Diario
Molti si salvarono perché furono nascosti dai frati e dai preti di Roma. Resta però senza editore l'altra metà della verità...
Non solo eroismi. C'era anche chi non voleva accogliere i «perfidi giudei». O chi chiedeva soldi
Ebrei in convento
Paolo Affatato
Ortensio è un frate pittore. La sua curiosa bottega, in una soffitta del convento di san Bonaventura, sul colle Palatino a Roma, è un colorato miscuglio di tavolozze, tele, cornici, oggetti per «nature morte», antiche stampe e fotografie. Ha 88 anni e da sempre ha messo il suo talento a servizio della buona causa di cui è servitore, la missione dei seguaci del Poverello di Assisi. Ma quel sottotetto con travi a vista, quelle mura umide e restaurate alla buona, quelle porte di legno stagionato conservano storie che hanno segnato la vita della piccola comunità francescana del Palatino. Storie di rifugiati, di sopravvissuti, storie di persone disperate, marchiate e ricercate per motivi razziali: perché di famiglia ebrea, per la sola colpa di credere in Jahvè. Aprire lo scrigno dei ricordi che risalgono a sessant'anni fa non è facile, ma la giovialità e la semplicità di fra Ortensio - sguardo sornione, grembiule blu, voce profonda riescono pian piano ad aprire un porticina sul passato lontano. E a riesumare giorni difficili, tempi di guerra, quando la vita era appesa a un filo, quando la sopravvivenza era tutt'altro che scontata, quando si facevano i conti con la miseria, quando «un piatto di patate e cipolle era un lusso», quando «la precarietà era la regola per tutti e la fede nella Provvidenza era molto spiccata», dice il frate rievocando gli anni giovanili. La sua vita scorreva fra i conventi francescani di san Francesco a Ripa, san Lorenzo in Panisperna, poi san Bonaventura. Luoghi che, durante i rastrellamenti compiuti dai tedeschi nel 1943, non hanno esitato a nascondere gli ebrei romani, destinati alla deportazione. Perfino stampando documenti falsi o vestendo i rifugiati con il saio, l'abito sacro che si sperava avrebbe tolto ogni dubbio anche al soldato tedesco più accanito. Le case religiose che a Roma hanno dato accoglienza ai ricercati ebrei sono tante, a riprova di antichi gesti di amicizia e solidarietà che una storiografia sempre più corposa cerca di riscoprire, per restituire solide basi alle esperienze di dialogo ebraico-cristiano e rimuovere, una volta per tutte, pregiudizi reciproci e vetuste incomprensioni. Secondo una lista compilata con dovizia di particolari da padre Beato Ambord, furono 4.447 i credenti di religione ebraica rifugiati e salvati a Roma in 100 case religiose femminili, 45 maschili, 11 parrocchie. Nel complesso si calcola che la rete dei cattolici (che abbracciò tutta Roma: dalle grandi basiliche che godevano dell'extraterritorialità vaticana fino alle catacombe e ai privati cittadini) riuscì a salvare dalla deportazione l'80 per cento degli ebrei romani, vittime delle operazioni anti ebraiche lanciate dopo l'8 settembre da Herbert Kappler, capo della Gestapo cittadina. La Judenaktion ebbe il suo culmine con la razzia del ghetto compiuta il 16 ottobre 1943, quando le truppe tedesche circondarono e rastrellarono il territorio arrestando 1.259 ebrei. Tanti cercarono scampo in giro per la città e i francescani fecero la loro parte. Il superiore della comunità del Palatino, fra Illuminato Picuti, in men che non si dica decise di aprire le porte del convento, oggi un angolo di paradiso con vista sulle rovine dei fori imperiali, oasi di silenzio immersa nel verde, a pochi passi dal centro della metropoli. Le cronache narrano che una ventina di uomini furono nascosti nelle celle e camuffati da religiosi, pronti a svicolare nei sotterranei o nelle gallerie del convento, in caso di pericolo. Il racconto di fra Ortensio inizia proprio mostrando una botola oggi murata, pertugio che apriva un condotto segreto, approntato per dare agli ospiti una via di fuga da eventuali rastrellamenti dei militari nazisti. Gli sventurati avrebbero avuto l'ultima chance di salvezza, sbucando nella boscaglia che circondava il monastero, sulle pendici del colle dove oltre 2.700 anni prima Romolo aveva fondava il primo insediamento della città eterna. Erano chiusi là, nelle cellette del sottotetto, in un vita eremitica, custoditi dai frati che dissimulavano la vita normale dei religiosi, ritmata dal silenzio e dalla preghiera. Gli ebrei trovarono accoglienza e condivisione del pane in giorni di magra, ma trovarono soprattutto rispetto, dialogo, amicizia, in una piccola comunità che ha offerto una semplice testimonianza di amore al prossimo. Proprio in nome di quel Cristo che gli ebrei non hanno riconosciuto. «Gesù Cristo è morto per tutti, non ha fatto discriminazione di razza lingua o religione», argomenta Ortensio nella sua lucidità, cercando di spiegare perché i frati offrirono riparo a quanti erano ancora chiamati «perfidi giudei», e considerati autori del deicidio. Ben prima delle aperture del Concilio ecumenico vaticano II, ben prima di diventare, nelle parole di papa Wojtyla, i «fratelli maggiori». «Uno di loro», ricorda Ortensio, «era fabbro, aveva una ferramenta, un altro era commerciante, con un negozio di articoli sanitari in piazza della Rotonda. Accanto a lui il corniciaio di via della Scrofa... parlavano, pregavano, speravano di farcela. Dopo quella tragica esperienza hanno avuto nei nostri confronti un atteggiamento di eterna gratitudine. Credo che, in tal modo, abbiamo contribuito, nel nostro piccolo, al riavvicinamento fra ebrei e cristiani». Fra i rifugiati del Palatino - ricorda un altro frate, Lorenzo, anch'egli allora giovane francescano della comunità - c'erano anche figli di burocrati fascisti, come i fratelli Senise, figli del prefetto della capitale, Carmine, divenuto d'un tratto inviso al regime. Si ascoltavano le notizie alla radio, in trepidante attesa, per conoscere gli esiti della lotta dei partigiani a Roma. Le informazioni erano sparse e frammentarie, ma il passaparola funzionava. Si viveva nell'ansia di sentire il calcio dei fucili bussare contro il portone del convento, un rumore foriero di violenza e forse di una sanguinosa tragedia. Ma la Provvidenza, dicono i frati, ha disposto diversamente e gli ebrei del Palatino hanno avuto salva la vita. Sono rimasti in monastero fino alla liberazione di Roma, il 4 giugno 1944. Poi sono tornati alle loro vite, a ricomporre le loro famiglie, a ritrovare le loro tradizioni. Forti di una fede incrollabile. La stessa fede, e nello stesso Dio unico, che anima ancor oggi fra Ortensio, mentre sorride nel suo vestito macchiato di colori a olio. Non avrà l'eroismo di padre Ruffino Nicacci, suo noto confratello che trasformò Assisi in un immenso rifugio per gli ebrei, ed è oggi ricordato come «giusto fra le nazioni» allo Yad Vashem di Gerusalemme, il museo dedicato alla Shoah. In compagnia di molti altri religiosi, come suor Marcella Girelli, don Aldo Brunacci, la beata Maria Elisabetta Hesselblad, il frate cappuccino Benedetto Maria du Borg d'Irè. Non avrà, fra Ortensio, la stessa storia luminosa di martirio di Massimiliano Kolbe, che diede la vita in un campo di concentramento. Ma riesce ancor oggi, con poche pennellate, a ridipingere un quadro dimenticato di storia francescana, fatta di «fede diritta, speranza certa, carità perfetta». C'è un pericolo, però: che la vicenda degli ebrei rifugiatisi nelle case religiose di Roma resti solo un quadretto oleografico, in