Diario

Massacri, saccheggi, stupri. Nell'inverno del 1944 si abbatté sulle colline piacentine e pavesi la furia della divisione Turkestan – «I casi  di stupro noti sono almeno un migliaio, è una storia paragonabile a quella dei soldati marocchini in Lazio» - «Sotto la nostra mitragliatrice trovammo 30-40 cadaveri. Venivano all’assalto all’arma bianca a due passi dal fuoco»

Il fantasma dei mongoli

 

Claudio Jampaglia e Mario Portanova

 

«Me li ricordo bene. Uno l'ho interrogato. Per la verità ne ho anche fatti fucilare un paio». Angelo Del Boca è uno dei pochi che i fantasmi li ha visti davvero in faccia. Un lembo di guerra dell'inverno 1944-45 adagiato tra colline che di urla, fuochi e implorazioni ricordano solo un nome buono per spaventare i bambini: i «mongoli». Nelle valli tra il piacentino e l'Oltrepò pavese tutti sanno a naso chi sono, ma le loro facce, la loro storia alla fine non la sa nessuno. Bisogna avere i capelli molto bianchi per ricordarseli oppure andarli a cercare. Vandali, barbari, incendiari, «mangiasapone e beviprofumo», carne da macello di Hitler scagliata contro la povera gente, stupratori di massa. Chi erano davvero gli uomini che si resero responsabili di violenze paragonabili a quelle dei soldati marocchini in Lazio, ma sulle quali nessuno ha mai pensato di fare un film? I narratori di questa storia sono tre signori dai capelli molto bianchi e dalle vite molto diverse. Uno è lo storico Angelo del Boca, che prima di diventare un grande inviato ha combattuto nel piacentino nella 7a Brigata partigiana di Giustizia e libertà, dopo aver disertato dalla Repubblica sociale italiana portandosi dietro 15 alpini della Monterosa in armi. La sua storia è tutta nel titolo del suo bel romanzo storico-autobiografico: La scelta (Neri Pozza l'ha ripubblicato nel 2006). Il secondo è Giacomo Bruni da Zavattarello, nome di battaglia «Arturo», uomo di poche parole e molti fatti della garibaldina Brigata Crespi. Tre anni al fronte, poi scappa dall'esercito dopo l'8 settembre perché dei fascisti non ne può più e si ritrova 18 mesi dopo a Dongo nelle ultime ore del regime, dopo aver liberato Pavia e Milano. Di tre anni di guerra e uno di Resistenza gli rimane tanta rabbia «per il fascismo che non se n'è mai andato» e 30 euro di pensione. Il terzo si chiama Ugo Scagni e non ha fatto il partigiano per pochi anni, ma nei successivi quaranta ha raccolto memorie, diari, foto, testimonianze in quattro libri (tra cui La resistenza scolpita nella pietra, Guardamagna 2003). Non c'è lapide, viottolo e cascina del suo Oltrepò che non conosca. Sono loro a portarci sulle tracce dei «mongoli». I mongoli, per definizione, arrivano da lontano. Tra la fine del 1941 e l'estate del 1942, dopo la caduta di Leningrado, i comandi tedeschi organizzano le Ostlegionen (legioni dell'Est), unità volontarie formate da prigionieri sovietici (anche se Hitler considerava la «stirpe slava» una «sottospecie umana»). Alcuni scelgono l'arruolamento per scampare alla prigionia e alla morte, altri, soprattutto tra le popolazioni che hanno subito la feroce repressione staliniana, pensano di allearsi con i nazisti per liberare le loro terre dal regime comunista. Il caso più noto è quello dei cosacchi che combatteranno in Friuli. Il 20 aprile del 1942 viene istituita la Legione turkmena, che poi sarà inserita nei resti della vecchia 162esima divisione dell'esercito tedesco: nasce così la 162esima divisione Turkestan, composta da prigionieri per lo più musulmani: calmucchi, uzbeki, azerbaigiani, karakalpachi, tartari, ucraini, kirghisi, georgiani... Sono i tratti asiatici di alcune di queste etnie - per esempio i calmucchi, chiamati anche «finti mongoli» - a rimanere impressi nelle popolazioni che li incontreranno. Così gli uomini della 162esima diventano per tutti «i mongoli». Non sono i tempi del politically correct: nella memorialistica dell'epoca si ricordano «volti rotondi e giallastri», «piccoli, brutti e rognosi asiatici». Un partigiano citato da Arturo Delle Piane in Appunti sulla resistenza (Marchese e Campora, Genova 1954) rievoca lo spavento suscitato dal «loro bestiale ululare», come «gli urli di un branco di bestie scatenate sulla preda». Il comando dei 12 mila uomini della Turkestan viene affidato al generale tedesco Oscar von Niedermajer, grande conoscitore del Medio Oriente, che parla persiano, turco e arabo. Nel 1944 il generale viene processato per disfattismo e finirà i suoi giorni nel dopoguerra, prigioniero dei sovietici. Prende il suo posto il generale Ralph von Heygendorff, ex addetto militare tedesco a Mosca. Sarà lui a condurre le operazioni nel piacentino e nel pavese. Addestrata a Neuhammerin in Slesia, un arco con freccia in campo rosso-azzurro sullo stemma della divisa verde oliva, la divisione Turkestan combatte sul Don e in Francia contro i partigiani. È con quest'ultima specializzazione che sarà inviata in Italia, con un ordine di Hitler datato 10 ottobre 1943. La divisione, che risponde direttamente al Comado della Wehrmacht, combatte innanzitutto sul litorale adriatico. La «linea Gengis Kahn», tenuta dalla 162esima nel ravennate, è ricordata nelle memorie del maresciallo Alexander, che la sfondò con le truppe britanniche. Intorno al giugno 1944 è impiegata sul fronte Sud. I suoi uomini agiscono nella lotta antipartigiana a Rimini, Ravenna, Riccione, nelle Valli di Comacchio e nelle province di Udine, Trieste, Gorizia, come racconta Pier Arrigo Carnier in L'armata casacca in Italia (Mursia 1990). Dai diari partigiani vengono segnalati anche nel lecchese, sul lago Maggiore e a San Sabba (Trieste). Secondo gli archivi tedeschi, in data 27 marzo 1945 i battaglioni «russi» associati alla Wermacht in Italia erano dieci. Come le altre divisioni venute dall'Est, anche la Turkestan ha la sua rivista, un settimanale stampato in 15 mila copie intitolato Svoboda, cioè libertà. Proprio come lo storico quotidiano di Piacenza. È solo una coincidenza ovviamente, perché fino al novembre 1944, in quelle valli a cavallo tra Emilia e Lombardia nulla si sa della Turkestan. È cosa nota e dibattuta, invece, l'impantanamento degli Alleati sull'Appennino tosco-emiliano e il rinvio dello sfondamento della linea gotica a primavera. Le zone liberate in estate sono a rischio. Bettola, Peli, Bobbio, capitali di una vasta area collinare amministrata dalla Resistenza, stanno per cadere sotto l'avanzata di «nuovi barbari». Che arrivano come fantasmi. «Ero da solo sulla strada che dal Monte Penice scende a Bobbio e a un certo momento sentii il rumore delle carrette che passavano», racconta Angelo Del Boca. «Queste carrette erano trainate dai loro cavalli e venivano proprio dall'Unione Sovietica. Sono rimasto lì quasi un'ora, il tempo di veder passare circa duemila uomini che marciavano in salita. Mi era scomparsa persino la paura. Ero allibito, allucinato da queste figure nere che sfilavano in un grande silenzio. Non lo dimenticherò mai». La voce di una grande offensiva tedesca contro i partigiani si sparge intorno al 22 novembre. «Sapevamo solo che nella zona di Stradella si era schierata una divisione», ricorda lo storico. «Facemmo un giro tra le nostre postazioni. Eravamo preoccupati, avevamo già respinto altri attacchi ma su scala più piccola, magari cento uomini della Decima Mas o cinquanta di una Brigata nera, cose che non ci preoccupavano più di tanto. Qui invece avevamo davanti 10-15 mila uomini con i cannoni, una cosa completamente diversa. Venimmo così a sapere che la divisione era composta per tre quarti da "mongoli", questo fu il nome che da subito venne dato loro. A me che avevo studiato, il termine faceva venire in mente Gengis Kahn, la Cina». All'alba del 23 novembre, l'artiglieria nazimongola comincia a tempestare le postazioni della Resistenza e avanza. «C'era una nebbia che non si vedeva a due metri, ci sparavi ma non vedevi niente anche se li sentivamo avanzare e le staffette ci dicevano che venivano su in migliaia». Giacomo Bruni, «Arturo», e quelli della brigata Crespi si ricordano bene quella mattina e la maledetta settimana del grande rastrellamento, davanti a un nemico cento volte più armato e numeroso che infieriva sistematicamen­te sulla popolazione civile. «Quando ho portato il camion dove c'è ora la farmacia in piazza a Zavattarello, li abbiamo visti sbucare dalla nebbia, a venti metri da noi. Avanzavano che sembravano ubriachi, guidati dai fascisti italiani del paese. Ma erano ombre: in faccia, di mongolo, non ne ho visto uno, al limite russi, georgiani». I fantasmi non sono venuti solo a spaventare. Non c'è diario, testimonianza di civile o combattente che non cominci così: «Bruciavano le cascine, ammazzavano gli animali, violentavano le donne e portavano via gli uomini, quando non li fucilavano». L’onda d'urto del rastrellamento marcia su due linee, da Rottofreno sulla statale della Val Tidone e da Casteggio a tagliare l'Oltrepò pavese. La Turkestan è accompagnata dalle divisioni fasciste Littorio e San Marco, dalle Brigate ne­re piacentine Pippo Astorri «al completo», più battaglioni di alpini della Monterosa e di bersaglieri che, come ricorda Arturo, salivano cantando: «Avanti o popolo noi siamo belli contro i ribelli vogliamo andar». Quasi 21 mila uomini tra quelli all'attacco o a disposizione a Voghera, Broni e Stradella. Le violenze iniziano prima ancora di scontrarsi con i partigiani, a Nibbiano con le fucilazioni in piazza, mentre a Ponte Carmelo, Costa Grassa, Canavera, Ca' del Zerbo vanno a fuoco le cascine. Le valli si riempiono di puzza di animali morti, spari e pianti. Ogni stradina, fienile e frazione è passata al setaccio. Tra i primi a cadere in battaglia due contadini, Giovanni Botti ed Enrico Bergonzi, mandati davanti alle colonne nemiche come scudi umani e falciati dal fuoco cieco nella nebbia delle postazioni partigiane. «Ci rendemmo subito conto che così non si poteva più combattere e ripiegammo, ma non potevamo non provarci», racconta Arturo. Si battono uno contro cento, mitra Sten contro artiglieria e la guerra di movimento partigiana non ha più spazio. Alcune brigate sbandano, molti scappano. Rossi e bianchi si accusano reciprocamente di aver abbandonato, di non aver resistito abbastanza. Ma il Diario di guerra della 14esima armata tedesca, dalla quale dipendeva la Turkestan, parla a più riprese di «resistenza ostinata», «combattere impetuoso» dei partigiani e «grandi difficoltà» incontrate in quell'avanzata. Lo ricorda Del Boca, in un articolo su Studi Piacentini, rivista dell'Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea (n. 14, 1993), che ricostruisce giorno per giorno la cronaca della battaglia. Nel primo giorno di scontri, scrive, «i nazimongoli lasciavano sul terreno 200 tra morti e feriti, i partigiani lamentavano sette morti e 11 feriti». Il 24 la Resistenza tiene, ma le munizioni scarseggiano e la nebbia si alza. Così, nel tardo pomeriggio, gli attaccanti varcano i fiumi Tidone e Tidoncello e puntano sulle alture. Il 25 i partigiani si riorganizzano sulla destra del Trebbia, mentre la 7a divisione di Gl resta sul Penice a difesa di Bobbio, ma la notte stessa i nazimongoli occupano la vicina Pecorara. Dove si combatte, la rappresaglia si abbatte più violenta. A Pometo, riconquistata per qualche ora, i mongoli si danno a tre giorni di saccheggi e violenze sulla popolazione, portandosi via 221 carri carichi di merce d'ogni genere. Stessa sorte per Ruino, Carmine, Trebecco e Zavattarello. Gli stupri sono sistematici. A Romagnese e Bobbio scendono in campo don Picchi e monsignor Bertoglio, che riusciranno a evitare il peggio in cambio di promesse di resa ed equilibrismi disperati. «Noi della 7a Brigata li vedemmo per la prima volta la mattina del 26», racconta Del Boca. «Erano circa le 11. Quello che ci colpì fino a spaventarci furono i traccianti sparati dai mongoli con armi pesanti, che fendevano la fitta nebbia del bosco. Era una cosa tutta diversa dalle azioni mordi e fuggi che eravamo abituati a fare, questa era la guerra vera. A un certo momento vidi che sulla mia sinistra non c'era più nessuno. Il tenente che avevo di fianco era andato via con i suoi uomini. Ho dovuto trattenere i miei con la pistola in mano. Ero terrorizzato anch'io come loro, ma avevo una responsabilità». Impossibile reggere quell'urto, i partigiani indietreggiano ancora e si attestano a Coli e Peli, sulle colline che sovrastano Bobbio. Sentono le prime notizie di eccidi di civili, stupri, incendi e violenze che i mongoli compiono nei paesi già conquistati. È anche sull'onda dello sdegno, nota Del Boca su Studi Piacentini, che il 27 novembre, in quattro imboscate, i partigiani uccidono 55 nazimongoli che cercano di arrivare a Bobbio dalla statale per Piacenza. Altrove si processano e fucilano diversi prigionieri. Lo stesso giorno, all'alba, Arturo torna a Zavattarello con due compaesani, il Barba e Giuannin, per avere notizie di parenti e amici della Brigata. La gente comincia a raccontare dei «vandali» e della loro fame di donne: «Su una signora di Genova che stava in una villa all'entrata del paese erano passati sopra in 27». Ma i violentatori non sono solo mongoli, i partigiani raccolgono testimonianze su fascisti «di fuori» che partecipano agli stupri e la rabbia contro l'italiano è ancora più grande. Tra la popolazione, invece, è grande solo il terrore. Colonne di civili scappano di qua e di là, con carretti, a piedi, per strada o nei boschi. I nazifascisti avanzano. Il 28, a Coli e Peli, si combatte la più grande battaglia di quella zona. «Lì ho visto delle cose inimmaginabili», riprende Del Boca. «Questi mongoli erano ubriachi, abbiamo visto in seguito che avevano botti di vino cotto sui carri. Sotto la nostra mitragliatrice abbiamo contato 30-40 cadaveri, gente venuta all'assalto all'arma bianca a due passi dal fuoco. Abbiamo resistito una decina di ore e poi ci siamo ritirati, non c'era altra possibilità. Da quel momento i mongoli presero possesso della valle». Si abbattono ancora sui civili di Peli, Cornaro, Pescina, Fossoli, Costiere, Averaldi. Scrive il partigiano Michele Tosi nel suo diario: «La popolazione civile portò senza dubbio il peso più gravoso. Alla gente di Peli rimase solo quel poco di viveri che era riuscita a nascondere sotto letamai; i nuovi vandali avevano rispettato solo quelli». Dal primo dicembre il rastrellamento si concentra sulle colline di Val Tidone, Val Trebbia e Val Nure, mentre i garibaldini dell'Oltrepò tenteranno un'ultima resistenza attorno a Varzi, a Capannette di Costola, il 14 dicembre. È l'ultima sconfitta per cui pagheranno anche le donne di Giovà, Pei e Torre, che vengono fatte sfilare perché «ogni belva possa farne scelta», scrive nel suo diario il partigiano Luigi Campanini. Nessuna sarà risparmiata: «Donne di 70 anni e più come spose in evidente stato interessante vengono violate». La rappresaglia si chiude con la fucilazione di due partigiani polacchi della Cornaggia a San Sebastiano. Gli uomini della Turkestan si dirigono poi in Val Borbera, nell'alessandrino. «Ragazze e maritate sono ripetutamente violentate mentre il padre, i fratelli, il marito sono tenuti a bada con le armi in pugno», scrive pochi giorni dopo un medico dell'ospedale di Rocchetta Ligure, citato da Giampaolo Pansa in Guerra partigiana tra Genova e il Po (Laterza 1998): «Quanti sono questi tristissimi casi? È difficile precisare, perché una gran parte delle donne, passato lo sgomento per l'obbrobrioso oltraggio, ha cercato di tenere nascosta l'onta subita. Certo però sono molti». Intanto comincia a nevicare, tanto ma tanto che il gennaio 1945 sarà ricordato negli annali. Tutta la memorialistica è piena di traversate a piedi quasi nudi, rifugi notturni sotto qualche metro di neve. Ne muoiono assiderati in tanti, ne portano i segni tutti. Nello sbandamento generale, rimangono sui monti quelli che ancora hanno un distaccamento o che non sanno dove andare. Arturo torna a casa a Zavattarello e nasconde alcuni dei suoi, con l'aiuto delle sorelle e dei fratelli, nelle buche già pronte alla bisogna. Rimarranno sotto terra un mese. Del Boca rimane sul Penice tra pattuglie e sortite. Giù in valle, i presidi controllati da mongoli e fascisti a Pianello, Bobbio, Godiasco, Zavattarello, Varzi e sul Penice, sono tranquilli. Pensano di aver fatto piazza pulita. «Un giorno di dicembre inoltrato ero in perlustrazione con tre uomini nella gola di Barberino, vicino a Bobbio, un punto perfetto per un imboscata», racconta ancora Angelo Del Boca, «quando avvistammo un carro con quattro mongoli che salivano tranquilli cantando. Scendemmo in strada, tirai una raffica in aria e nessuno reagì. Li catturammo subito. Alla guida del carro c'era un certo Elia, un georgiano che comandava il gruppo. lo parlavo in italiano, lui in francese perché era stato in Francia a combattere contro il maquis. Mi infastidì moltissimo il fatto che portasse al dito un anello con un nome di donna francese. Evidentemente lo aveva sfilato a un cadavere». È lo strano e inconsapevole inizio di un rapporto umano e poi di un'amicizia che durerà molti anni. «Elia era un maestro di scuola di Tbilisi, un uomo colto e intelligente, di cinque o sei anni più vecchio di me. Aveva un librettino in cui segnava le parole italiane, con la fonetica e tutto. Era stato preso prigioniero dai tedeschi nella battaglia di Melitopol, nel 1941: "Siamo tutti dei poveri disgraziati, ci siamo arruolati perché eravamo prigionieri", mi disse, "l'alternativa era la morte nei campi di concentramento tedeschi. Molti tra noi sono anche anticomunisti, io no". Elia non era un fantasma, era una persona con cui parlavo, con cui ho discusso di progetti, dell'avvenire». Ci si può fidare del proprio istinto in una circostanza come quella? Angelo chiede a Elia di scrivere un volantino in cirillico che inviti i georgiani alla diserzione. Di notte lo accompagna da solo al campo «mongolo» per distribuirlo. «Ho rischiato la vita, ma a quell'età e in quella situazione mi sembrava l'unica cosa da fare. Ho riposto bene la mia fiducia». Nel giro di dieci giorni cinquanta soldati, quasi tutti georgiani, si uniscono ai partigiani. «Li abbiamo riuniti in una nuova formazione, comandata dallo stesso Elia. Hanno dato prova di grande valore in numerosi combattimenti. Uno dei migliori mitragliatori sembrava quasi cinese, non so di dove fosse esattamente, ma usava la mitragliatrice che chiamavamo "la sega di Hitler" come fosse stato un giocattolo. Riusciva a tenerla in braccio mentre tutti gli altri dovevano appoggiarla a terra». Elia e i suoi combattono e si adattano alla partigianeria con qualche perplessità: «Voi non sapete fare la guerra, siete troppo corretti, per spaventare il nemico dovreste tagliare teste ed esporle sul muro del paese», dice un giorno ad Angelo nel pressi di Bobbio. Dopo la Liberazione, Elia sarà uno dei pochi «mongoli» che si salverà e continuerà per decenni a scambiare lettere, auguri e qualche visita con l'uomo che lo aveva catturato. Non sono i soli «mongoli» a rinforzare nel '45 le fila della Resistenza. Ugo Scagni ne ha scovati altri. «Alla cascina Ranfusina, dietro Pietra Gavina, grazie alla mediazione dei contadini che li sfamavano, circa venti "russi" passano coi partigiani; altri venti a febbraio a Bobbio; altri otto a Zavattarello, con un ufficiale». Sono in stragrande maggioranza ucraini e georgiani, il che facilita la necessaria rivalutazione del nemico per accettarlo tra i propri. E così nei diari delle Brigate i «mongoli» diventano immediatamente «russi» (o «sovietici»). Non sono più le belve di qualche settimana prima, ma soldati obbligati a combattere. E in tanti lo faranno fino alla fine. Come «Ruspo», uno dei migliori mitraglieri della Brigata Aliotta, ucciso il 29 gennaio a Ceci e rimasto ancora oggi senza un nome vero. La Befana del '46 porta quindi in regalo ai partigiani un po' di combattenti «russi» mentre il grosso dei «mongoli» viene trasferito in Piemonte, dove continuerà a coltivare la propria fama. La diminuzione del controllo favorisce la ripresa della Resistenza, ma il terrore per la popolazione civile assume il nome della famigerata Sicherheits, la polizia politica di Broni-Voghera, comandata dal colonnello Felice Fiorentini. Ogni giorno un paio di rastrellamenti, incendi e saccheggi, arresti, torture all'hotel Savoia di Broni e al castello di Cicognola, fucilazioni «senza remissione». Sono la locale «banda Carità», fiorita nel disprezzo per la vita propria e altrui. Gente che lavora sul terrore e la delazione, senza verifica della fonte; hanno licenza d'uccidere partigiani, renitenti, contadini che li nascondono e chiunque si metta di mezzo, come il parroco di Corvino San Quirico crivellato in chiesa perché in maniera sospetta scampana la mezza prima del tempo mentre loro rastrellano il paese. Lo faceva tutti i giorni, ma i repubblichini non si danno pena di chiedere. Le vittime in un mese di «polizia» saranno più di un centinaio. E i responsabili, antesignani dei torturatori argentini, faranno quasi tutti una brutta fine: fucilati prima o dopo la Liberazione. Il colonnello Fiorentini, in uno di quegli episodi oggi non commentabili, viene portato in giro per i paesi dentro una gabbia e ricoperto di sputi, insulti, escrementi da paesani assetati di vendetta. Verrà processato e fucilato tra i primi. Giuseppe Setti, Arturo Baccanini (di Zavattarello) e Benito Bertoluzzi, invece, sono gli ultimi condannati a morte nel settembre del '45 per vari atti, tra cui lo stupro. Si salvano però quasi tutti i loro delatori, i loro galoppini. Nel silenzio che avvolse il dolore di prima e nella frenesia di tornare a vivere oggi, spariscono diventando nuovi fantasmi della valle, vicini che accusarono vicini per gelosie o per paura; cugini, amici, compagni di scuola che pensarono di salvarsi facendo uccidere un altro. Non se ne parla più, la guerra è finita e si va in pace, seppellendo morti e vivi. Resiste al tempo solo il fantasma dei «mongoli» , i barbari colpevoli di tutto. Di loro si parla ancora, delle loro vittime invece non si è parlato quasi più. Il silenzio accomuna soprattutto delatori e donne stuprate, gli uni per salvarsi, le altre perché non dovevano esistere. E sono proprio queste ultime i terzi e tragici fantasmi finali di questa storia. Per Del Boca le donne violentate in queste valli sono comparabili a quelle brutalizzate dalle truppe marocchine al seguito dei francesi in Lazio. «Qui i mongoli hanno fatto quel che hanno voluto per tre mesi, da novembre a gennaio, e la violenza oltre che sistematica era anche politica e ideologica. Solo in Val Luretta sappiamo di 30-40 donne violentate ed è la valle più piccola, se aggiungiamo Val Trebbia, Val Tidone, Val Nure e l'Oltrepò pavese, superiamo il migliaio di casi noti. Poi ci sono quelli di cui mai si è saputo». La riflessione storica è accompagnata dal racconto del secondo faccia a faccia coni mongoli. «Un paio di settimane dopo la cattura di Elia, eravamo al nostro distaccamento sul Penice, quando arrivò da noi una ragazza disperata. Ci chiese di correre subito a casa sua, dove erano arrivati tre mongoli con pessime intenzioni nei confronti della madre e delle sorelle. Presi due ragazzi, ci precipitammo giù e arrivammo mentre questi signori stavano mettendo in atto i loro propositi. Questi cretini avevano lasciato le armi per abbassarsi i pantaloni e li catturammo senza problemi. Devo dire che mai sono stato così cattivo in vita mia. Feci fare loro il ritorno fino al comando a calci nel culo. Provavo odio e rabbia. Il comandante diede l'ordine di fucilarli subito, in tre o quattro li presero e li portarono in un boschetto. Due mongoli caddero morti, il terzo, ferito, rotolò giù in una gola e riuscì a scappare. Non prenderlo fu un grave errore, perché qualche notte dopo arrivò un attacco che fece fuori tutto il distaccamento. Morirono sette o otto dei nostri». La tesi di Del Boca sulla dimensione delle violenze sessuali in quelle valli sembra confermata dal diario ­ recuperato da Scagni - di un prete in servizio all'ospedale di Varzi. Scrive il 2 dicembre 1944 don Alessandro De Tommasi: «Le gravi voci di violenza sulle donne da parte delle truppe germaniche, comprendenti uomini d'ogni nazionalità, vengono confermate da una circolare segreta inviata dall'autorità agli ospedali in cui si autorizzano gli aborti per far scomparire le prove della violenza». Segue un durissimo tua culpa contro la Rsi e il sovvertimento della morale cristiana. Ma quello che interessa qui è ipotizzare che nel pieno del rastrellamento l'autorità della Rsi (la prefettura di Pavia) si preoccupasse della questione. È verosimile? Secondo diverse testimonianze sì. Il fantasma dei mongoli era già in zona e vi immaginate come celare il frutto del peccato dai tratti caucasici? L’importante è che tutto rimanesse segreto. Così agirono anche i partigiani, nonostante alcuni diari raccontino di bandi affissi nel marzo '45 per invitare le donne violate a presentarsi all'ospedale. Ma non ci fu e non ci poteva essere una scelta politica o pubblica sullo stupro. Se aborti vi furono, non ne resta traccia ufficiale. Ne parlano diversi diari, indicando una data (inizio aprile) e un ginecologo di Pavia a cui era stato affidato in discrezione l'incarico. Lo stupro, ancora più della scelta di campo, è una questione privata da seppellire nel fondo delle cantine. A queste poverette rimase solo «l'onore del silenzio». D'altronde che cosa poteva fare una ragazza di Gazzola come la Nerina, nemmeno diciottenne, obbligata a sedersi su una stufa di ghisa arroventata perché si rifiuta di darsi ai mongoli e poi stuprata da 14 soldati in fila? Chi l'avrebbe più presa o desiderata se il fatto fosse stato pubblico? Quella violenza la condannava a vita. «Negli anni successivi la ragazza appariva rassegnata e spenta, non riuscivi mai a strapparle un sorriso, lavorava e viveva, ma era come se si fosse fermata», racconta Del Boca che la Nerina l'ha conosciuta, ma non chiedetegli il nome vero della donna. Il pudore e il rispetto. Ogni volta che ne abbiamo parlato Ugo Scagni ha sempre premesso: «Non chiedetemi i nomi, in quarant'anni io non li ho mai chiesti». Ma in paese tutti li sanno e sulle vite di queste donne e famiglie ­ e forse su quelle dei loro figli - pesa come un macigno la violenza e la sua rimozione forzata. Dei loro carnefici, invece, non rimane un nome, una tomba. Nel sacrario delle truppe tedesche al Passo della Futa (tra Fiorenzuola e Pistoia) una sola lapide collettiva ricorda la 162esima Turkestan, in mezzo a migliaia di croci della Wehrmacht. Le truppe mongole erano carne da macello e nessuno in guerra si dava troppa pena per la loro sepoltura. A volte, raccontano i partigiani, finivano a testa in giù nei letamai. Non erano nemmeno merce di scambio come prigionieri - i tedeschi non li consideravano - ma solo bocche da sfamare. È la guerra, da vincere e far finire, costi quel che costi. Il 5 febbraio comincia la riscossa delle colline, a marzo strade e paesi sono tornati liberi e il 12, come ricorda una lapide scritta a mano a Costa Pelata, «i partigiani travolsero nazifascisti e mongoli preannunciando la vittoria del 25 aprile». Dalle colline i mongoli sono finalmente scomparsi. Il loro destino, però, è segnato. A fine aprile 1945, la Turkestan è retrocessa verso le Alpi, a sud del Trentino-Alto Adige, inquadrata con altre divisioni tedesche nel 76° Panzer Korps agli ordini del generale von Graffen. Il settimanale Svoboda continua a propagandare la vittoria finale, mentre tutto il mondo è certo dell'imminente tracollo nazista. Gli uomini venuti dall'Est sono allettati dalla promessa di un Turkestan indipendente dall'Unione sovietica, una terra promessa dal Mar Caspio ai confini con la Cina. Il 4 maggio la divisione attestata a Moena si arrende agli americani, come annota sul suo diario il generale von Heygendorff. L’11 maggio i prigionieri vengono spostati in provincia di Belluno. Alcuni reparti fuggono al di là del Piave e si ricongiungono ad altri russi in ritirata verso l'Austria. Gli altri vengono concentrati a Modena, poi portati in treno a Taranto. Non sanno che la loro condanna è già stata decisa ai massimi livelli: alla Conferenza di Jalta, nel febbraio del 1945, Stalin aveva ottenuto dai britannici la consegna di tutte le truppe russe che avevano combattuto a fianco dei nazisti. L’accordo era rimasto segreto e gli inglesi lo onorarono con l'Operation Keelhaul: diedero la garanzia della salvezza a cosacchi, ucraini, «mon­goli» e a tutti gli altri, prima di caricarli sui treni per l'Urss. Alcuni morirono o si suicidarono nel trasporto, molti - in particolare gli ufficiali - vennero immediatamente uccisi dai sovietici, gli altri finirono nei gulag della Siberia. La Turkestan fu riconsegnata nel 1946. Il suo generale resterà prigioniero fino al dicembre del 1947 e morirà, libero e in pensione, nel 1953. Elia è uno dei pochi sopravvissuti. «Finita la guerra, ci ritrovammo tutti a Piacenza», ricorda Del Boca, «i georgiani volevano tornare a casa e noi gli esprimemmo le nostre perplessità. Avevano tradito tutti, i russi e i tedeschi, che cosa li attendeva in Unione Sovietica? Il nostro comando decise di dare a ciascuno di loro un attestato che dimostrasse che avevano combattuto contro i tedeschi. Non ero convinto e avevo ragione. I russi che avevano combattuto insieme ai nazisti finirono tutti ammazzati. I britannici furono di una crudeltà spaventosa, sapevano benissimo come sarebbero finiti. Elia si salvò perché invece di accodarsi al branco tornò a casa per conto suo. Arrivato a Tbilisi, grazie alle sue amicizie, nessuno lo toccò».

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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione

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