Diario
Contro la volontà del suo governo, il console giapponese in Lituania Chiune Sugihara compilò migliaia di visti per consentire la fuga degli ebrei verso i Caraibi olandesi, attraverso l'Unione Sovietica e il porto di Kobe
Il giusto samurai
Paolo Stefanini
Il davanzale è coperto di coloratissimi origami, omaggi d'un pellegrinaggio continuo. Ogni giorno, in questa villetta bianca sulle colline di Kaunas, in Lituania, arrivano dal Sol Levante tra i quindici e i venti visitatori. Cercano una piccola casa in una via tranquilla d'un quartiere residenziale. Un edificio, annunciato da tre giovani ciliegi, che al principio degli anni Quaranta fu la sede del consolato giapponese nel Paese baltico. La cercano perché qui si sono incontrate due storie. Quella mondiale, in quei giorni tanto sudicia di sangue, e quella privata del console nipponico Chiune Sugihara. Un uomo che non si nascose dietro l'alibi degli ordini superiori e salvò migliaia di persone. Disobbedì al governo di Tokyo e riuscì a strappare alla Shoah seimila ebrei. O forse - dicono stime più generose - diecimila. E lo fece utilizzando l'unico mezzo che aveva a disposizione: firmò, con diligenza maniacale, migliaia di visti di transito. Tutto iniziò con una calca di disperati fuori dal consolato, nel luglio del 1940. Kaunas (all'epoca chiamata anche Kovno) era la capitale provvisoria della Lituania dal 1920, quando la Polonia si era impossessata militarmente di Vilnius. Ed era una città con una forte presenza ebraica: una comunità composta da oltre 40 mila persone, un quarto della popolazione urbana. Così, fin dal settembre del 1939, vi avevano cercato e trovato rifugio molti ebrei polacchi, in fuga dall' occupazione nazista. Ma dal 15 giugno tutto era cambiato: la breve esperienza della Lituania indipendente - durata poco più d'un ventennio - era stata spazzata via dall'invasione dell'Armata rossa. I sovietici, che in base ai protocolli segreti del patto Molotov-Ribbentrop avevano occupato i tre giovani Stati baltici, iniziarono con l'abolire le fiorenti istituzioni ebraiche e inaugurarono una fase di terrore politico e di sovietizzazione forzata, che avrebbe portato il 4 agosto all'annessione vera e propria. Per i profughi ebrei polacchi non trovare subito una via di fuga voleva dire essere costretti ad assumere la cittadinanza dell'Urss e, di conseguenza, dimenticare per sempre la possibilità di emigrare altrove. Erano fuggiti verso Nord-Est attraverso l'unico corridoio aperto in un'Europa funestata dalla guerra. Ma quasi tutti avevano intenzione di proseguire, di raggiungere l'America o la Palestina. In seguito, per chi non riuscì ad andarsene, restare significò la morte. Nel 1941, dopo l'attacco tedesco all'Unione Sovietica, la Lituania cadde infatti nelle mani della Germania nazista e gli ebrei furono sistematicamente sterminati dalle forze hitleriane, con la complice partecipazione della popolazione locale, il cui tradizionale antisemitismo era stato nutrito dalla propaganda del Fronte di liberazione lituano, che accusava gli ebrei di aver favorito l'occupazione sovietica, dando credito alle antiche calunnie sul giudeo-comunismo. Quel giorno di luglio del 1940, a ogni modo, Sugihara fu richiamato da un insolito vociare. A rammentare le emozioni di quella mattina sono le pagine del diario di memorie della moglie del console, Yukiko. Una fonte mai tradotta in italiano - indispensabile per conoscere la personalità dell'unico giapponese considerato «Giusto tra le Nazioni» dal governo israeliano e debitamente onorato allo Yad Vashem di Gerusalemme. «Mio marito aveva un'imperturbabile routine», scrive Yukiko. «Subito dopo colazione scendeva nel suo studio al piano terra, per riapparire puntuale all'ora di pranzo. Non tornava mai in casa durante le ore d'ufficio, per nessuna ragione. Ma quel giorno le sue abitudini cambiarono; per sempre. Non erano