cui «i preti e le suore dall'animo buono salvarono i poveri perseguitati». Una storiografia convenzionale e compiacente, spesso di marca confessionale, ha cercato di far risaltare, in stile quasi agiografico, l'eroismo di tanti religiosi che hanno rischiato la loro vita per difendere i fuggiaschi. In risposta, fra l'altro, a un tentativo, di segno opposto, di screditare Pio XII e la Chiesa tutta, accusata da alcuni di indifferenza verso la tragedia della Shoah. La verità, come accade sempre, è nel mezzo: quando si tenta una ricostruzione più fedele dei fatti, emergono dei chiaroscuri, soprattutto grazie alle testimonianze dirette di quanti hanno vissuto sulla loro pelle la triste esperienza del rastrellamento, della fuga, della ricerca disperata di aiuto. Alessia Falifigli è una giovane storica romana. Ha 31 anni e alla vicenda degli ebrei romani ha dedicato uno studio che, da tesi universitaria, è diventato il libro Salvàti dai conventi, pubblicato nel 2005 dalla casa editrice cattolica San Paolo. Il suo paziente censimento e le sue interviste a preti e suore che accolsero gli ebrei ha contribuito a rivelare nuovi particolari, specialmente perché ha fatto venire a galla il vissuto dei protagonisti. Ma non le è bastato. Un anno fa, la giovane studiosa ha cercato di scoprire «l'altra faccia della luna» narrando la medesima storia a partire dal punto di vista dei salvati: andando cioè a spulciare gli elenchi e rintracciare i sopravvissuti ebrei che allora trovarono riparo fra le mura dei monasteri. Dalla sua analisi emergono nuovi scenari, non sempre coincidenti con il raccontino idilliaco, o non sempre coerenti con la descrizione tutta rose e fiori venuta dai religiosi. Edulcorare la memoria, purgandola degli aspetti più inquietanti, può essere un'operazione magari fatta in buona fede, ma che non va d'accordo con il lavoro dello storico. Già alcuni tratti spigolosi avevano fatto capolino: l'esistenza di frati e suore contrari ad accogliere gli ebrei, perché pregni di un'opinione corrente che certo non li considerava immacolati. Alcuni minacciarono perfino di denunciare alla polizia la presenza dei rifugiati, ritenendo forse un sacrilegio condividere la vita quotidiana, le preghiere, il pasto con i «perfidi giudei». Padre Luigi Nobili, nella parrocchia di san Gioacchino in Prati, non voleva accettare in casa «estranei così compromettenti». Alla fine si decise di murarli nella soffitta, dove rimasero sette mesi, per proteggerli, certo, ma anche per farli sparire del tutto dalla circolazione. Anche a san Bonaventura al Palatino alcuni frati non erano troppo contenti dell'improvviso arrivo degli ospiti, a riprova di una scelta che fu spesso controversa e causò discordie all'interno delle comunità religiose. La medaglia, racconta la Falifigli, ha due facce: se sul piano umano prevalse lo slancio umanitario di aiutare creature di Dio in estrema difficoltà, quando si passava a considerare il piano religioso le riserve erano dure a morire. Ed ecco che, scavando fra i testimoni (la Falifigli ne ha sentiti almeno 50), si ritrovano risvolti inediti, finora rimasti sotto la cenere, che la storiografia cattolica sembra abbia preferito tralasciare: vi furono tentativi di proselitismo, cioè di convertire gli ebrei accolti, anche bambini. La testimonianza di Bellina di Porto è esemplare. Si nascose con sua madre e tre sorelle nel convento delle suore Mariane, in via Aurelio Saffì, grazie alle indicazioni di un amico cattolico. Ricevette un trattamento che ancora oggi definisce «cordiale e benevolo», ma, sfogliando l'album della memoria, ricorda anche tentativi, sottili o a volte pressanti, di convincerla ad abbracciare il cristianesimo. «Se non vi convertite vi aspetta l'inferno», avrebbe gridato qualche religiosa, terrorizzando i bambini ebrei. Ma con scarsi risultati. Tant'è che un giorno Bellina ebbe una reazione quasi piccata, dicendo a chiare lettere: «Sono nata ebrea e voglio morire ebrea», mostrando, già in tenera età, una forte convinzione e una marcata identità con il culto di Jahvè. «Perché mia madre mi aveva insegnato», spiega, «ad amare la mia religione e rispettare quella altrui». La scrittrice Lia Levi, nascosta in un altro convento con due sorelle, ricorda pressioni più morbide, con frasi sibilline: «Nessuno ci chiese esplicitamente di convertirci, ma l'atmosfera creava in noi dei dubbi. Le suore ci dicevano che nella vita c'è sempre un'occasione in cui si viene a contatto con la verità. Pensavo che quella fosse la mia occasione, ho avuto una spaventosa crisi di identità». Una conferma viene anche da suor Grazia Loparco, docente di Storia della Chiesa alla facoltà pontificia Auxilium: la religiosa ammette che a Roma si verificarono casi di richiesta di battesimo ad adulti, giovani e, anche se in rari casi, a bambini, spiegando che «rientrava nella mentalità dell'epoca, legata al principio extra ecclesia nulla salus». Sono storie che ricordano la polemica sui bambini strappati dalla Chiesa alla furia nazista e poi battezzati, come raccontano testimonianze raccolte in tutta Europa. La temperie culturale del tempo considerava i cattolici «giusti» e gli ebrei «autori di mille nefandezze», sottolinea la Falifigli, e alcuni atteggiamenti sono perciò da contestualizzare. Alcuni ebrei dicono di aver ricevuto «porte in faccia» dai conventi a cui bussarono (magari perché già pieni), mentre altra questione delicata è quella relativa alla retta pagata per l'ospitalità ricevuta, che dunque non fu sempre del tutto gratis et amore Dei. «Pagammo cento lire al giorno per tutta la famiglia», ricorda Bellina di Porto, e altre esperienze testimoniano che agli ebrei fu chiesto di contribuire, con il denaro o con il lavoro, soprattutto perché anche nei conventi non si navigava nell'oro. Gli ospiti furono perciò coinvolti nella gestione della casa, lavorando alla cucina, nella pulizia, in sartoria o nel giardinaggio. La mole di dati e informazioni raccolte dalla Falifigli restituisce, dunque, un quadro complesso e sfaccettato. Racconta dell'atmosfera che si viveva nel ghetto di Roma anche prima del 16 ottobre. E del perché gli ebrei romani accolsero la notizia del rastrellamento o subirono la deportazione con atteggiamento quasi rassegnato. Senza ascoltare le esortazioni alla fuga, considerate allarmistiche, dell'allora rabbino capo Israele Zoller, che pochi anni dopo divenne Eugenio Zolli, il primo rabbino convertito al cristianesimo, macchia indelebile sulla comunità ebraica romana. Oppure senza sfruttare l'aiuto inatteso di Michele Bolgia, un impiegato delle ferrovie che, alla stazione Tiburtina, mentre i convogli carichi di umanità erano fermi sui binari, in partenza per Auschwitz, riuscì a rimuovere le saldature a piombo che chiudevano i vagoni, offrendo un'ultima possibilità di scampo. Sta di fatto che la ricerca della Falifigli è ancora chiusa in un cassetto. L’editoria cattolica ha nicchiato poiché, evidentemente, non ha gradito alcune semplici verità riconsegnate dall'indagine. Ma la speranza di vederle divulgate al grande pubblico non è sepolta, visto il recente interessamento della «Casa della memoria» legata all'Associazione nazionale dei partigiani. Il mosaico si arricchirebbe di alcune tessere mancanti, che potrebbero mettere a fuoco un'immagine tuttora incompleta. Senza paura della verità.
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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione |