obbliga) che devi continuare a sapere, per non perdere il filo della storia. Hanno perso il filo della storia coloro che mostrano di non sapere perché esista al mondo uno Stato degli Ebrei e perché ha dovuto nascere proprio lì, in Palestina, ovvero «nella terra degli altri». Questa definizione: la Palestina come «terra degli altri», la Palestina occupata arbitrariamente dagli ebrei, è il modo più frequente e comune (benché spesso non del tutto chiaro o addirittura inconscio) di negare che gli ebrei esistano. Un modo, per molti inconsapevole, di continuare mentalmente la Shoah nel senso che non dovrebbero esserci in Palestina quegli ebrei che rendono impossibile la pace. Qualunque ricognizione di gran parte della pubblicistica mondiale intorno alle vicende di Israele dimostra questo più o meno avvertito sentimento di irritazione, quasi di risentimento, per la ostinazione di Israele a mantenere e difendere in ogni modo il proprio territorio. Per un periodo, a partire dalla Guerra dei sei giorni (1967), i grandi pretesti sono stati la potenza e l'efficienza militare del neonato Stato degli ebrei. Benché stessero affrontando da soli centinaia di milioni di arabi ­ tradizionalmente bene armati e bene addestrati dalle potenze coloniali, che avevano appena finito di stabilire confini e dinastie in un mondo arabo fino ad allora occupato senza scandalo dagli europei più potenti - gli israeliani sono stati subito segnalati come «imperialisti», autori di apartheid e occupanti, con l'aggravante di una efficienza militare che, ha detto con convinzione tanto ferma quanto «innocente» gran parte dell'opinione occidentale del mondo, gli ebrei non avrebbero dovuto avete. Quando, nell'estate del 2006, la nuova, potentissima e quasi invisibile armata di Hezbollah ha costretto Israele a una difesa disperata e a malapena riuscita, buona parte del mondo ha visto solo armi israeliane e vittime arabe, e ha prontamente denunciato l'aggressione. Poi, non ci ha pensato due volte a interpretare come una grande e rispettabile manifestazione politica il milione di guerriglieri riuniti a Beirut attorno alloro leader Nasrallah per celebrare la vittoria di Hezbollah. E il mondo è sembrato approvare e capire l'umore minaccioso, aggressivo, di quella moltitudine in armi. Quella moltitudine sembrava al proprio posto, nel luogo giusto. Il Paese degli ebrei no. Era il disturbo alla pace. Questo è un modo per descrivere il vuoto che si è formato in tutta Europa nella percezione, nel senso, nella proporzione, e persino nell'ordinata sequenza dei fatti. Ciò che viene prima, ciò che viene dopo, ciò che spiega e determina la sequenza. Chi scrive è l'autore della legge italiana che istituisce il Giorno della Memoria, ed è evidente il rischio di una sorta di auto­giustificazione, a distanza di appena sette anni dall'approvazione (all'unanimità, alla Camera dei deputati, nell'anno 2000). L’intento , invece, è di rispondere a molte ansiose e legittime domande: serve? Serve ancora? Non ci siamo abbandonati a esercizi di buona retorica e di buoni sentimenti per un passato tragico che non si può cambiare? Il fatto è che si può cambiare. Con due mosse più o meno volontarie. Una è pensare che, con il passare del tempo; una cosa vale l'altra, persino nelle tragedie. L’altra è che, cancellando il senso del tentato sterminio di un popolo accusato di tutti i mali della storia, della religione e del mondo, ma soprattutto sospettato di sionismo (cioè di volere una patria nella terra d'origine, proprio come gli altri europei), si può tornare a vedere tutto il male nel sionismo, e a vedere in Israele l'inaccettabile esito di questo sogno che viene, come in passato, chiamato complotto. Ecco dove e perché serve e fa luce la memoria della memoria. Non è una corona d'alloro ma un modo di vivere.

da «Diario del mese», 24 gennaio 2008, per gentile concessione

sommario