Diario

In tutta Europa prima dell'avvio dello sterminio nazista furono avviati piani di salvataggio collettivi di ebrei, ma abortirono tutti. Uno riguardò anche l'Italia, che non concesse i visti di espatrio a un gruppo di minorenni

Non lasciate che i bambini...

 

Liliana Picciotto

 

Durante il periodo bellico e prima che fosse avviato il vero e proprio piano di sterminio nazista, la cui datazione va fatta risalire all'autunno del 1941, furono sviluppati in tutta Europa progetti di salvataggio collettivi di ebrei, progetti purtroppo tutti abortiti. Uno di questi progetti, intrapreso nel giugno del 1942 riguardò anche l'Italia, e non andò a buon fine a causa dei dubbi e della lentezza da parte delle autorità italiane competenti nel prendere le necessarie decisioni che avrebbero richiesto rapidità e determinazione. Il progetto fu concepito dall'avvocato Hinko Gottlieb di Zagabria internato nel campo d'internamento italiano di Kralyevica in Albania: prevedeva di far partire in direzione del­la Turchia (per poi far passare in Palestina) un certo numero di bambini internati nel suo stesso campo. Il piano fu abbracciato dalla Delasem, la mitica organizzazione di soccorso ebraica nata nel seno dell'Unione delle comunità israelitiche italiane il 1 dicembre 1939, che tentò di agganciarvi anche ragazzi profughi o internati in territorio italiano vero e proprio. Gottlieb aveva coinvolto nella sua idea sia le Comunità ebraiche di Budapest e Zagabria, sia l'Unione del­le comunità israelitiche italiane per la sua competenza su parte del territorio albanese amministrato dalla Seconda armata italiana, principale autorità a poter decidere di eventuali rilasci dai campi di internamento locali. La Delasem, in quanto opera di soccorso in favore degli ebrei profughi e responsabile di tutto quanto il teatro italiano (e quindi anche jugoslavo e albanese dove c'erano territori di recente annessi all'Italia e territori solo occupati dall'esercito italiano) venne interessata della questione. A Istanbul era di stanza Haim Barlas, capo della missione locale dell'Agenzia ebraica, la rappresentanza istituita nel 1929 dagli ebrei palestinesi per dare voce alle loro istanze di fronte alle autorità britanniche, ai governi stranieri e alle organizzazioni internazionali. Lelio Vittorio Valobra, presidente della Delasem, aprì nel gennaio del 1943, tramite Barlas, un negoziato con il governo turco per l'accoglienza temporanea di fanciulli non solo provenienti da Kralyevica ma anche provenienti dall'internamento in Italia. Il 26 marzo 1943, Valobra finalmente ottenne il sospirato assenso al raccoglimento dei ragazzi a Istanbul: qualche centinaio di giovani al di sotto dei 16 anni poteva essere accolto provvisoriamente dalla Turchia, l'assenso riguardava non solo bambini ebrei croati o albanesi ma anche bambini ebrei internati in Italia. L'autorizzazione era stata ottenuta grazie ai buoni uffici di Barlas, che aveva convinto il governo turco a lasciare passare i giovani muniti di permesso di ingresso in Palestina. Tali permessi erano concessi con il contagocce dalla Gran Bretagna, allora potenza mandataria della Palestina, cioè una specie di governatorato temporaneo, ma senza scadenza prestabilita, affidato nel 1922 dalla Società delle nazioni ad alcune potenze coloniali su territori già appartenenti al crollato impero ottomano. L'Inghilterra, appunto, che teneva saldamente in mano le chiavi d'accesso dell'allora Palestina non desiderava alienarsi le simpatie degli arabi concedendo agli ebrei in fuga dal nazismo di emigrare verso la Terra promessa. La concessione, nel nostro caso, riguardava 600 bambini e circa 150 accompagnatori. La Delasem intraprese subito preparativi per un grande convoglio di ragazzi. Iniziò a redigere un elenco di volontari partecipanti all'impresa cercando tra gli internati rinchiusi in campi situati in Italia e nei territori annessi od occupati militarmente dall'Italia. Il centro per le iscrizioni fu fissato a Nonantola nella cui Villa Emma risiedeva già un folto gruppo di ragazzi senza genitori, giunto fortunosamente in Italia dalla Germania e dalla Jugoslavia. I ragazzi, guidati da Joseph Indig (le cui memorie sono state da poco pubblicate in Italia), erano rifugiati a Nonantola con il sostegno della Delasem. A metà giugno del 1943 si erano iscritti per partire verso la Turchia 313 ragazzi e sette accompagnatori, provenienti dal campo di internamento di Ferramonti di Tarsia in Calabria, dal centro di internamento dell'Aprica presso Sondrio, da Spalato e dalle isole di Hvar e di Korçula. Tra i ragazzi iscritti erano registrati anche tutti i 40 ragazzi del gruppo tedesco con 9 accompagnatori e 23 ragazzi del gruppo jugoslavo di Nonantola; a metà luglio si erano aggiunti altri 152 iscritti. Ora si trattava di chiedere alle autorità italiane i permessi di uscita e alla Croce Rossa la cessione di imbarcazioni, usate normalmente per il trasporto di internati civili di guerra. Le reazioni da parte dell'esercito e del ministero degli Esteri furono nel complesso positive anche se Vittorio Castellani capo ufficio collegamento del Ministero con il comando della Seconda armata aveva riferito il 23 maggio le richieste ebraiche di rilascio dei bambini, esprimendo parere dubitativo sul fatto che la loro vera destinazione fosse la Turchia e non in realtà la Palestina, raccomandando grande cautela e esprimendo preferenza verso un'azione che portasse piuttosto i bambini in Italia. Luca Pietromarchi, alto funzionario del ministero degli Esteri fu però di parere opposto: il 19 giugno si disse favorevole all'azione umanitaria sia che prendesse la forma di trasferimento in Italia, sia di trasferimento in Turchia. Favorevole si dimostrò anche l'amministrazione militare, il 18 luglio 1943, il comando del V° Corpo della Seconda armata scrisse che l'iniziativa era stata approvata dai superiori comandi. In luglio Valobra pensò di chiedere alla Santa Sede la sua alta protezione per il progetto che, per la verità, aveva ormai tutte le possibilità di una buona riuscita. La deludente risposta del Segretario di Stato di Pio XII, Car­dinal Maglione, del 24 luglio, fu che: «... le difficoltà che il progetto presenta per la sua attuazione non rendono possibile accogliere richiesta dell'avvocato Valobra...». Ormai, però, il cambio della guardia ai vertici politici italiani e la caduta di Mussolini il 25 luglio lasciavano sperare nella buona riuscita dell'impresa. Il 31 agosto, a Genova, Valobra era ancora in attesa dell'autorizzazione al viaggio da parte delle autorità italiane. L’iter burocratico si concluse infatti solo il successivo 8 settembre (da 45 giorni ormai l'Italia non era più formalmente retta dal regime fascista) con l'assenso da parte del ministro degli Affari Esteri Raffaele Guariglia all'espatrio dei ragazzi in via di principio, ma soltanto nel caso si trattasse di destinarli alla Turchia o alla Svizzera, ma non alla Palestina. Troppo tardi in ogni caso perché qualsiasi iniziativa di salvataggio potesse prendere corpo. Rimane da spiegare perché il ministero, seppur non più retto da un funzionario del partito fascista a partire dal 25 luglio 1943, avesse tanto timore che ragazzi ebrei fossero messi in salvo in Palestina. Il fatto è che sul nostro ministero degli Esteri agivano due forze uguali e contrarie: le organizzazioni ebraiche internazionali spingevano verso il salvataggio degli ebrei nelle zone di occupazione militare e al loro spostamento in territori meno pericolosi; la forza impersonata dalle rappresentanze arabe, che tendeva a impedire qualsiasi facilitazione all'ingresso di profughi ebrei da territori sotto influenza tedesca o italiana verso la Palestina e la salvezza. Per spiegare quello che successe, occorre ricordare alcune tendenze della politica estera dell'Italia: fin dalla seconda metà degli anni Trenta, il regime fascista aveva cercato consensi oltre i confini nazionali proponendosi come modello per il nazionalismo arabo. Questo era in cerca di appoggi in Europa presso le potenze fascista e nazista, in funzione antinglese. Uno degli interlocutori privilegiati del fascismo era il capo carismatico del mondo arabo-islamico Haj Amin al Husseini, mufti di Gerusalemme che dal 1936, dall'inizio cioè della rivolta contro gli inglesi e contro gli ebrei, andava chiedendo a Roma armi, munizioni, denaro, che gli furono in effetti accordati. Da allora era iniziata una politica di ravvicinamento e di favoritismo dell'Italia verso il mondo arabo, su cui voleva affermare un'influenza morale, culturale e commerciale. Tale politica filoaraba si rafforzò con l'entrata in guerra dell'Italia nel giugno del 1940. Le masse arabe videro nelle prime vittorie dell'Asse il riscatto contro gli imperi coloniali del passato, loro secolari oppressori, mentre gli italiani vedevano nell'alleanza con gli arabi non solo una funzione strumentale anti inglese ma un valore permanente da coltivare per colpire a fondo le risorse petrolifere dei nemici e per un futuro assetto postbellico dell'area mediterranea. Il mufti al Husseini il 20 gennaio 1941 aveva rivolto alla Germania una richiesta ufficiale di appoggio per una dichiarazione ufficiale italo-tedesca in favore dell'indipendenza dei Paesi arabi, del riconoscimento dell'illegalità del focolare nazionale ebraico in Palestina e del diritto degli arabi a risolvere questa questione. La risposta positiva di Hitler contro i comuni nemici, l'Inghilterra e gli ebrei, era giunta l'8 aprile successivo. L’entrata delle truppe alleate in Iraq, Siria e Iran a metà del 1941 aveva momentaneamente interrotto le avance dei nazionalisti arabi verso le potenze dell'Asse, il 10 ottobre 1941, il muftì era giunto in Italia portato in salvo dal corpo consolare italiano a Teheran. Il 27 era stato ricevuto calorosamente da Mussolini che gli aveva assicurato appoggio per il futuro e il 6 novembre era ripartito per Berlino dove per la prima volta, il 28 novembre 1941, aveva incontrato Hitler. Tornò a Roma il 6 febbraio 1942, senza aver ottenuto dal dittatore tedesco una dichiarazione congiunta italo-tedesco-araba, rimandata alla conclusione della campagna di Russia (Operazione Barbarossa) e della supposta vittoria tedesca. La circospezione del nostro ministero degli Esteri nel concedere visti di uscita a ragazzi ebrei in fuga da territori sotto influenza italiana si spiega dunque con l'atteggiamento dell'Italia nei confronti delle aspirazioni nazionaliste arabe e con le richieste del muftì di impedire l'ingresso di ebrei in Palestina. Lo scriveva esplicitamente nella sua lettera datata 10 giugno 1943 rivolta al nostro ministero degli Esteri (ancora in pieno regime fascista) che «denunciava» l'immigrazione in Palestina di ebrei da Bulgaria, Romania e Ungheria, via Turchia e si faceva interprete dei sentimenti di irritazione arabi nei confronti degli amici dell'Asse che permettevano simili azioni, da lui definite «pericolose e diaboliche». Chiedeva, in nome dell'amicizia con gli arabi, che l'Italia collaborasse all'ostruzionismo contro l'immigrazione ebraica in Palestina. Questa lettera richiamava un precedente memorandum del 13 maggio dello stesso mufti Husseini di analogo tenore. Di fatto, queste pressioni arabe si incrociarono con le pressioni di parte ebraica dirette in senso contrario e non è difficile credere che le proteste di Husseini esercitarono una qualche influenza sul governo italiano. Né, del resto, il ministero degli Esteri italiano era l'unica autorità perplessa ad assecondare l'ingresso in Palestina di gruppi di ragazzi in pericolo. Anche la Santa Sede non dimostrò entusiasmo. Anzi, probabilmente riferendosi allo stesso caso descritto qui sopra, il 4 settembre 1943, Angelo Giuseppe Roncalli, nunzio apostolico a Istanbul, parlando della supplica pervenutagli perché fosse facilitata l'uscita di numerosi ebrei dal territorio italiano così si epresse: «...Confesso che questo convogliare, proprio la Santa Sede, gli ebrei verso la Palestina, quasi alla ricostruzione del regno ebraico, incominciando dal farli uscire dall'Italia mi suscita qualche incertezza nello spirito...» (Actes et Documents du Saint Siège Relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, Janvier-Dècembre 1943, vol. 9, documento n.324).

Bibliografia

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Daniel Carpi, The Mufti of Jerusalem Ami nel-Husseini, and his Diplomatic Activity During World War II (Octo­ber 1941-July 1943), in «Studies in Zionism», n.7 Spring 1983.

Settimio Sorani, L’assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1947). Contributo alla storia della Delasem, Carucci, Roma 1983.

Stefano Fabei, Il fascio, la svastica e la mezzaluna, Mursia, Milano 2002

Klaus Voigt, villa Emma. Ragazzi ebrei in fuga 1940-1945, La Nuova Italia, Firenze 2002

Josef Indig Ithai, Anni di fuga. I ragazzi di Villa Emma a Nonantola (a cura di Kiaus Voigt), Giunti, Regione Emilia Romagna, Firenze, Milano 2004

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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione

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