Diario

Incontro con Nello Aprile, l'architetto che, giovanissimo, progettò il mausoleo delle Fosse Ardeatine. I ricordi dell'orrore e della pietà

Memoria di pietra

 

Emanuele Salvato

 

«Calcolai quanti minuti fossero necessari per la fucilazione d'ognuna delle 320 vittime (alla fine saranno 335, ndr). Calcolai anche le armi e le munizioni necessarie. Cercai di rendermi conto di quanto tempo avessi a mia disposizione. Divisi i miei uomini in piccole squadre che avrebbero dovuto alternarsi. Ordinai che ogni uomo sparasse un solo colpo, specificando che la pallottola avrebbe dovuto raggiungere il cervello della vittima attraverso il cervelletto, in modo che nessun colpo andasse a vuoto e la morte fosse istantanea». Questa la fredda e lucida ricostruzione dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, rilasciata al processo in un tribunale italiano - che lo condannò all'ergastolo nel 1947 - da Herbert Kappler, capo della Gestapo a Roma. Fu lui, insieme a Erich Priebke (ancora agli arresti domiciliari, dopo la condanna al carcere a vita), uno dei protagonisti del massacro di 335 civili innocenti, il 24 marzo 1944, alle cave di pozzolana in via Ardeatina, poco fuori Roma. Vittime senza colpa, gente rinchiusa nelle carceri romane di Regina Coeli e di via Tasso perché vicina alla Resistenza o perché di religione ebraica; merce di vendetta, utile a mettere in atto la rappresaglia per l'attentato partigiano di via Rasella, avvenuto il giorno precedente, in cui avevano perso la vita 33 soldati dell'undicesima Compagnia del Polizei Regiment Bozen. «Dieci dei loro per ognuno dei nostri» fu l'ordine di Hitler e alla fine, grazie anche alla confusa complicità delle autorità fasciste in loco (in primis del questore Pietro Caruso e del ministro repubblichino Guido Buffarini Guidi) furono più di dieci. I tedeschi, infatti, nel prelevare le loro vittime sacrificali, si confusero e portarono via qualche persona in più del previsto. Se ne accorsero solo all'arrivo nelle cave Ardeatine, troppo tardi per gli «eccedenti» che, scomodi testimoni, furono giustiziati con gli altri in una notte di terrore, che vide i soldati delle Ss, dallo stomaco notoriamente forte, fare ricorso abbondante all'alcol per portare avanti il massacro a catena. Alla fine, in fondo alla grotta delle Fosse romane, i cadaveri, disposti su cinque strati, ammassati l'uno sull'altro, raggiunsero il numero di 335. Terminato il lavoro, i soldati tedeschi fecero saltare, con cariche esplosive, la grotta divenuta ormai un'oscura fossa comune. Non sarebbe dovuta rimanere traccia dell'eccidio. Per evitare che la puzza dei cadaveri in decomposizione attirasse l'attenzione di qualcuno, i militari nazisti, nei giorni successivi alla strage, fecero scaricare camion di spazzatura in modo da confondere gli odori di morte con quelli dell'immondizia. «Fu terribile lavorare in quelle condizioni. I primi sopralluoghi li facemmo verso la fine del 1944, mentre il riconoscimento delle vittime dell'eccidio era ancora in corso. Ogni giorno ci confrontavamo con il dolore dei familiari, che avevano perso i loro cari nelle Fosse Ardeatine: noi perlustravamo la zona per inventarci come sistemarla, loro, i familiari, si muovevano fra i feretri ammassati a terra per identificare i volti, o quel che rimaneva, delle persone amate». Nello Aprile, architetto novantatreenne a cui appartengono queste parole, è l'unico rimasto in vita del gruppo che realizzò la sistemazione monumentale delle Fosse Ardeatine. Nascosto dietro ai suoi occhiali, Aprile fatica a celare la commozione, che il ricordo di quei giorni ancora gli procura. A lui e ad altri suoi colleghi e amici la sorte consentì di realizzare una pietra miliare della memoria, per una delle più cruente carneficine messe in atto dai nazisti sul finire della seconda guerra mondiale. Mentre racconta quei momenti, seduto nella sala della cascina immersa nel verde delle campagne mantovane dove passa parte delle vacanze estive, con gli occhi sembra cercare un punto da fissare. Un punto che gli consenta di far fluire i ricordi di un periodo tormentato per il Paese e importante per lui, che il destino aveva voluto eleggere architetto del ricordo nell'immediato dopoguerra. Frangente temporale, quest'ultimo, che dietro di sé ha lasciato lacrime, sangue, morte, ben cristallizzati sul tufo delle grotte in via Ardeatina. «Verso la fine del 1944», spiega Nello Aprile, «il Comune di Roma bandì un concorso, il primo d'architettura del dopoguerra, per la sistemazione cimiteriale delle Fosse Ardeatine. Allora avevo trent'anni, ero un giovane architetto alle prime armi e mi sembrava una buona occasione di lavoro. Con Mario Fiorentino, Cino Calcaprina e Giuseppe Perugini decidemmo di gareggiare e alla fine ci aggiudicammo il bando». Ai giovani architetti si aggiunsero, poi, anche due scultori: Mirko Basaldella, che realizzò gli splendidi cancelli d'ingresso in bronzo, e Francesco Coccia, autore del gruppo scultoreo dei martiri. Il pool d'architetti e scultori si mise subito al lavoro. Innanzitutto, c'erano da fare i sopralluoghi alle Fosse di via Ardeatina e quello che i giovani professionisti si trovarono di fronte, Aprile l'ha già anticipato, ma aggiunge: «Mi impressionò molto lavorare in quel clima. I tedeschi, dopo il massacro, fecero saltare la grotta per cui ci vollero parecchi mesi per recuperare le salme interrate. Tanto che quando noi arrivammo in loco, le operazioni di riconoscimento erano ancora in pieno svolgimento. Vidi i parenti disperati aggirarsi attoniti fra le casse da morto e alcuni mi raccontarono che certi cadaveri erano stati rinvenuti con le unghie piene di terra e spezzate a causa dello sforzo, mi spiegarono poi, messo in atto per cercare di aprirsi un varco nella terra verso la luce. Erano stati sepolti vivi. Altri morti furono trovati ad alcuni metri dall'esecuzione, segno che, forse, avevano cercato di trascinarsi nell'estremo tentativo di uscire da quell'inferno». Insomma, per Aprile e soci non fu facile lavorare in quelle condizioni. Allo stesso tempo, il clima surreale e tetro fu anche fonte d'ispirazione per l'opera che erano stati chiamati a realizzare: un'opera che doveva rispondere alle esigenze dei familiari - che avevano richiesto espressamente l'edificazione di un mausoleo per i loro cari - e alla portata dell' evento da celebrare. Alla fine, dopo mesi di studi e sopralluoghi, il progetto del sacrario delle Fosse Ardeatine venne elaborato dal gruppo di lavoro. Il grandioso monumento che ne scaturì è una sintesi architettonica, estremamente eloquente, di semplicità e austerità. L'opera abbraccia in un unico complesso le grotte dove ebbe luogo il massacro, il mausoleo dove sono state sistemate le salme delle 335 vittime e il gruppo scultoreo dei martiri: «Non è stato facile», ammette Nello Aprile, «trovare l'idea giusta, ma alla fine ci riuscimmo. Anche se devo confessare che l'opera più discussa e tormentata fu il mausoleo in cui sistemammo le tombe. I parenti delle vittime, infatti, in un primo momento non approvarono il nostro progetto e lo contestarono. Avrebbero preferito qualcosa di più celebrativo e maggiormente legato alla retorica funeraria. La loro proposta fu quella di un colosseo in scala con colonnine riportanti i nomi delle 323 salme identificate, mentre una sezione a parte sarebbe stata riservata ai 12 ignoti. Ci rifiutammo categoricamente di mettere mano a un progetto del genere. Ora credo che anche i familiari siano soddisfatti di ciò che abbiamo creato». Il mausoleo realizzato è composto da una grande pietra tombale (50metri per 25), che copre tutte le bare delle vittime, disposte l'una fianco all'altra. Ogni cassa riporta i nomi degli identificati, mentre la dicitura «ignoto» campeggia sulle lapidi dei senza nome. La pietra sepolcrale è leggermente sollevata dai feretri, in modo da permettere alla luce di penetrare tutt'intorno. «Le bare», spiega l'architetto Nello Aprile, che a Varsavia Sulejowk, in Polonia, nel 1990, ha progettato un «luogo del ricordo» per i bambini caduti ad Auschwitz, «sono poste tutte sullo stesso piano per evidenziare l'uguaglianza delle vittime di fronte a quella terribile morte, nonostante le diverse estrazioni sociali. In secondo luogo, però, con quella grossa pietra che copre i feretri abbiamo inteso aumentare il senso d'oppressione per chi entra nel mausoleo. Ma non ci siamo dimenticati di lasciare un segno di speranza, incarnata dalla luce che penetra dalle fessure tutt'intorno all'opera commemorativa. Inoltre, per evitare che il senso di schiacciamento, entrando nell'ipogeo, fosse eccessivo, abbiamo creato un ingresso con un rialzo di tre gradini, inclinato il pavimento e dato una doppia curvatura in due sensi al lastrone di pietra. Per ottenere quest'ultimo risultato abbiamo fatto lavorare la pietra tombale da 50 scalpellini reclutati in fretta e furia per tutta Roma. Questi hanno scolpito il masso donandogli un aspetto granuloso e morbido, sia all'interno che all'esterno». Per concretizzare il loro progetto, Nello Aprile e i suoi colleghi hanno utilizzato tufo (soprattutto per rinforzare le gallerie lesionate dopo l'esplosione provocata dai nazisti), pietra «sperone» - che si trova nel Lazio e conferisce una colorazione rosacea, particolarmente rilassante e adatta a un luogo sacro - e spacca di cava per il pavimento e le pareti del sepolcro. I pilastri in cemento armato, che sostengono l'enorme pietra tombale (rivestita da un getto di cemento e breccia di Bescia), sono ricoperti in porfido del Trentino, mentre le sepolture sono in granito trattato alla punta. Intorno al mausoleo sorgono cipressi e pini che creano un'atmosfera di tranquillità in cui i 335 martiri possono riposare in pace dopo tante inutili sofferenze. Anche se non tutti. A dire il vero, le vittime dell'eccidio furono 336. Sì, perché i libri di storia dimenticano, tuttora, Fedele Rasa, una signora di 74 anni che, intenta a raccogliere cicoria in un campo di fronte alle Fosse, fu vista da un soldato nazista. Questo le intimò di andarsene, ma Fedele, oltre che affamata da una guerra che non aveva voluto e l'aveva costretta a cibarsi di cicoria ed erbacce, era anche un po' sorda e non sentì. Si avvicinò per capire che cosa volesse quell'uomo armato, lui le sparò, lei morì sul colpo. Un posticino per Fedele, forse, potrebbe essere ricavato all'interno del mausoleo. Anche se morta fuori dalle Fosse, fu una vittima innocente della follia nazifascita in via Ardeatina.

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da «Diario del mese», 26 gennaio 2007, per gentile concessione

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