passati nemmeno dieci minuti, quando lo sentii risalire e lo vidi entrare agitato. "Guarda dalla finestra", gridò, scansando un po' la tenda per permettermi di vedere. Di fronte al consolato - a casa nostra - c'era un'incredibile folla. Dovevano essere almeno duecento persone. E altri stavano arrivando. Era una cosa straordinaria, perché quella via periferica era sempre vuota e tranquilla. La gente sembrava impaurita e disperata e la situazione diventò all'improvviso caotica. Le voci si alzarono e qualcuno cominciò a scavalcare il cancello e le recinzioni». Come Sugihara seppe poco dopo - scendendo in cortile e cercando di capire il motivo di quell'assembramento - si era diffusa la voce che ormai era lui l'unico uomo in grado di permettere agli ebrei in fuga di lasciare la Lituania. La Gran Bretagna, a cui la guerra stava andando malissimo, non era sembrata più di tanto sensibile alla questione ebraica. Un vecchio rapporto governativo del 17 maggio del 1939 limitava a 15 mila all'anno gli ingressi di ebrei nel suo mandato di Palestina. E così, il delegato britannico a Kaunas, prima di fare le valigie a causa dell'invasione sovietica, emise non più di 700 certificati d'accesso al territorio palestinese, quasi tutti a rabbini, giovani sionisti e membri di altri gruppi organizzati. Anche gli Stati Uniti, che restavano fuori dal conflitto (l'attacco nipponico a Pearl Harbour avverrà un anno e mezzo dopo, il 7 dicembre del 1941) si dimostrarono colpevolmente indifferenti. Facendosi forte della legge sull'immigrazione del 1924, che stabiliva in maniera rigorosa le quote d'ingresso sul territorio americano (per il 1940 era previsto il rilascio d'un massimo di 6.524 visti ai cittadini di nazionalità polacca), il console statunitense a Kaunas concesse il lasciapassare solo a 55 ebrei polacchi. Poi anche quella rappresentanza diplomatica chiuse, lasciando una Lituania non più indipendente e i profughi alloro destino. L'unica strada rimasta aperta era un mezzo giro del mondo, che avrebbe dovuto portare i fuggitivi in salvo ai Caraibi. Nonostante la proclamata neutralità, l'Olanda era caduta sotto il giogo nazista, invasa dalla Wehrmacht nel maggio del 1940, all'inizio della campagna di Francia. Ma rimanevano libere alcune sue lontane colonie. L.P.J. de Decker, l'ambasciatore del governo in esilio dei Paesi Bassi per i tre Stati baltici, dal suo ufficio di Riga, in Lettonia, autorizzò il console onorario a Kaunas, l'imprenditore Jan Zwartendijk (anche lui «Giusto tra le Nazioni» dal 1997, vent'anni dopo la morte), a rilasciare dei permessi a tutti coloro che ne facessero richiesta e avessero i mezzi per pagarli. Quei permessi non erano dei veri e propri visti, ma dei documenti da presentare ai governatori di Curaçao (nelle Antille) e della Guyana olandese (l'attuale Suriname, indipendente dal 1975). L'unico modo per raggiungere quelle terre remote - con l'Europa infiammata dal conflitto - era però attraversare la Siberia, raggiungere il Giappone e da là imbarcarsi sul Pacifico. L'Unione Sovietica dette l'assenso al trasferimento sul suo territorio, ma a una sola condizione: tutti i profughi dovevano essere in possesso di un visto di transito giapponese. E qui inizia la storia di Chiune Sugihara. Il console non si trovava a Kaunas per casa. Era una degli uomini più brillanti dell'intero corpo diplomatico nipponico, con alle spalle grandi esperienze maturate in Manciuria. L'intelligence di Tokyo aveva intuito, alla vigilia della guerra, che la Lituania poteva essere il luogo cardine per ottenere informazioni privilegiate sia sulle mosse tedesche che su quelle sovietiche. E nel marzo del 1939 Sugihara, considerato la persona più adatta a svolgere un ruolo tanto delicato, venne spostato a Kaunas dal consolato di Helsinki, in Finlandia, dove lavorava da qualche mese. La persona che si trovò davanti alla porta centinaia di ebrei in coda per un visto non era dunque uno sconosciuto burocrate parcheggiato in un consolato di second'ordine, ma un uomo chiave. Un funzionario di quelli tenuti in più alta considerazione dall'Impero giapponese, e che, per formazione e ascendenza familiare (veniva da una dinastia di samurai, la classe della nobiltà guerriera), dava un'importanza quasi religiosa alla disciplina e al rispetto degli ordini. Il console si rese subito conto che la richiesta di quella gente presentava più di un aspetto problematico. Nel novembre del 1936 il Giappone aveva firmato con la Germania il patto anti-Comintern, e il rilascio dei visti poteva apparire un gesto ostile nei confronti dei tedeschi e della loro politica antisemita. E poi i permessi di transito richiesti non erano alcune decine, ma addirittura migliaia, come confermò il portavoce dei profughi, Zorach Warhaftig (che fu uno dei salvati, e in seguito sarebbe diventato ministro in Israele). Infine, i sovietici insistevano perché tutti i consolati e le ambasciate straniere chiudessero, visto che la Lituania - occupata - non era più uno Stato indipendente. Anche la rappresentanza diplomatica giapponese doveva abbandonare il Paese di lì a pochi giorni, entro la prima settimana d'agosto. Sugihara prese tempo. Disse che avrebbe dovuto chiedere l'autorizzazione al proprio ministero degli Esteri. E così fece. Per tre volte provò a ottenere il permesso. E per tre volte Tokyo inviò recisi telegrammi di rifiuto. No. I visti dovevano essere rilasciati solo a persone con determinati requisiti, e la gran parte degli ebrei polacchi non erano in grado di soddisfarli. A quel punto il console si trovò di fronte a una decisione estremamente difficile. E la risposta che dette al conflitto tra gli ordini della coscienza e quelli dei superiori è scritta oggi all'ingresso dell'ex consolato giapponese di Kaunas, in lettere bianche su uno sfondo nero lavagna: «Ho disobbedito al mio governo. È vero. Ma facendo il contrario avrei disobbedito a Dio». Dal 31 luglio iniziarono quattro settimane di febbrile compilazione dei visti, a un ritmo che raggiunse i trecento al giorno. Era un lavoro estenuante perché ogni documento consisteva in tre lunghi paragrafi manoscritti, in più timbri e firme. Sugihara finì per impegnare quotidianamente fino a diciotto ore. «Arrivava alla sera esausto», scrive la moglie Yukiko. «Il braccio era completamente indolenzito e io dovevo massaggiargli a lungo la mano, mentre si addormentava senza neanche aver finito la cena». «E poi», aggiunge, «mio marito sapeva che stava rischiando non solo la carriera ma anche la vita. Sua, mia, e dei nostri tre bambini. Però mi ripeteva spesso la stessa frase, una frase semplice: "Umanamente, credo che sia la scelta giusta"». Nella prima fase di quest'opera disperata Sugihara seguì in pieno le procedure. Teneva un colloquio al richiedente e registrava tutti i visti rilasciati. Ma a quota 2.139 semplificò la prassi, che prendeva troppo tempo, e iniziò a rilasciare i documenti senza più registrarli (è questo uno dei motivi per cui non si conosce il numero esatto dei salvati, e le stime vanno dai sei ai diecimila. La moglie del console scrive apertamente, sul suo diario, che il marito «a un certo punto, aveva del tutto perso il conto». Molti bambini, poi, erano segnati sul passaporto dei genitori, e pur non avendo un visto personale devono la vita al coraggio del diplomatico giapponese). Le ore stringevano. Sugihara riuscì a non chiudere il consolato entro la prima settimana di agosto, come chiedevano le autorità sovietiche. Insisté e ottenne una proroga fino alla fine del mese. Quando il 28 agosto fu costretto a lasciare la sede di via Vaizganto, proseguì per altri quattro giorni a compilare visti in una stanza dell'hotel Metropolis, nel centro di Kaunas. Gli ultimissimi li rilasciò dal finestrino, in stazione, aspettando che il treno diretto a Praga (via Berlino) partisse. A quel punto consegnò il timbro consolare a un profugo ebreo, affinché continuasse l'opera, producendo dei falsi. E già altre due matrici erano state prodotte pare col consenso di Sugihara - dal tenente Leszek Daszkiewicz, un ufficiale dell'intelligence polacca attivo in Lituania. Chi era riuscito a ottenere il documento non tardava un momento di più, iniziando subito le pratiche per il visto d'uscita dall'Unione Sovietica. Purtroppo, però, se lo videro rilasciare solo gli ebrei di nazionalità polacca. Sempre più ebrei lituani erano determinati ad andarsene, coscienti che la situazione stava precipitando. Ma Mosca li considerava ormai cittadini dell'Urss, e impedì la loro partenza, di fatto condannandoli a morte. Meno di un anno dopo, il 22 giugno del 1941, i partigiani lituani, ebbri di vendetta, accoglievano come liberatori i nazisti, festeggiando la capitolazione sovietica con un pogrom (il primo di una efferata serie, grondante un odio vecchio di generazioni) che in meno di dodici ore costò la vita a oltre 3.800 ebrei di Kaunas. Tre giorni dopo i tedeschi entrarono in città, inaugurando un periodo di rastrellamenti, deportazioni (il Nono Forte, una vecchia rocca zarista alla periferia della città, fu trasformato in campo di sterminio), fucilazioni di massa, che si concluse con la definitiva liquidazione del ghetto l'8 luglio del 1944. (Prima della guerra la Lituania aveva una popolazione ebraica di 160 mila persone – il 7 per cento del totale -, divenute 250 mila con l'arrivo dei profughi dalla Polonia occupata. Sopravvissero alla Shoah in meno di 25 mila. Novantuno ebrei ogni cento vennero uccisi; una delle più alte percentuali di tutta l'Europa dell'Est). Gli ebrei polacchi che avevano sul passaporto tutti i visti necessari (olandese, giapponese e sovietico) riuscirono invece a lasciare in tempo la Lituania, via Mosca (dove riempirono in più ondate l'hotel Novo Moskovskaia). I sovietici non fecero molto per agevolarne la fuga. In quanto stranieri, il biglietto per la linea Transiberiana non veniva venduto ai profughi al prezzo base ma - attraverso la compagnia statale Intourist - al prezzo riservato ai turisti: ben 200 dollari. Gli ufficiali di frontiera, poi, requisirono tutti i soldi e gli oggetti di valore agli ebrei al momento dell'imbarco a Vladivostok. E una volta raggiunto il porto di Kobe, in Giappone, si presentarono nuovi problemi. Molti visti non erano stati registrati; Sugihara infatti si era fermato a 2.139. Per non parlare dei documenti falsificati dopo la sua partenza. Nessuno in Lituania sapeva leggere i caratteri dell'alfabeto katakana giapponese, e il testo veniva copiato ciecamente, senza sapere cosa ci fosse scritto. Così un giorno si presentò alla dogana un gruppo di trenta Jakub Goldberg. Nel contraffare avevano maldestramente copiato in maniera identica anche la traslitterazione di nome e cognome. Furono mandati indietro, ma una volta raggiunto il porto sovietico di Nakhodka vennero respinti di nuovo, perché non avevano un visto per rientrare in Unione Sovietica. E finirono per fare la spola in mare per oltre un mese, di espulsione in espulsione, finché il Giappone non si decise ad accettarli. Nessuno degli ebrei polacchi raggiunse mai i possedimenti olandesi nei Caraibi. Circa cinquecento ottennero, prima che il Giappone entrasse in guerra con gli Stati Uniti, il visto americano. Gli altri - a dispetto del permesso di transito valido solo dieci giorni - rimasero a lungo in un campo profughi a Kobe. Ma poiché il porto era sede di una base militare altamente strategica, all'approssimarsi dell'entrata del Giappone nel conflitto mondiale furono deportati, nell' ottobre del 1941, a Shanghai, nella Cina sottoposta all'occupazione nipponica, dove si unirono, in un ghetto improvvisato, a circa 17 mila ebrei tedeschi e austriaci