Diario

Gli ebrei libici accolsero con entusiasmo Mussolini quando visitò Bengasi. Per loro si aprirono dopo le porte del campo di concentramento di Giado dove in seicento morirono. Altri furono deportati in Italia o in Germania

Ebrei d'Africa, storia sepolta

 

Eric Salerno

 

Nella valle delle Comunità scomparse, un angolo appartato del memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme, una gelida parete di cemento bianco ricorda le comunità ebraiche africane nel loro insieme, i nomi dei Paesi che le ospitavano fino a qualche anno fa, elencati in ordine alfabetico. È un'addizione relativamente recente al complesso dedicato alle vittime dell'Olocausto. Non ci può essere paragone tra quello che accadde alle comunità ebraiche in Nord Africa - Marocco, Algeria, Tunisia e Libia - e lo scempio compiuto in Europa. I nazisti non ebbero tempo sufficiente per completare la loro opera di distruzione, per allargarla come avrebbero voluto, ma dall'analisi dei documenti emersi dopo la guerra da decine di archivi e dalle testimonianze orali dei sopravvissuti risulta chiaramente la loro volontà di andare avanti, non soltanto in Europa ma anche altrove. Nel 1979 pubblicai Genocidio in Libia: le atrocità nascoste dell'avventura coloniale italiana (1911-1931), frutto di una ricerca negli archivi italiani e sul campo, in Libia. È emerso un quadro nero della storia italiana: esecuzioni sommarie, bom­bardamenti con gas (le nostre «armi di distruzione di massa») della popolazione civile in Cirenaica, campi di concentramento dai quali uscì viva una percentuale spaventosamente bassa degli internati. Negli ultimi anni, durante la mia lunga permanenza in Israele come corrispondente, nel corso di altri viaggi in Libia e parlando in Italia con molti esuli, sono riuscito a ricostruire un altro episodio della storia coloniale e fascista italiana. Questi sono alcuni dei documenti rintracciati, testimonianze raccolte e pagine di appunti di viaggio. Faranno parte di un altro volume sulle atrocità italiane che cominciarono con l'introduzione delle leggi razziali anche in Libia. Il 12 maggio 1942, il console tedesco a Tripoli, Walter, scriveva all'ambasciata tedesca a Roma per raccontare in poche parole gli sviluppi della situazione in Libia dove infuriava la guerra e il fronte sulle rive del Mediterraneo, dalla Sirte all'Egitto con Bengasi al centro, andava avanti e indietro. Un tormento sanguinoso, quel fronte che si spostava agitandosi come un ventaglio, lasciando a ogni passaggio invece di un soffio d'aria fresca, morti e feriti e prigionieri. Gli inglesi erano riusciti ad arrivare a Bengasi e una parte della popolazione rimasta nella città in riva al Mediterraneo nonostante le bombe e la paura aveva gioito. Non tanto i musulmani, abituati a vedere eserciti stranieri andare e venire, e non certo gli italiani bloccati nella capitale della Cirenaica, ma una parte degli ebrei libici. Alcuni avevano saputo da viaggiatori venuti dall'Europa, dalle poche lettere recapitate con difficoltà, quello che stava accadendo nel vecchio continente. E, poi, con i britannici combatteva la brigata ebraica, le truppe della Palestina, ebrei come loro, sionisti come molti di loro erano o stavano diventando. La loro felicità, però, durò poco. Il 3 aprile 1941 Bengasi venne rioccupata dagli italiani. Il pendolo si era bruscamente spostato. E quattro mesi dopo, sbarcò l'Afrika Korps al comando di Rommel «volpe del deserto», lo chiamavano, ma i suoi panzer, la sua brillante tecnica poco ortodossa non furono sufficienti per bloccare l'operazione Crusader, la nuova spinta degli Alleati, e a capodanno la linea del confronto era tornata ancora una volta a el Agheila. Si sarebbe spostata ancora. Quella del console era una nota informativa come tante altre, che conferma la collaborazione tra