Diario

Nel 1936 un decreto per la «lotta contro la Piaga Zingara» dà il via ai primi trasporti di rom verso Dachau. Nell' anno delle Olimpiadi, zingari «e altra feccia» furono cacciati da Berlino: l'inizio dell'annientamento - Nel 1939 Eichmann scrive: «Mi pare che il metodo più semplice sia quello di agganciare a ciascuna tradotta di ebrei qualche vagone di zingari»

Wandertrieb, gene vagabondo

 

Luca Bravi

 

Una mattina, saranno state le quattro, le cinque, fummo svegliati di soprassalto dalla polizia, ci caricarono su un camion e con noi portarono via anche il nostro carro coperto, ci trasportarono a Berlino-Marzahn, io avevo appena compiuto nove anni, era il 1936, l'anno delle Olimpiadi». Otto Rosenberg era un sinto tedesco, uno di quei gruppi che fanno parte del popolo rom, quelle persone che ci ostiniamo a definire zingari. Quando Otto si siede di fronte al magnetofono di Ulrich Enzensberger e inizia il suo racconto che ripercorre con lucidità le tappe che avrebbero segnato il tentativo di distruzione di un intero popolo, sono trascorsi quasi 60 anni dalle vicende rimaste impresse nella sua memoria. Una mattina del 1936, quel sinto che si era sempre sentito profondamente tedesco si trova proiettato all'interno di un campo di raccolta, la città andava ripulita dalla feccia; erano in arrivo le Olimpiadi, ma soprattutto i cosiddetti zingari cominciavano a subire gli effetti della politica del Reich a loro avversa: i commentari alle Leggi di Norimberga non avevano dimenticato di indicarli tra i soggetti che dovevano essere colpiti dalla legislazione razziale, ma già dal 1934 il problema zingaro era stato affrontato ricorrendo immediatamente alla pratica della sterilizzazione coatta. Sempre nel 1936 un decreto per la «lotta contro la Piaga Zingara» aveva dato il via anche ai primi trasporti verso Dachau. Il campo di Berlino-Marzahn, nel quale stava entrando un bambino di appena nove anni, era un luogo di internamento cittadino riservato a zingari ed era il più grande della Germania. Sorgeva in periferia, vicino a uno dei principali snodi ferroviari ed era ben visibile dai treni di passaggio, tanto è vero che molti viaggiatori ricordano quell'area recintata nella quale erano stati rinchiusi tutti gli zingari della capitale: alcuni gettavano del cibo ai prigionieri, altri si rallegravano semplicemente del fatto che gente tanto pericolosa (arrestata in assenza di reato e soltanto perché zingari) fosse stata finalmente posta sotto il controllo diretto della polizia criminale. Quell'area di sosta forzata sarebbe comparsa pure nei filmati di propaganda del Reich in modo da rendere palese a tutti i tedeschi gli sforzi fatti dai nazisti per garantire la sicurezza sociale. «Berlino-Marzahn era un piccolo lager», prosegue Otto Rosenberg e le condizioni di vita sopportate dai suoi abitanti sembrano testimoniarlo: quel campo, giudicato inabitabile dal servizio del lavoro del Reich, aveva soltanto tre pompe d'acqua e due bagni per una popolazione che variava dalle 400 persone del 1937 alle 850 dell'anno successivo, tutte sistemate in 130 carri. Nel marzo del 1938, le autorità cittadine avrebbero denunciato 170 casi di malattie contagiose, mentre nell'anno successivo l'ufficio d'igiene comunicava che il 40 per cento degli internati aveva la scabbia e che erano stati riscontrati casi di scarlattina, difterite e tubercolosi; ma la situazione non destava alcun ripensamento a livello politico perché «gravi perdite di vite umane nella zona di confino ci preoccupano solo in quanto minaccia alla popolazione non zingara». Fin dalla sua creazione, Marzahn divenne una fonte fondamentale per le ricerche genealogiche cui si dedicarono il dottor Robert Ritter e i suoi collaboratori nel tentativo di classificare l'intera popolazione zingara della Germania. Robert Ritter, nato nel 1901 ad Aachen, in gioventù aveva collaborato con gruppi nazionalisti. Raggiunto il dottorato in Psicologia dell'istruzione a Monaco, si era laureato in medicina ottenendo successivamente la specializzazione in psichiatria infantile. Nel 1936 egli pubblicava uno studio su dieci generazioni di famiglie definite dallo stesso dottore come «fucine di vagabondi e ladri». Forti raccomandazioni da parte di esponenti di unità scientifiche del Reich gli garantirono i finanziamenti necessari per le sue ricerche eugenetiche sui vagabondi svolte in Svevia fino al 1941. Sempre nel 1936 lo stesso Robert Ritter veniva nominato direttore della nuova Unità d'igiene razziale e di ricerca biologico-demografica del Reich. Lo scopo del gruppo di ricerca era quello di dimostrare la natura genetica dei comportamenti criminali e asociali, ma già nel 1939 veniva chiarito che «quale primo e più urgente problema da risolvere si è presa in considerazione la questione zingara». La pericolosità del popolo rom veniva rintracciata in un gene, il Wandertrieb (l'istinto al nomadismo), che aveva causato il decadimento razziale e la naturale tendenza all'asocialità. Una simile considerazione si richiamava in modo esplicito alle affermazioni di Charles Benedict Davenport. Nel 1937 Adolf Würth, antropologo collaboratore di Ritter, indicava l'evidente parallelismo con cui stavano progredendo le due questioni razziali del Reich affermando che «oggi la Questione Zingara è per noi primariamente una questione razziale. Di conseguenza lo stato nazionalsocialista dovrà risolverla così come sta risolvendo quella ebraica. Noi abbiamo già iniziato. Ebrei e zingari sono già stati posti su basi identiche per ciò che riguarda i divieti matrimoniali e la regolamentazione relativa alle Leggi di Norimberga per la difesa del sangue tedesco. Gli zingari non sono di sangue tedesco né possono essere considerati legati al sangue tedesco». Eva Justin divenne assistente di Robert Ritter in giovanissima età e raggiunse il dottorato nel 1943 discutendo un lavoro di analisi sui bambini zingari. Proprio la Justin affiancò il dottore in tutte le principali analisi svolte sugli internati di Berlino-Marzahn e incontrò anche Otto Rosenberg: «Un giorno poi arrivarono al campo due esperti d'igiene razziale, il dottor Ritter e la sua assistente Eva Justin. Andavano in ogni baracca e in ogni carrozzone che c'era nel lager a interrogare la gente. Non dimentica­rono proprio nessuno. In cambio del disturbo ognuno ricevette un bel pacco di caffé: "Bene, adesso si faccia un bel caffé!". Vollero sapere tutto, da dove venivamo, chi erano i nostri genitori, chi i nostri nonni e così via». Eva Justin si interessava soprattutto alle ricerche sui bambini. Le analisi razziali svolte su di essi avrebbero rappresentato i riferimenti basilari per la sua tesi del 1943, proprio l'anno in cui quegli stessi ragazzi sarebbero stati imprigionati ad Auschwitz-Birkenau insieme alle loro famiglie. Le sue ricerche, effettuate su di un campione di 148 bambini zingari abbandonati in orfanotrofio, evidenziavano l'impossibilità di un recupero di tali soggetti a livello sociale: anche se inseriti ed educati in una società civile, le tare ereditarie impedivano a questi soggetti di superare la loro naturale asocialità, rimanevano dei «bastardi» e dunque era necessario arrestare l'incedere della «Piaga Zingara» ricorrendo alla sterilizzazione in età precoce ed evitare qualsiasi tentativo di educazione, poiché si sarebbe rivelato comunque infruttuoso. Le interviste agli zingari includevano non soltanto le domande relative alla ricostruzione degli alberi genealogici, ma anche la misurazione del cranio, l'analisi di varie caratteristiche fisiche, la rilevazione del colore degli occhi, spesso addirittura il calco di cera del volto dell'individuo analizzato. Otto Rosenberg ricorda: «Dovevamo, uno dopo l'altro, sederci su una sedia e il dottor Ritter analizzava gli occhi dei bambini, poi li interrogava; i suoi colleghi annotavano tutto. Dovevamo aprire la bocca e le nostre gengive venivano misurate con strani strumenti, poi le narici, la distanza tra gli occhi, il loro colore, le sopracciglia, le orecchie, sia fuori che dentro, il collo, la gola, le mani, ogni cosa veniva misurata». Da Marzahn, parla ancora Rosenberg, continuavano a sparire sempre più persone, si avvicinava ormai il 1943: nel dicembre del 1942 il capo delle Ss Heinrich Himmler aveva firmato il «decreto di Auschwitz», l'ordine decisivo con il quale si indirizzavano tutto gli zingari del Reich verso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Si erano infatti concluse le indagini dell'équipe di Robert Ritter che avevano confermato l'irrecuperabilità degli zingari a causa di una asocialità tutta di stampo razziale, questo li avvicinava in modo inequivocabile al medesimo destino del popolo ebraico. Lo stesso Himmler aveva fatto precedere l'ordine di invio ad Auschwitz da un atto promulgato il 7 agosto 1941 nel quale erano stati trascritti i criteri per la valutazione razziale del popolo rom: «Z» per indicare uno zingaro puro, «ZM+» per un soggetto che aveva più del 50 per cento di sangue zingaro, «ZM» per chi aveva sangue zingaro per metà, «ZM-» per chi aveva meno del 50 per cento di sangue zingaro, «NZ» per i non zingari. Con l'introduzione di queste precise classificazioni, l'aspetto razziale della persecuzione si mostrava in tutta la sua evidenza. La comunanza di destino di ebrei e zingari si era comunque già palesata mentre il Reich stava organizzando un primo tentativo di allontanamento dei due gruppi dai possedimenti tedeschi: in quel contesto, il 16 ottobre 1939, la lettera di Adolf Eichmann, capo dell'ufficio per l'emigrazione, in risposta ad Arthur Nebe, responsabile dell'ufficio centrale della Polizia criminale del Reich, circa chiarimenti sull'organizzazione dei trasporti di zingari verso l'est, dimostra che i meccanismi per la deportazione si stavano attivando: «Mi pare che il metodo più semplice sia quello di agganciare a ciascuna tradotta di ebrei qualche vagone di zingari». Molti di quei carri, due anni dopo, si aprirono effettivamente sulla rampa della stazione ferroviaria di Auschwitz e anche Otto Rosenberg, arrestato con un futile pretesto, si sarebbe trovato nella fila dei deportati indirizzati verso l'ingresso del campo di sterminio polacco, in attesa di vedere tatuato sul proprio braccio il numero Z6084­. Z perché zingaro e dunque soggetto da inserire all'interno dello Zigeunerlager (campo zingari) di Birkenau che aveva aperto le proprie porte nel febbraio del 1943. Quell'area di prigionia (la BIIe) era separata dalla zona ebraica da un fossato e da filo spinato ad alta tensione: molti sono stati gli ebrei che hanno reso testimonianza della prigionia degli zingari, anche in quel lungo periodo di silenzio e disinteresse sceso sulle vicende che riguardarono il popolo rom, prima fra tutti Miriam Novitch, ebrea che dedicò la propria vita alla testimonianza dello sterminio subito dal proprio popolo, ma anche a rendere giustizia ai cosiddetti zingari, lasciati colpevolmente all'esterno della memoria che stava lentamente sedimentandosi. Non erano i rom a non aver voluto raccontare: Matéo Maximoff, intellettuale di quello stesso popolo, aveva denunciato ciò che il proprio gruppo aveva subito ad Auschwitz in un articolo pubblicato nel 1945, ma tali vicende erano comunque state dimenticate. Nell'aprile del 1943 Otto Rosenberg aveva quindi raggiunto un campo per zingari nato dentro quello che era ormai da tempo un campo di sterminio, ma nell'area BIIe vigevano condizioni particolari di vita: si trattava di un «campo per famiglie» nel quale i rom entravano senza essere divisi per sesso, i loro capelli non venivano rasati, le donne continuavano a partorire bambini. Tutto questo non deve comunque essere scambiato per un trattamento privilegiato; in quel campo si moriva: i neonati morivano tutti entro pochi giorni, le condizioni di vita erano in ogni caso agghiaccianti e cataste di morti agli angoli delle baracche sono descritte da molteplici testimoni. Gli zingari di Auschwitz conducevano una vita differente dagli altri internati semplicemente perché rappresentavano il materiale umano messo a disposizione degli scienziati della razza e di Josef Mengele, che nello Zigeunerlager aveva il proprio laboratorio. I rom rappresentavano la migliore delle cavie, perché considerati ariani imbastarditi: provenienti anticamente dal nord dell'India, ma contagiati dal sangue delle razze inferiori dell'Est con il quale erano entrati in contatto durante il loro girovagare, essi erano quanto di più adatto si potesse offrire alla ricerca pseudoscientifica del Reich, rivolta alla conservazione di una razza superiore. Otto Rosenberg riuscì a lasciare il campo di Auschwitz il 2 agosto del 1944 durante l'unica selezione cui furono sottoposti anche i prigionieri dello Zigeunerlager, una cernita motivata dalla volontà di individuare i soggetti utili alla produzione bellica da inviare a Buchenwald. Quella stessa notte lo Zigeunerlager di Birkenau fu totalmente liquidato così come racconta una voce ebraica: «Verso mezzanotte lo spogliatoio era pieno di persone. L'inquietudine cresceva di minuto in minuto. Si sarebbe potuto credere di essere in un gigantesco alveare. Da ogni parte si sentivano grida disperate, gemiti, lamenti pieni di accuse. Molle i suoi aiutanti tolsero la sicura alle pistole e ai fucili e spinsero a tutta forza e senza pietà le persone che intanto si erano spogliate, fuori dallo spogliatoio e dentro le tre camere a gas, dove dovevano essere uccise. Mentre percorrevano l'ultimo corridoio molti piangevano per la disperazione, altri si facevano il segno della croce e imploravano Dio. Anche dalle camere a gas si potevano ancora sentire per un poco grida disperate e richiami, finché il gas letale non fece effetto e spense anche l'ultima voce». Le voci del campo zingari del lager di Birkenau scomparvero nella notte della sua liquidazione e su quel genocidio calò l'imbarazzante silenzio che si è conservato per decenni. Non solo non se ne trova traccia nei libri di storia, ma nessun testimone zingaro fu chiamato a deporre neppure al processo di Norimberga. A oggi, soltanto una guardia semplice di Auschwitz è stata condannata specificamente per crimini contro gli zingari. Durante il processo Eichmann il capo d'imputazione relativo alla persecuzione degli zingari fu annullato anche se l'imputato aveva direttamente ammesso di essere a conoscenza del fatto che quei rom trasportati sui convogli erano destinati a morte certa. Il dottor Robert Ritter tornò indisturbato a esercitare come psichiatra infantile e fu elogiato dal nuovo governo tedesco per la sua conoscenza in fatto di zingari, Eva Justin fu assolta nel processo intentato ai suoi danni, Adolph Würth continuò a lavorare negli uffici statali di Baden fino al I970. Chi raccontò la storia dei rom subito dopo la Seconda guerra mondiale, fu invece Hermann Arnold, strenuo difensore delle tesi razziste avverse agli zingari e pesantemente compromesso dalla fraterna amicizia con la stessa Justin. Egli ribadì che i rom erano entrati ad Auschwitz per proprie responsabilità e che la nuova Germania avrebbe dovuto proseguire nell'allontanamento di questi individui pericolosi per la società. La sua voce fu ascoltata e ottenne riconoscimento, tanto che operò come esperto delle questioni rom presso il ministero per la Famiglia di Bonn. Intanto restano i segni di una colpevole rimozione: in Italia la persecuzione subita dai rom durante il periodo fascista e gli studi razziali svolti su di essi restano un tassello mancante della ricostruzione storiografica altrove, in Cecoslovacchia, il governo aveva intanto reso inaccessibili i documenti relativi al campo di Lety, una zona di internamento riservata a zingari rimasta in funzione dal 1930 al 1945, firmava a Helsinki gli accordi per la Sicurezza e la cooperazione europea che prevedevano che tutti i campi di morte della Seconda guerra mondiale dovessero essere conservati nel loro stato originale come luoghi della memoria, ma appena tre anni dopo, la neonata Repubblica Ceca chiudeva la questione cedendo il terreno a un gruppo di imprenditori che vi costruiva un allevamento di suini; oggi su quelle macerie scorazzano dei maiali. Otto Rosenberg riuscì a fare ritorno a casa grazie alla liberazione operata dalle forze alleate, era ormai da solo, i suoi cari erano tutti morti durante la persecuzione e venivano conteggiati in quel mezzo milione di vittime cui si fa riferimento quando si tenta, con estrema difficoltà, di stimare le perdite subite dai rom (la cifra è approssimativa, ma pare rappresenti l'80 per cento dell'intero gruppo dei rom presenti prima della guerra), su tali vicende calò quel medesimo silenzio che Elisa Springer ha definito «il silenzio dei vivi». Quel silenzio ha avvolto da sempre il genocidio dei rom dei lager, poi qualcuno ha parlato, altri hanno raccontato e un sinto di Berlino che si era da sempre considerato semplicemente un tedesco, dopo cinquanta anni, ha affidato alle pagine di un libro le memorie che abbiamo ripercorso. Il passo fondamentale è stato fatto, adesso tocca ad altri ritagliare uno spazio di ascolto e condivisione per interrogarsi nuovamente sul genocidio nazista anche alla luce dei moderni concetti di una globalizzazione che continua a parlare la sola voce di gruppi dominanti e di potere, dediti a un nuovo e moderno etnocidio.

L'analisi puntuale dei documenti citati è rintracciabile in L. Bravi, Altre tacce sul sentiero per Auschwitz. Il genocidio dei rom sotto il Terzo Reich, CISU, Roma, 2002.

Il racconto di Otto Rosenberg è pubblicato in O. Rosenberg, La lente focale, Marsilio, Venezia, 2000.

Alcuni estratti della testimonianza di Otto Rosenberg sono disponibili sul documentario radiofonico curato da Andrea Giuseppini e scaricabile dal sito www.radioparole.it alla voce Porrajmos.

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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione

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