Diario

Il discorso di Benedetto XVI ad Auschwitz è stato un’occasione mancata. Si è chiesto il perché del silenzio di Dio, ma ha eluso domande più imbarazzanti e terrene: dove era la Chiesa cattolica, in quegli anni?

Il silenzio del papa tedesco

 

Bruno Segre

 

Era il «silenzio del mondo» ciò che ossessionava un gruppo di ebrei  destinati, nel 1942-43, a finire i loro giorni chiusi nel ghetto di Varsavia. Costoro erano Emmanuel Ringelblum (uno storico che militava nella sinistra sionista) e i suoi amici, promotori e artefici di un’iniziativa redazionale clandestina condotta – con l’appellativo in codice di Oneg Shabbat, «le delizie del Sabato» - al fine di costituire per futura memoria un «un archivio» delle sofferenze, delle speranze, delle miserie, dell’agonia insomma degli abitanti del ghetto di Varsavia e delle altre comunità ebraiche polacche nell’inferno della Seconda guerra mondiale. Quel loro lavoro di documentazione, seppellito nella primavera del 1943 sotto le macerie del ghetto in una ventina di bidoni di latta sigillati, venne ritrovato, parte nel 1946 e parte nel 1950, con questo messaggio: «Ciò che non potevamo gridare in faccia al mondo, l’abbiamo nascosto sotto terra». Uno degli ultimi messaggi fatti uscire dal ghetto diceva: «Il mondo tace; el mondo sa eppure tace… Questo silenzio è incomprensibile e terrificante». Era il silenzio del mondo l’ossessione di questo gruppo di morituri del ghetto di Varsavia. Pudicamente, però, nei loro documenti il silenzio di Dio non viene mai menzionato. Non così nel discorso che papa Benedetto XVI ha pronunziato poco tempo fa, alla fine del maggio 2006, visitando il campo di Auschwitz-Birkenau. «Il silenzio di Dio» è un tema suggestivo, tipico del retaggio scritturale ebraico. Per non citare il grido di Giobbe, tutta la Bibbia è piena di domande angosciose sull’assenza di Dio e suo abbandonarci. Ebbene, nel discorso del papa il «silenzio di Dio» viene evocato con enfasi per ben due volte. Storica visita apostolica, questa, di un pontefice germanico al luogo-simbolo dello sterminio degli ebrei d’Europa perpetrato da coloro che governarono la Germania dal 1933 al 1945. Un’occasione forse irripetibile che si offriva a Benedetto XVI per dichiarare in modo inequivoco, nella duplice veste di sovrano pontefice e di tedesco cresciuto in Germania ai tempi di Hitler, l’intenzione di fare luce piena su un passato di demonizzazioni e violenze feroci, e di dare sostanza e anima a un futuro di rapporti rispettosi, riconciliati e creativi tra ebrei e cattolici e tra ebrei e tedeschi. In effetti, il messaggio che il papa ha diffuso da Auschwitz (pronunziandolo, chissà perché, in italiano; ma questo è un punto sul quale ritornerò più avanti) si presentava come una macchina comunicativa a raggio molto ampio, ben congegnata, contenente una ricostruzione storica degli orrendi estremi del regime nazista in termini tali da suscitare un sicuro consenso nelle opinioni tedesca e polacca (attraversata negli ultimi tempi, questa seconda, da una certa ripresa di antisemitismo cattolico), e a ottenere poi, anche, un minimo di gradimento in ambito ebraico. Un aspetto che balza subito all’occhio è che, anche quando parla di storia, il papa non dimentica mai d’essere un raffinato teologo: talché nel linguaggio che egli utilizza, è difficile individuare un confine preciso tra teologia e storiografia. Per competenza, lascio volentieri ad altri il compito di esprimere un apprezzamento circa le visioni teologiche di Joseph Ratzinger, mentre preferisco restringere queste mie considerazioni a una valutazione delle sue analisi storiche. Rilevo, in primo luogo, che ad Auschwitz Benedetto XVI parla in qualità di tedesco che ricorda la storia patria probabilmente al modo di altri tedeschi, cattolici e non cattolici, della sua età (non di tutti, però). Significativamente, là dove tratta dello sterminio degli ebrei assolve il proprio popolo da ogni responsabilità, circoscrivendo le colpe a «un gruppo di criminali» che (sono parole sue) «raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo potè essere usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio». Con il dire cose di questo genere, Ratzinger sottopone la vicenda storica del nazionalsocialismo a una palese forzatura. Non vi è infatti chi non ricordi le modalità dell’accesso di Hitler al potere, formalmente legali, ineccepibili sotto il profilo giuridico, e quanto diffusa e convinta fosse, ancora dopo dodici anni, fino agli ultimi giorni dell’aprile 1945, la devozione delle masse popolari germaniche per il Führer. Vi furono, naturalmente, eccezioni in Germania, che proprio per questo acquistano uno straordinario significato morale, esemplare. Particolarmente degni d’ammirazione sono appunto questi eroi tedeschi (socialdemocratici, comunisti, liberali, il gruppo cattolico della Rosa Bianca, persino alcuni schietti conservatori) che non si piegarono, anzi combatterono da isolati e clandestini la loro battaglia in difesa dell’onore della patria tedesca e della sua libertà, eroi che il papa, peraltro, si guarda bene dal menzionare – le uniche persone cui accenna sono – non a caso, il padre francescano polacco Maksymilian Kolbe ed Edith Stein, la monaca carmelitana d’origine ebraico-tedesca, uccisa con il gas ad Auschwitz come ebrea (la cui santificazione, proclamata da Giovanni Paolo II nel 1998, suscitò, come tutti ricordiamo, polemiche piuttosto aspre da parte di ambienti ebraici). Ma al di là di ciò, il discorso del pontefice confligge con tutta l’impressionante mole di ricerche storiche degli ultimi anni, che hanno insistito sulla «banalità del male». È un filone che, sulle orme di Hannah Arendt, ascrive e risolve l’enormità della Shoah proprio all’interno della «normalità» dei carnefici, fedeli servitori dello Stato nazista e delle sue regole. È ben noto che nella Germania egemonizzata da Hitler funzionò un sistema di corresponsabilità di tutti i ceti dirigenti che la storiografia ha chiarito al di là di ogni dubbio; compresa l’adesione entusiastica e consapevole di gran parte della popolazione al regime e alle sue teorie razziali, prima fra tutte l’antisemitismo militante. La pervasività del nazismo e il consenso delle massi plaudenti che ne assecondarono i disegni criminali costituisce una pagina dolorosa della memoria collettiva dei tedeschi di oggi. Quando negli anni Settanta, Willy Brandt, in veste di cancelliere della Repubblica federale tedesca andò a inginocchiarsi davanti alle rovine del ghetto di Varsavia, quel gesto simbolico colpì notevolmente l’opinione pubblica mondiale, innescando in Germania un significativo conflitto generazionale tra i figli e i padri ex nazisti, e incoraggiando gli storici a scandagliare in profondità l’universo complesso del Terzo Reich hitleriano. Una sensibilissima testimone del nostro tempo, Gitta Sereny – giornalista e saggista viennese di origine ungherese, che per lunghi anni si è data ad analizzare ciò che accadde al popolo tedesco durante il nazismo, cercando poi anche di cogliere i sentimenti dei tedeschi di oggi nei riguardi del loro passato – sostiene con argomenti apprezzabili che dopo la fine della guerra, a parte la comunità mondiale ebraica, il Paese che con maggiore convinzione si rivelò disposto a considerare la Shoah come il crimine più infame e atroce del XX secolo è stato proprio la Germania. «È in Germania», scrive la Sereny, «che sono stati introdotti i provvedimenti legali ed educativi più efficaci per affrontare questo terribile passato». La presa di coscienza della natura e delle conseguenze della tirannia hitleriana ha costituito e costituisce una scoperta che coinvolge i tedeschi di tutte le generazioni del tempo di guerra. Si tratta di una scoperta che in milioni di persone, compresi i giovani d’oggi, ha prodotto una ferita molto profonda che tarda a rimarginarsi. «Il fatto che questa ferita esista e sia stata sentita con tanta profondità per ben mezzo secolo», annota ancora la Sereny, «ha alterato quello che solitamente veniva chiamato il “carattere tedesco”. E se oggi la Germania (in modo del tutto diverso da quanto pianificato da Hitler) è diventata non la padrona, ma il cuore dell’Europa, ritengo che sia proprio perché è con questa ferita che continuano a confrontarsi ancor oggi i tedeschi di ogni età». Stupisce quindi che il papa tedesco non si mostri informato degli esiti cui è pervenuta su questa tematica la più recente e accreditata ricerca storiografica internazionale, e che non tenga in alcun conto la sensibilità che oggi caratterizza, sui punti appena ricordati, le generazioni più giovani della sua Germania. Ancora maggiori perplessità suscita, poi, un’altra affermazione contenuta nell’allocuzione che il pontefice pronunzia ad Auschwitz: quella secondo la quale coloro che (sono parole sue) «si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo» (ossia i nazisti), con la Shoah «volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte». In realtà, nel progetto di omicidio di massa elaborato dagli ideologi paganeggianti del nazionalsocialismo, il cristianesimo non costituiva di certo un bersaglio significativo. Nel fondo, la politica hitleriana era segnata da una nettissima curvatura biologistica, alla luce della quale il popolo tedesco veniva visto come una sorta di mirabile corpo organico, da curare e proteggere anche mediante l’impietosa amputazione delle parti infette, quelle «spiritualmente già morte». In questo senso la soppressione del nemico, in particolare degli ebrei, era necessaria per garantire la sanità, la vita stessa del popolo tedesco, mentre l’attacco al cristianesimo per le sue radici ebraiche appariva, complessivamente, un obbiettivo del tutto trascurabile. Come ho già detto, nell’allocuzione tenuta ad Auschwitz, Ratzinger incrocia volentieri il piano storiografico con quello teologico. L’approccio è tale che i due piani ora si separano, ora si collegano e si confondono. Per esempio, l’invocazione che il papa eleva già nelle prime battute del suo testo: «Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?» e, più avanti, la lunga citazione del Salmo 44 con il lamento dell’Israele sofferente - «Svegliati, perché dormi, Signore? Destati, non ci respingere per sempre!» - sovrastano fino quasi ad annullare la dimensione umana, le responsabilità concrete di uomini in carne e ossa, di quegli uomini che «hanno fatto la storia». E con il ridurre il male a un’offesa alla divinità, in sostanza a una mera astrazione, scarnificano la tragedia del nazismo e dell’antisemitismo sino a rendere vana ogni interrogazione sul male e le sue radici. Il nazismo sarà pure stato – come Benedetto XVI preferisce intendere – l’amplificazione, sia pure estrema e degenerata, della «fede nel dominio dell’uomo»: un eccesso assoluto di orgoglio terreno, di fiducia nelle capacità degli uomini di «fare da sé». Ma il proporre l’immagine del nazismo come quella di una sorta di peccato teologico apre inevitabilmente varchi a una tentazione «totalizzante», che alla fin fine diventa assolutoria. Insomma, il pontefice tedesco non può ignorare che l’hitlerismo e lo sterminio degli ebrei d’Europa furono mali storici, esiti di volontà e di scelte umane; che nell’attuazione della Shoah vi furono carnefici e vi furono vittime, sempre e tutte umane, milioni di corpi straziati, torturati, massacrati. In questo discorso papale – che, animato da una sorta di «eccedenza teologica», sarà ricordato più per le reticenze e le omissioni che per le cose effettivamente dette – non compare mai la parola «antisemitismo», così come risultano totalmente dimenticate le vittime omosessuali, che nei campi di sterminio furono molte, né si fa cenno al milione e mezzo di bambini e alle migliaia di portatori di handicap torturati ed eliminati. Si reitera, come abbiamo visto, la domanda su dove fosse Dio – una domanda ardua, destinata a rimanere senza risposta – mentre non si formulano mai i quesiti più facili e ovvi: dov’era la Chiesa ad Auschwitz? Quali motivazioni spinsero il lontano predecessore Pacelli a mantenersi generalmente silenzioso assieme a larga parte della cristianità? E quali furon, se vi furon, le responsabilità della Chiesa cattolica nel sostegno silenzioso al regime di Hitler e nella persecuzione degli ebrei? Lo scrupolo con cui Benedetto XVI, che pure viene diffusamente considerato un intellettuale sensibile e raffinato, evita di porsi simili interrogativi fa purtroppo sì che il suo pellegrinaggio ad Auschwitz si connoti come un’occasione che egli ha mancato, sia nella sua veste di papa, sia in quella di tedesco. Penso quanto liberatorio e illuminante per tutti (e in particolare per noi ebrei) sarebbe stato l’effetto di quegli interrogativi se Ratzinger – invece di perdersi, con l’invocazione del silenzio di Dio, nell’empireo del mistero teologico – avesse trovato la forza e la rettitudine per esprimerli pubblicamente, quegli interrogativi, offrendo loro qualche plausibile risposta. E se, prendendo la parola nel più grande cimitero ebraico del mondo, si fosse in qualche modo ricordato che fu proprio la Germania il luogo di nascita dell’ebraismo moderno – non soltanto il luogo della sua estinzione -, e che proprio il tedesco fu la lingua franca per varie generazioni di ebrei dell’Europa centro-orientale. Nel 1944, ossia più o meno nel medesimo periodo in cui dal ghetto di Varsavia Emmanuel Ringelblum e i suoi amici lanciavano al mondo gli appelli disperati che ho citato all’inizio, Elias Canetti, che viveva e operava nel rifugio di Londra, scrisse le seguenti parole: «La lingua del mio spirito continuerà a essere il tedesco, e precisamente perché sono ebreo. Ciò che resta di quella terra devastata, in ogni possibile modo voglio custodirlo in me, in quanto ebreo. Anche il suo destino è il mio: io però porto ancora in me un’eredità universalmente umana. Voglio restituire alla loro lingua ciò che le devo». Non penso che si possa cogliere la sostanza di un secolo e mezzo della vicenda socioculturale vissuta dal mondo di lingua tedesca qualora non si tenga conto del peso enorme esercitato su quel mondo dalla cosiddetta «simbiosi» tra Deutschtum e Judentum. Mi riferisco allo straordinario apporto che, sin dai primi passi dell’emancipazione ebraica (agli albori dell’Ottocento) giù giù fino all’avvento del nazismo, alcune generazioni di ebrei – donne e uomini di lettere e di pensiero, artisti, scienziati, operatori economici e della comunicazione, donne e uomini politici e comuni cittadini – offrirono a vario titolo alla vita spirituale delle società germanica e austriaca, aprendole a un ampio ventaglio di tematiche inedite, arricchendole di sempre nuovi problemi e contribuendo a renderle diversificate, rigogliose e creative. Tutto ciò è stato troncato in modo traumatico e spazzato via una volta per sempre dalla Shoah: un genocidio messo in atto proprio nel cuore di quella civiltà europea che era stata la culla della modernità. Ma poiché dalla stagione degli orrori nazifascisti ci separano ormai oltre sessant’anni, non v’è dubbio che sarebbe oggi di vitale importanza il far circolare discorsi e i sostenere iniziative che suggeriscano percorsi di riavvicinamento tra gli eredi delle vittime e gli eredi dei persecutori, aiutando gli uni e gli altri a prendere le distanze da una storia densa di sciagure e a liberarsi delle scorie del passato: per puntare non già al riconoscimento o al recupero di improbabili innocenze, bensì a forme responsabili e finalmente decenti di coesistenza, all’interno di un mondo sempre più simile a un villaggio planetario multicentrico. Tuttavia, non ci si libera delle scorie del passato ignorandole o illudendosi si «superarle», perché il passato, proprio perché è tale, non è purtroppo superabile. Il modo forse più giudizioso per fare davvero i conti con il passato è quello di accostarvisi con studio e con pazienza, e tentare di capire. Mi riallaccio qui alle parole scritte da Canetti a proposito dell’uso del tedesco, per domandarmi perché mai ad Auschwitz il pontefice venuto dalla Baviera abbia scelto di pronunciare la sua allocuzione in lingua italiana e non nell’idioma natìo, nella sua Muttersprache. Infatti, per dimostrarsi capace di realizzare questo strettissimo attraversamento, quell’arduo passaggio obbligato nella parola che sa come «indicare» la verità prima ancora di sapere come «dirla», penso che Benedetto XVI avrebbe dovuto esprimersi in tedesco: punto iniziale, in questo caso, per impostare una seria comunicazione con il reale. Soltanto parlando tedesco, cioè utilizzando spregiudicatamente la lingua degli sterminatori e calandosi a voce spiegata nella realtà del Lager, Ratzinger sarebbe stato in grado di riattualizzare  esistenzialmente l’inferno di Auschwitz e contrapporre alla parola di coloro che, proprio in quel luogo e in quella lingua, ordinavano la morte, una sua vitale e positiva «contro-parola». Non solo: parlando ad Auschwitz in tedesco gli sarebbe persino potuto accadere di cogliere e recuperare, nel cuore stesso della cultura tedesca (e al di là delle stigmate dell’antisemitismo), qualche disperso, prezioso frammento di ciò che in quella cultura è rimasto depositato, forse per sempre, di ebraico. E in questo modo il papa avrebbe inequivocabilmente dimostrato di sapersi porre senza reticenze di fronte alla Storia, in termini di assoluta autenticità e verità, e il pellegrinaggio da lui compiuto nel luogo-simbolo del massimo abominio della sua nazione d’origine avrebbe fatto sicuramente compiere, come forse egli sperava, un prodigioso salto di qualità nei rapporti tra ebrei e cattolici e tra ebrei e tedeschi. Purtroppo, però, come abbiamo visto, Benedetto XVI ha scelto una strada diversa. Nella sua allocuzione in lingua italiana abbondano i passaggi nebbiosi, le lacune, le mezze verità, i fatti taciuti, le circostanze storiche falsificate. Scriveva Gershom Scholem nel 1966: «Solo conservando la memoria di un passato che peraltro non potrà mai essere compreso veramente fino in fondo, potremo coltivare la speranza […] di una riconciliazione tra coloro che sono stati separati» se non ci si pone di fronte alla Storia con il coraggio della verità. Nel 1944, nel pieno della catastrofe degli ebrei d’Europa, Elias Canetti dichiarava di portare ancora in sé, nonostante tutto, «un’eredità universalmente umana». Di tale verità ho cercato qualche traccia nel testo del discorso del papa ma, francamente, non sono riuscito a trovarla. È un discorso, il suo, che pretende di volare alto e di guardare lontano ma che, nella sostanza, rivela i tratti della mediocrità. Avrei desiderato concluderne la lettura dicendo «amen» come al termine di una preghiera, ma non ne sono stato capace.

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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione

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