fuggiti nel 1938 per trovare rifugio nel lontano porto asiatico. E lì rimasero in tutta sicurezza fino alla fine della guerra. Oggi sono almeno 40 mila - tra figli, nipoti e pronipoti dei sopravvissuti - quelli che devono la vita a Chiune Sugihara. Centomila, se si considerano anche le parentele meno strette, come fa la Visas for Life Foundation, un'associazione istituita nel 1997 dal maggiore dei figli del console, Hiroki, con sede a San Francisco, negli Stati Uniti. Ma anche la Lituania, dopo anni di vuoto di memoria, ricorda adesso degnamente Sugihara, col museo sistemato dal dicembre del 1999 nelle stanze dell'ex consolato e gestito dalla Fondazione Diplomats for Life, presieduta da Simonas Dovidavicius, l'organizzatore della piccola, superstite, comunità ebraica locale. Ogni anno arrivano tra i sei e settemila giapponesi a rendere omaggio al console. Circa mille ebrei, soprattutto dagli Stati Uniti, qualche centinaio di europei, in gran parte olandesi e tedeschi. Pochi, purtroppo, i visitatori lituani, in un Paese che ancora vive un preoccupante tasso d'antisemitismo e sconta il rimosso sovietico della Shoah; un argomento tabù sotto il passato regime. I sovietici, oltre a negare la memoria della sua impresa (anche e soprattutto perché ricordava i tempi della Lituania indipendente), nel 1945, alla fine della guerra, imprigionarono Sugihara. Dopo Praga era stato trasferito in Prussia, a Koninsberg (l'attuale Kaliningrad) per aprire un consolato. E da lì a Bucarest, in Romania, dove fu arrestato dall'Armata rossa, insieme alla moglie, in quanto diplomatico di un Paese sconfitto dell'Asse. I coniugi Sugihara furono rilasciati diciotto mesi dopo e tornarono in Giappone. Ma il console non venne accolto da eroe, anzi: fu costretto senza troppe cerimonie alle dimissioni il 7 giugno del 1947. Dopo quasi sessant'anni di silenzio, il ministero degli Esteri giapponese ha preso posizione solo nel marzo del 2006. Tokyo ha negato che l'allontanamento forzato di Sugihara dalla vita diplomatica fosse stato un provvedimento punitivo, sostenendo che si sarebbe trattato solo di un normale avvicendamento. Uno dei tanti attuati dopo la guerra per far pulizia di quei funzionari direttamente coinvolti nella gestione del Paese nel periodo bellico. In ogni caso, Sugihara - che in precedenza era stato anche viceministro del dipartimento Affari esteri e sembrava poter ambire addirittura al ministero - rimase senza lavoro e campò grazie alla conoscenza dell'inglese e del russo, lavorando prima come traduttore, poi come rappresentante di una ditta giapponese a Mosca, facendosi chiamare Sempo Sugiwara; pseudonimo ricavato dalla lettura cinese degli ideogrammi giapponesi del suo nome. Solo nel 1969, Yehishua Nishri, uno dei salvati, funzionario dell'ambasciata israeliana a Tokyo, riuscì a ritrovare il console e iniziò a riunire le testimonianze degli altri profughi. E solo nel 1985, un anno prima della morte, Sugihara ha ricevuto il riconoscimento di «Giusto tra le Nazioni» dal governo israeliano. Ormai vecchio e malato (era nato all'alba del secolo, il primo gennaio del 1900, a Yaotsu, nella prefettura di Gifu) non poté andare a Gerusalemme di persona, e lo sostituirono la moglie e il figlio maggiore. Fino alla fine dei suoi giorni ha ripetuto di non sentirsi un eroe e di aver fatto quello che gli sembrava «umanamente corretto». E a chi gli chiedeva come aveva potuto un uomo come lui, educato nella più ferrea disciplina, disobbedire in maniera tanto eclatante agli ordini, rispondeva citando un proverbio samurai: «Nemmeno il più spietato dei cacciatori uccide un uccello, se questo vola sulla sua spalla in cerca d'aiuto».
©diario
della settimana |
Via
Melzo, 9 - 20129 Milano - Tel. 02 2771181 - Fax 02 2046261 |
Internet: http://www.diario.it/ - Email: redazione@diario.it |
da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione |