Diario

La nostra prima volta

 

Giorgio Bocca

 

Con la strage di Meina, l’incendio di Boves, la battaglia del monte San Martino, la pedagogia nazista è chiara e definitiva già a pochi, pochissimi giorni dall’occupazione nazista. C’è una memoria storica a posteriori che schiaccia gli avvenimenti e le conoscenze per cui si immagina che la “soluzione finale”, cioè il genocidio degli ebrei, fosse una cosa nota nell’Italia fascista e che fosse nota la guerra ideologica e razzista delle SS e che fosse di comune conoscenza il codice nazista della rappresaglia. Nella realtà si sapeva poco o niente. Quel che sapevamo noi delle province che davano soldati agli alpini era che dalle loro tradotte nel lungo viaggio verso il fronte russo avevano visto degli ebrei affamati con una stella gialla sul bavero della giacca che chiedevano cibo e venivano allontanati dai tedeschi. Del resto che si sapesse poco o niente della “soluzione finale”, cioè della “bonifica razzista” che implicava la soppressione fisica degli ebrei, lo dimostra il fatto che neppure gli ebrei italiani o stranieri che stavano nel settembre del 1943 nei dintorni di Meina sul lago Maggiore ne erano informati. Questi tre episodi di paura e di sangue, di una storia in cui aveva fatto irruzione l’irrazionale spiegano la guerra senza prigionieri; il nemico non è più, come scrive Benedetto Croce, “l’umano avversario delle umane guerre, ma l’altrove presente nemico della umanità”. Per gli italiani umili il tedesco, senza distinzioni fra SS e riservisti, fra giovani e anziani, è un nemico vero e diabolico dopo tanti nemici combattuti nelle guerre patrie senza ragione e senza odio. Su una cappella valdostana si leggerà questa dedica alla Madonna: “ Pour nous avoir sauvé des allemans”. Neppure la lezione di Meina fu subito nota nell’Italia del nord e rimase ignota in quella sotto gli Appennini, tanto è vero che fino alle Ardeatine gli ebrei di Roma pensarono che fosse possibile scampare alla morte negoziando con i tedeschi. Ma più che una lezione circostanziata, presa di fatti orrendi, fu come una voce di morte e di follia che si sparse nelle nostre città e arrivo fin nelle nostre valli partigiane, ma ancora vaga, ancora incerta perché l’aspetto più atroce del genocidio fu la sua ambiguità, il fatto che sino all’ultimo i nazisti cercarono di nascondere al mondo i campi di sterminio, d nascondere le uccisioni come a Meina con le esecuzioni notturne, con i cadaveri fatti affondare nel lago. Nella sterminata letteratura sul nazismo, nello sterminato “processo Eichmann” di cui fui testimone per mesi non c’è una risposta precisa a questa ambiguità. Perché ufficialmente si taceva sulla “soluzione finale”? Per evitare una reazione da parte della Germania cattolica? Per impedire una resistenza armata degli ebrei? Questa forse è la sola spiegazione confermata dai documenti, gli ebrei potevano essere avviati ai campi di sterminio senza gravi ostacoli organizzativi perché gli faceva credere che andavano nei villaggi agricoli, nelle varie Terezin loro destinate dal Führer. Si era così creata una diabolica doppia conoscenza per cui non era necessario dare degli ordini precisi ai comandanti militari, fossero le SS o gli ufficiali della Wehrmacht. Essi sanno che nessuno a Berlino piangerà per un ebreo ucciso e che qualcuno a Berlino considererà una disobbedienza non averlo ucciso o deportato. Gli occupanti tedeschi non hanno bisogno di disposizioni, il generale Ss Wolff ha partecipato alle stragi in Polonia, il suo braccio destro generale Wilhelm Harster ha eliminato gli ebrei olandesi, a Trieste c’è Odilo Globocnik, colui che ha insegnato a Eichmann l’uso delle camere a gas. La storia degli ebrei di Meina ricostruita da Marco Nozza con un lavoro di anni è come la summa di una persecuzione tanto chiara nei suoi effetti quanto oscura nelle sue origini. Si è detto spesso che il nazismo e il suo razzismo furono una decomposizione della cultura romantica, una imprevedibile, irripetibile malattia dello spirito. Le pulizie etniche in Bosnia dicono che purtroppo non è così, non è solo così, che ci sono, che restano abissi oscuri nel cuore degli uomini. Nozza che conosco dai tempi del “Giorno” è uno che nel linguaggio sciistico si chiama un fondista: uomo di lunghi percorsi, di grandissimi scrupoli, se volete di grande perfezionismo. Se questa atroce pagina rimase nel vago in quei mesi del ’43, se poi fu travisata dalla storia a posteriori, ora in questo prezioso lavoro appare fissata per sempre nella nostra storia.

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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione

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