nazisti e fascisti non soltanto in campo strettamente militare. «Dopo la ritirata degli inglesi abbiamo affrontato per la prima volta il problema ebraico, anzitutto in Cirenaica. Come è stato riferito nel precedente resoconto, è stato deciso dopo la ritirata degli inglesi dalla Cirenaica, che in seno all'accordo sui nativi, bisognerebbe concentrare tutti gli ebrei residenti della Cirenaica in un campo di concentramento in Tripolitania. Questa decisione è stata presa dopo l'annullamento del piano di trasferimento di questi ebrei in Italia». Pochi giorni più tardi, il 19 maggio, con un'altra nota il console volle precisare gli intenti suoi, del suo governo e del regime fascista: «La soluzione per gli ebrei in Tripolitania è assai più difficile. Anzitutto sono più numerosi; in secondo luogo il loro potere economico è notevolmente maggiore. La concentrazione di questi ebrei potrebbe provocare una crisi economica creando una situazione intollerabile. Perciò abbiamo deciso per il momento d'evitare l'esecuzione del piano di trasferimento degli ebrei tripolitani in Italia... Comunque, non vi è dubbio che al momento giusto il problema degli ebrei verrà regolato anche in Tripolitania». Ottobre 2004 - Giado, sull'altipiano a sud di Tripoli. Il filo spinato che circondava il perimetro del campo è scomparso da tempo, un bulldozer giallo, incrostato di sabbia, stava demolendo gli ultimi edifici, mattoni e pareti rossi come la terra. Restavano ricordi e fantasmi, mi assicurava l'anziano libico che mi guidava nella mia prima visita. Khalifa Massoud Eidoudi, passo svelto, stretta di mano forte, voce sicura come la memoria, anno di nascita 1914, raccontava: «All'inizio li portarono dalla Cirenaica, li accusavano di tradimento, di complottare con gli inglesi contro gli italiani e i tedeschi, poi arrivarono anche altri arabi yehudi». Arabi ebrei, li chiama. «Non toccarono gli ebrei di qua, non quelli dei villaggi sul Gebel. Gente come noi. Vestiti come noi. Parlavano come noi. Vivevano come noi. Molti ebrei della Cirenaica, però, furono mandati proprio nei villaggi dei dintorni, nelle caserme vicine alle altre comunità ebraiche, perché il campo di Giado non bastava a contenerli tutti. E forse c'erano anche altri motivi. Forse la gente, pagando qualcosa ai fascisti o a qualche capo degli ebrei, riusciva a evitare il campo e a farsi mandare presso altri ebrei. Non sono sicuro. Non ero qui, in quei mesi. Combattevo con gli italiani. Mio fratello fu ucciso a Sidi Barani. lo fui fatto prigioniero e rimasi quattro anni in un campo degli inglesi al Cairo. Quando sono tornato a casa, qui a Giado, gli ebrei non c'erano più. Le loro tracce erano rimaste giusto nel camposanto. Tombe fresche, la terra spostata la si riconosce dal colore, tante». Dovevano essere stati terribili quei lunghi mesi nel campo e non soltanto dal punto di vista materiale, delle condizioni di vita, delle malattie, delle angherie che comunque poco avevano a confronto con quello che negli stessi anni e negli stessi mesi stava succedendo nei campi allestiti dai nazisti in Europa. L'impatto psicologico per i più colti e abbienti degli ebrei trascinati fuori dalle loro case in Cirenaica e trasportati come bestiame sul Gebel doveva essere stato, invece, altrettanto pesante. Questi ebrei libici, che avevano guardato all'Italia come loro seconda, poi prima patria, che avevano imparato e insegnato l'italiano ai loro figli, che avevano tanto contribuito all'impresa coloniale, sposandola, che avevano in gran parte aderito al fascismo con lo stesso impegno di una parte della comunità ebraica italiana, si sentirono improvvisamente traditi. Quando Mussolini, il Duce, visitò Bengasi e una parte dell'hara, il ghetto, di Tripoli e anche Barce, fu accolto con ghirlande di fiori, con metri e metri di tappeti e stoffe pregiate distese nelle vie, con bambini e bambine inneggianti e plaudenti. Dalla Comunità di Tripoli, il leader dell'Italia fascista ebbe in dono una chanukkia d'oro massiccio. «A Benito Mussolini gli ebrei di Tripoli con profonda riconoscenza e devozione», era scritto sul tradizionale candelabro. Ho trovato negli archivi della comunità ebraica francese una lettera mandata a Parigi da quella tripolina per descrivere, con toni trionfalistici la visita di Mussolini e la sua accoglienza. Ma è sufficiente leggere quanto pubblicato su Israel, giornale della comunità, per capire quanto il rapporto con il Duce era considerato importante. «È opinione anche di personalità dello stesso seguito del Duce che l'accoglienza fatta dagli ebrei di Tripoli sia una fra le più importanti tributategli in questo trionfale viaggio nell'Africa italiana, il cui ricordo rimarrà vivo nella memoria della nostra popolazione. Tutti hanno avuto la sensazione che non solo una nuova era, ma una nuova storia incomincia per queste terre e per tutti i suoi abitanti, senza distinzione di razza e di religione. Alla nuova epoca di lavoro, di pace e di valorizzazione verrà impresso un ritmo ancora più celere e più intenso e gli ebrei della Libia contribuiranno con il loro ingegno e la loro attività a tale opera di civiltà e di progresso ed all'affermazione dell'Impero d'Italia nel Mediterraneo e nel mondo». Moshe Saban è nato a Bengasi nel 1930. Aveva dodici anni quando fu portato a Giado con i genitori dalla capitale della Cirenaica. Molte delle sue parole assomigliano a quelle di altri intervistati. Il viaggio da Bengasi, il tormento di quelle lunghe giornata di viaggio. Ricordi di allora ma anche memorie ricostruite negli anni successivi quando, come è normale, ci si scambia le esperienze con gli altri coetanei sopravvissuti e si cerca di dare un senso ciò che affiora dal passato. Come vi tenevate puliti nel campo? «Era terribile. È così che ci siamo ammalati, tutte quelle infezioni e il tifo. Ricordo di essermi tolto la maglietta e di aver visto le cimici, grandi la metà di una zanzara, che strisciavano sul mio corpo. La sera, verso le 19 quando cominciava a scendere il buio, eravamo costretti ad addormentarci. L'ufficiale entrava con una frusta e guai a chi continuava a parlare o faceva altri rumori. "Asini", "cani", gridava, sbraitava, in italiano. Bestemmiava. Andava da una baracca all'altra per controllare chi aveva la febbre e portava i malati in ospedale. Chi lasciava la famiglia e andava in ospedale sapeva che non sarebbe mai più tornato». Perché? Cosa succedeva? «Non venivano curati. Le loro vite erano finite». Hai visto i morti, i corpi trascinati via dall'ospedale? «Certo». Cosa facevano con i corpi? «C'era una montagna dove dicevano che una volta, tanti anni prima, c'era un cimitero ebraico. Qualcuno ha spaccato e spostato le pietre. Ha trovato il cadavere di un ebreo con la barba e i tallit (è l'indumento indossato per la preghiera, nda), e così cominciarono a seppellire i morti, nuovi, i nostri, nella stessa zona. Li seppellivano praticamente nella roccia, la terra non era sabbiosa, eravamo sulla montagna e la montagna era rocciosa, sassosa. Non era facile scavare le fosse. La gente lavorava un giorno intero e alla fine riusciva a seppellire dieci corpi. Dieci in un solo giorno, e la storia andava avanti così, giorno dopo giorno». Chi lo faceva, chi scavava, chi seppelliva i morti? «Volontari». Dal campo? «Certo, lo facevamo noi. Lo faceva chiunque fosse in grado di farlo. Chi non era malato, chi era ancora in forze». E Ofek, altro testimone, spiega con toni più drammatici. Quei momenti gli sono rimasti nella memoria, ogni particolare, e non nasconde la sua rabbia: «Una ventina di giorni prima della vittoria britannica, assistemmo a una giornata nera. lo ero in piedi in cima alla collina dell'ospedale nel campo e vidi molti ebrei raccolti intorno alla bandiera. Chiesi al comandante cosa stava succedendo e, con un tono tranquillo, come se fosse una sciocchezza, mi disse che sarebbe stata una brutta giornata per noi. Aveva ricevuto l'ordine di ucciderci tutti. Gli chiesi dei 480 malati in ospedale, tanti ce n'erano in quel momento, e disse che tutti sarebbero stati fatti scendere nello scantinato e bruciati. Cominciai a tremare. Sparati, bruciati! Abbiamo detto le nostre preghiere. Lasciai la collina e vidi un poliziotto tirare a rav Yosef Gezen. Il poliziotto aveva trascinato il rabbino Yosef, che era avvolto nel suo talit. E lo stava trascinando verso il centro del campo. Gridava: "Questo è il momento per uccidere. Non per pregare". Masse di ebrei stavano lì a piangere. Gli agenti di polizia, i soldati, stavano sui tetti con sguardi satanici sui loro volti. Erano pronti a ucciderci tutti, uomini, donne e bambini. Pregavano, si aspettavano di morire da un momento all'altro. È difficile per me discutere di questi momenti. Dalle otto alle undici siamo rimasti sotto il cielo, affamati, assetati e aspettavamo la morte... aspettavamo la telefonata di conferma dal comandante militare. Alle undici in punto il telefonò squillò. Eravamo salvi. Ordinò a tutti i soldati e guardiani di lasciare il campo immediatamente, di lasciarci stare, di non ucciderci. Ma non se ne andarono subito. Gli ufficiali del campo erano molto frustrati per come stavano andando le cose e ci ordinarono di spazzare il campo. Rav Gezin, uno dei rabbini, fu costretto a spazzare per terra con la sua barba. Credetemi, pulimmo per terra e ci guardavamo negli occhi per convincerci che eravamo ancora vivi». Quello che restava del campo di Giado (dopo la guerra, le baracche sono state utilizzate per una scuola per insegnanti) è stato completamente demolito. Al suo posto, di fronte a una vecchia fortezza turca e poi italiana, si è allargato il mercato e il posteggio delle auto, nell'attesa, forse, di costruire qualcosa di moderno. L'unico ricordo di quanto accadde sul Gebel in quegli anni di guerra è il cimitero, un vallone anonimo dove le tombe sono coperte da pietre e sterpi e, dopo la stagione invernale delle piogge, fiori gialli e viola. Duemilaseicento ebrei, più o meno, furono internati a Giado e di questi quasi seicento morirono per maltrattamenti, malattie, tifo e febbre tifoidea, fame. Uomini, donne e tanti bambini dei cui nomi, però, non esiste un elenco. Non furono le uniche vittime dell'Olocausto in terra libica. Cinquecento, ebrei libici, gente con passaporto anche britannico venuta nei secoli precedenti da Gibilterra e, dunque, considerati nemici dal regime fascista e «merce di scambio» dai suoi alleati nazisti, furono deportati in altri campi in Italia (Civitella del Tronto e Bagno) e in seguito a Bergen-Belsen e Biberach in Germania e un campo a lnnsbruck in Austria. Non tutti tornarono. Herzl Regginino, per nominarne uno soltanto, aveva otto anni all'epoca. Fu tra gli ebrei libici con passaporto britannico spediti a Bergen-Belsen. Ricorda il giorno in cui fu ucciso suo fratello. Era inverno, la temperatura sottozero.«l guardiani del campo lo spogliarono nudo e lo bagnarono con secchiate d'acqua. Morì congelato». Per troppi anni queste storie sono rimaste sepolte negli archivi e nella memoria di chi, per pudore o perché scoraggiato, le aveva accantonate. All'epoca del processo Eichman, una richiesta di inserire nell'atto d'accusa anche le sofferenze degli ebrei nordafricani fu respinta e soltanto negli ultimi anni i figli dei sopravvissuti hanno cominciato a parlare.

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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione

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