Diario
Parlano i sopravvissuti dei campi di internamento italiani: morivano a centinaia, ma mai nessuno dei responsabili è stato accusato o processato
Non solo brava gente
Erica Culiat
Alla fine è vero quello che ha detto Marija Poje, sopravvissuta ai campi di Arbe (oggi Rab, in Croazia) e Gonars, «voi potete soltanto intravedere il nostro mondo, ma non potete capirlo». Possiamo, però, farlo conoscere perché è una realtà ancora oggi taciuta e poco divulgata, anche se una recente storiografia, quella di Bozidar Jezernik, Tone Ferenc, Alessandra Kersevan e Carlo Spartaco Capogreco cerca di fare luce su un altro buco nero della nostra storia. Quella cioè della deportazione dei civili sloveni e croati nei campi di concentramento italiani tra il 1942 e il 1943, i cosiddetti «campi di internamento parallelo» come li ha definiti Capogreco. Campi dove si lasciavano morire donne vecchi e bambini di fame, freddo, sete, malattie, senza intervenire (Diario ha pubblicato un articolo di Capogreco sul campo di Arbe nel numero 36 del 9 settembre 1998, nel 2004 Capogreco ha pubblicato con Einaudi I campi del duce. L’internamento civile nell'Italia fascista 1940-1943). «Il 29 luglio 1942, non albeggiava ancora, militi armati in camicia nera entrarono nelle nostre case a Stari Kot» (un paesino di montagna tra Fiume oggi Rijeka - e Lubiana) , racconta Herman Janez, allora un bambino di sette anni che assieme a Marija seguirà la stessa via crucis e che in questa aggressione perse 17 familiari, «entrarono urlando, buttandoci dai letti e colpendo chi si fermava con i calci dei fucili. Siamo stati ammassati nella piazzetta dietro alla chiesa e abbiamo visto bruciare il nostro villaggio. Tutti i 138 abitanti del paese, senza cibo né bagaglio, in colonna, sotto scorta, sono stati fatti camminare fino al paese di Cabar, dove abbiamo alloggiato per una notte. Poi il giorno seguente ci hanno divisi in tre gruppi, donne, bambini e uomini e hanno fatto l'appello. Se qualche uomo mancava, voleva dire che era partigiano e quindi tutta la famiglia, o una parte, poteva essere fucilata. Da lì ci hanno trascinato nel campo di smistamento di Bakar (Buccari), vicino a Fiume e messi nelle stalle del vecchio esercito jugoslavo. Qui sono arrivate tutte le persone delle vallate sopra Fiume, mentre quelle attorno alla provincia di Lubiana venivano portate direttamente a Fiume e da lì verso Arbe, come noi. Eravamo stanchi, sporchi, stremati dopo aver fatto una cinquantina di chilometri. Avevamo ricevuto poco cibo, del caffé salato, ma niente acqua e non potevamo usare servizi igienici. Ci chiedevamo, perché? Che cosa sta succedendo? Quando poi ci caricarono sulla nave in direzione dell'isola di Arbe (oggi celebre luogo di villeggiatura) i vecchi che non avevano mai visto il mare in vita loro, si misero a piangere dicendo che questo viaggio sarebbe stato l'ultimo e che ci avrebbero gettati in acqua. Siamo arrivati il 5 agosto». Il campo di Arbe è stato realizzato alla fine di giugno del 1942 nella parte sudorientale dell'isola, dove i soldati italiani installarono un migliaio di tende per seimila persone. Il progetto iniziale annunciato dal generale Mario Roatta era quello di realizzare altri due settori per un'accoglienza di 16 mila persone, in realtà ci fu un ridimensionamento del grande terminale per internati sloveni e si prospettò solo una funzione di smistamento di 10/11 mila posti. Il campo fu sottoposto al colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli che promulgò la massima del «recluso malato come recluso ideale» che fa capire come Arbe, pur non essendo stato pianificato come campo di sterminio, aveva in realtà dei tassi di mortalità altissimi, soprattutto per non aver avuto nessuna stima dell'umanità dei reclusi e per la crudeltà del colonnello Cuiuli. Ma come si era arrivati a questo? Senza dimenticare quanto il fascismo di frontiera aveva fatto a partire dagli anni Venti nel Friuli-Venezia Giulia e in Jugoslavia, nel suo progetto di bonifica etnica dei non italiani usando tutti i mezzi possibili, intimidazione violenza uccisioni spedizioni punitive nei villaggi italianizzazione dei cognomi e delle località, bisogna comunque arrivare al 6 aprile del 1941 quando Italia e Germania invadono la Jugoslavia, smembrandola. La Slovenia settentrionale fu assegnata al Reich; quella meridionale, con Lubiana, venne annessa all'Italia. Quando nell' estate-autunno dello stesso anno in Montenegro inizia la Resistenza che dilaga anche in Serbia, Bosnia, Croazia e Slovenia, le autorità militari italiane adottano provvedimenti sempre più drastici per decapitare il movimento di Resistenza. Obiettivo comunque mai raggiunto. Esisteva un ordine emanato dal Comando superiore per la Slovenia e la Dalmazia con sede a Susak (Supersloda) dove si specificava che «se necessario all'ordine pubblico, si poteva provvedere a internare a titolo protettivo, precauzionale o repressivo, individui, famiglie e anche intere popolazioni di villaggi e zone rurali, di famiglie di cui siano o diventino mancanti senza chiaro motivo maschi validi di età compresa fra i 16 e i 60 anni. Il razionamento a dette famiglie verrà ridotto al minimo indispensabile. Saranno internati anche gli abitanti di case prossime al punto in cui vengono effettuati sabotaggi». Nella provincia di Lubiana viene anche istituito un Tribunale straordinario che spesso comminava la pena di morte. Il 10 ottobre avvengono già le prime esecuzioni. Dal sistema iniziale di arresti, in pratica, si passa a un sistema di carcerazione in massa della popolazione, a prescindere dalla loro colpevolezza, e di invio nei campi di internamento che dal febbraio 1942 sono in allestimento. La deportazione veniva accompagnata dalla requisizione del bestiame, dalla confisca dei beni e dalla distruzione delle abitazioni. Alcune aree della Provincia di Lubiana furono così completamente svuotate. Nei 29 mesi di occupazione italiana soltanto in questa provincia vengono fucilati cinquemila civili e 200 bruciati o comunque massacrati in modi diversi; 900 i partigiani catturati e fucilati. In base ai dati a disposizione presso l'Archivio centrale dello Stato a Roma, il governo italiano valutò che alla fine dell' ottobre 1942 nei campi di Arbe, Chiesanuova (Padova), Monigo (Treviso) , Gonars (Udine) e Renicci di Anghiari (Arezzo) si trovavano circa 20 mila deportati civili sloveni. Fino alla capitolazione dell'Italia l'8 settembre 1943, però, gli sloveni furono internati per periodi più o meno lunghi in più di cento località italiane e il loro numero di sicuro fu più alto dei 20 mila menzionati nei documenti d'archivio. Notizie sicure, invece, grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, quelle sulle condizioni di vita definite tragiche. Quando la Poje il 5 agosto arriva ad Arbe, ha vent'anni. È incinta. Ha un bambino di 16 mesi con la diarrea. Viene separata dal marito. Al momento dello sbarco sull'isola, le autorità suonano l'allarme perché i residenti si chiudano nelle loro case (il molo è nel centro di Arbe paese). Le donne i bambini vengono caricati su un camion e portati a Kampor, una valle bonificata a nord della località principale dell'isola, dove il 27 luglio era arrivato il primo gruppo di internati da Lubiana. Gli uomini invece devono raggiungere questo luogo a piedi, marciando per sette chilometri. Il campo era diviso in quattro sezioni, quella maschile, femminile, quella degli ebrei e la sezione di ricezione e smistamento. «Non riuscivo a pensare a niente», dice Marija, «ci hanno messo in tende militari vecchie da quattro posti, invece eravamo in otto. Mia suocera era con me. Non potevamo lavarci. Ci hanno dato una coperta e si dormiva per terra. Faceva caldo e la mancanza di acqua è stata la cosa più traumatica anche se in zona c'erano ben 300 falde d'acqua. Le autorità portavano una cisterna d'acqua al giorno. lo carponi, sgattaiolando tra la gente, raggiungevo la cisterna e da un bullone allentato raccoglievo l'acqua che cadeva. Il nostro vitto era un terzo del rancio di un soldato. Ci davano solo 80 grammi di pane. Alla fine eravamo solo l'ombra di noi stessi. Quando nella notte tra il 29 e 30 settembre scoppiò un fortissimo temporale, mentre mia suocera teneva i pali della tenda e io il mio bambino, non avevo neanche la forza di chiedere ai vicini di tenda che cosa stava succedendo, ma pensavo fosse arrivato il giorno del Giudizio». Quella tempesta fu un vero incubo: una valanga d'acqua alta un metro precipitò nel campo femminile trascinando a mare non solo le tende, ma anche bambini e donne. Herman dice che le urla di quella notte lo accompagnano tuttora e «ancora oggi non riesco a fare il bagno in mare perché ad Arbe, qualcuno aveva pensato che la terapia dei bagni freddi ai bambini, nei mesi autunnali, sarebbe stata un'ottima cura per rafforzare il fisico. Le guardie ogni giorno facevano l'appello di noi ragazzini per poi portarci nella rada di mare antistante al campo e farci fare il bagno. Ci nascondevamo, ma poi questi ci stanavano e ci costringevano ad andare in acqua. Eravamo già deboli, pieni di zecche e di pidocchi, di piaghe purulente, puzzavamo di sterco nostro e altrui, e dopo questi bagni un semplice mal di gola ha portato tanti di noi al camposanto». Una semplice pioggia comunque causava disagi inimmaginabili, perché intasava le latrine che riversavano il liquame nelle tende. Tra la sezione maschile e femminile scorreva un ruscello che era diventato il simbolo delle sofferenze patite in quel campo. La gente non poteva né lavarsi né dissetarsi perché era pieno di cimici. Il 6 agosto muore il primo bambino di due mesi e fino a dicembre ne moriranno 164. Nei 13 mesi di attività del campo probabilmente persero la vita non meno di 1.435 persone alle quali si sia riusciti a dare un nome. Una cifra che corrisponde a oltre il 19 per cento degli internati sloveni e croati di Arbe e che supera il tasso di mortalità registrato nel campo nazista di Buchenwald che fu del 15 per cento. Il numero potrebbe essere superiore perché spesso si seppellivano due salme in una stessa fossa e gli internati nascondevano le morti per spartirsi il rancio dei defunti. Marija il 18 novembre venne trasferita all'hotel Adria, sempre sull'isola, dove partorì Anton (tanti neonati nascevano già morti). Il giorno successivo, per precauzione, venne subito battezzato. Dalla fine di novembre comunque donne, bambini e vecchi iniziano a essere trasferiti in Italia. Marija e i suoi bambini arriveranno a Gonars il 6 dicembre. Herman un giorno prima. «Anche questo viaggio è stato un incubo. Al momento dell'imbarco, soffiava la bora e pioveva. La barca era piena. Ci hanno fatto sedere in coperta perché la stiva era già ricolma. La suocera cantava una canzone, "tutto il Golgota preme e Cristo porta la croce". Con la sottoveste e la camicia ho fatto i pannolini per Ivan». Marija in realtà parla di sé in terza persona. I ricordi sono troppo pesanti. «A Gonars siamo stati disinfestati. I vestiti li abbiamo ammucchiati perché venissero messi nelle stufe e ci hanno mandato a fare la docce. Ho chiesto al soldato: dove metto il bambino? Su questi stracci. Sono andata a fare la doccia, ma non stavo tranquilla. Esco allora tutta bagnata e mi accorgo che il mucchio di stracci è sparito e che il soldato li sta mettendo nelle stufe con il bambino perché non si è accorto che c'era». Anton in realtà muore l'11 gennaio, ma sarebbe stato peggio se fosse morto nella stufa e questo per Marija è di grande conforto. Il 13 aprile 1944 morirà anche Ivan, il primogenito, «magro come un coniglietto» che non riuscirà a riprendersi dalle sofferenze di Arbe e Gonars, ma che negli ultimi due giorni di vita terrà sempre gli occhi aperti nel vano tentativo di vincere la morte «e nelle mie orecchie ci sarà sempre quel miagolio di Ivan che non voleva lasciarci». Chi invece riuscirà a sopravvivere sarà Herman, che a Gonars verrà salvato da una sua parente che lo riconosce tra i corpicini dei bimbi morti esposti in una tenda. Lo veste. Gli dà da mangiare e lo scalda sul suo corpo come facevano le mamme per asciugare i pannolini bagnati dei loro bambini. Se non ci fosse stato l'armistizio dell'8 settembre, dice Herman, saremmo morti a Gonars perché eravamo troppo debilitati, invece dopo l'8 settembre gli italiani sono scappati lasciando i campi vuoti e noi siamo ritornati a casa. Siamo andati a piedi fino a Opicina (una frazione di Trieste) e poi in treno a Rakek. I nostri partigiani ci hanno dato una minestra. Eravamo come straccioni. Il nostro paese era stato bruciato, abbiamo recuperato qualche avere che eravamo riusciti a nascondere in una grotta prima dell'arrivo dei soldati italiani e siamo andati lì vicino, a Podpreska, dove nei primi tempi abbiamo vissuto di accattonaggio, ma dove comunque siamo stati aiutati dalla gente del posto per ricominciare. Nel campo di Sdraussina - ribattezzato Poggio Terza Armata, ufficialmente carcere sussidiario - venne portato invece Miroslav Ozbolt, prelevato, assieme ad altri quattro ragazzi, una notte del 1942 nel suo paese di Volcja Draga, vicino a Nova Gorica, quando aveva appena 14 anni e mezzo, «perché mio fratello era partigiano. Sono stato portato prima a St. Peter e a Gorizia e da lì per 13 mesi a Sdraussina». Questo campo era nato in uno stabilimento tessile dismesso e venne usato come carcere e campo di smistamento per i civili sloveni deportati dalle zone occupate, ma anche per i cittadini italiani di lingua slovena della provincia di Gorizia. «Eravamo chiusi in 150 in questo edificio e sul tetto c'erano i carabinieri italiani che ci controllavano, quando una volta al giorno uscivamo in fila a prendere il rancio, una brodaglia con un po' di riso e una verza e un po' di pane. Per il resto eravamo sempre chiusi lì dentro. Avevo paura. Pensavo soltanto: che cosa succederà adesso? Una volta, siccome le finestre di questo caseggiato erano alte, mi arrampicai per pulirle. I carabinieri si accorsero e per punizione mi chiusero in cantina due giorni. La noia era la nostra compagna. Le ore non passavano mai. Mi ricordo che degli adulti con il pane masticato avevano costruito una scacchiera per giocare e poi, non so come, avevano fatto anche delle carte da gioco. Mia mamma che era rimasta al nostro paese, riuscì a mandarmi 200 lire che io persi giocando con loro. Poi un giorno, senza darmi spiegazioni, mi presero, ero già da nove mesi a Sdraussina, e mi portarono con il camion a Fossalon (vicino a Grado) e per due mesi fui rinchiuso in una stalla. Una volta alla settimana ci permettevano di lavarci, ma eravamo pieni di pidocchi. Di nuovo senza spiegazioni, venni riportato a Sdraussina». Anche Miroslav dopo l'8 settembre uscirà dal campo e con i più anziani raggiungerà Monfalcone dove li aspettavano i partigiani. Fino al termine della guerra Miroslav combatterà con loro, in un corpo speciale addestrato per attaccare i tedeschi e ritornerà a casa appena nel 1948. «Per tanto tempo non ho pensato a quel che mi era successo a Sdraussina e Fossalon perché ero impegnato a combattere, poi sono venute fuori le conseguenze, soprattutto la fame patita. Mia moglie sa quello che mi è successo, ma nel tempo ho imparato a stare zitto. Ai giovani non interessa questo. Non è la loro storia. È la mia». Mentre Janez è il tesoriere di questo passato che ricostruisce attraverso tutte le testimonianze che riesce a trovare, ha scritto infatti numerosi articoli e anche un opuscolo, Miroslav e Marija cercano di arginarlo, «anche perché», dice Marija, «ho sempre avuto una forza che mi ha aiutata ad andare avanti. Ho avuto altri cinque figli e comunque non puoi vivere sull'odio e star lì a rimuginare». Nel giugno del 1973 Italia e Jugoslavia hanno raggiunto un accordo per realizzare un sacrario a Gonars che raccoglie le spoglie di 453 jugoslavi morti durante la guerra nell'Italia settentrionale, mentre dal 1996 la Slovenia dà agli ex internati una pensione mensile di 50 euro. Il tempo di internamento di 14 mesi invece è stato monetizzato 2.900 euro. L'Italia, dal canto suo, invece, non ha mai avviato nessun procedimento giudiziario contro quegli italiani che si sono macchiati di tali crimini, né tanto meno ha risarcito gli ex internati. Mai un rappresentante dello Stato italiano ha presenziato.
Si ringraziano per la traduzione delle interviste Boris Gombac e Mia Righetti.
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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione |