Diario
«Ma
Hitler amava la mamma»
In
Lituania ha fortuna un romanzo che riabilita l'aspetto umano del Führer. Un
altro libro (ora in uscita in Italia) ricorda però «L'incredibile verità»: i
nazisti sterminarono il 94 per cento dei 240 mila ebrei che abitavano il Paese
Mario
Alessandro Curletto
Nella
vasta area che corrisponde, grosso modo, ai territori delle odierne Lituania,
Lettonia, Bielorussia occidentale e Ucraina occidentale può accadere che
una città, un fiume, un lago vengano indicati con due o più toponimi diversi,
coniati dai popoli che, storicamente, da quelle parti hanno convissuto in modo
più o meno pacifico. Si tratta di un fenomeno del tutto normale e risaputo,
basta consultare una carta geografica per rendersene conto. Può sorprendere di
più, forse, il fatto che un destino analogo tocchi anche alle persone. La
protagonista di questa storia, per esempio, sulla copertina del suo libro di
memorie, scritto in russo, compare come Zhanna Ran-Carnyj (Carnyj è il
cognome del marito), ma nella traduzione lituana della stessa opera diventa
Zhana Ranaité-Carniené, mentre nel luglio 1939, quando il quotidiano lituano
Lietuvos aidas ebbe modo di occuparsi di lei (a quel tempo studentessa
di un liceo cattolico parigino), sotto la sua fotografia comparve la
didascalia «Ona Ranaité». E oggi che vive in Israele si firma Anna
Ran-Tcharnyi. La protagonista di questa storia è un'ebrea nata nel giugno 1920
nell'Ucraina centrale, a Elizavetgrad (dal 1939 Kirovograd e oggi Kivohrad,
per gli ucraini) città della madre, Vera. In quel tempo il padre, Grigorij Ran,
originario di Kaunas (Kowno per i polacchi, Kovno per i russi) in Lituania,
prestava servizio nell'Armata rossa come medico militare. Lo zio paterno,
avvocato ventiquattrenne, era appena stato ucciso dai nazionalisti ucraini
del generale Symon Petljura, nel corso di un pogrom. Nel 1921 Grigorij Ran fu
congedato dall'Armata rossa e decise di tornare a Kaunas con la moglie e la
bambina piccola. Il potere sovietico gli mise a disposizione un vagone
merci, in cui la famiglia si sistemò con il mobilio e tutto il resto, con una
piccola stufa a legna per il riscaldamento. Era inverno, e il viaggio durò un
mese intero. Attratto da interessanti prospettive professionali il giovane
medico ben presto si trasferì con la famiglia a Jonava,
cittadina dall'altissima percentuale di popolazione ebraica, dove per
vent'anni avrebbe diretto l'ospedale locale. All'età di otto anni Zhanna
(adottiamo il nome scelto nella rievocazione delle vicende straordinarie e
dolorosissime della propria vita) fu iscritta al ginnasio tedesco di Kaunas.
Ma nella Lituania di Antanas Smetona, dittatore salito al potere nel 1926 e
impegnato a plasmare lo Stato sul modello dell'Italia fascista, sia pure senza
l'introduzione di leggi razziali, la vita della minoranza ebraica (circa il
7,5 della popolazione complessiva) diventava di anno in anno più difficile.
Così l'istruzione di Zhanna, come quella di molti coetanei ebrei, seguì un
percorso oltremodo tortuoso, nel tentativo di arginare la strategia di
esclusione e isolamento che i fascisti lituani mettevano in atto nei confronti
del suo popolo: il già menzionato liceo tedesco (da cui gli ebrei furono «invitati»
a ritirarsi), il ginnasio statale con insegnamento in lituano, un ginnasio
privato ebraico con insegnamento ugualmente in lituano ne furono le tappe
principali, prima del trasferimento a Parigi, presso lo zio materno, che nella
capitale francese si era trasferito da pochi anni, proveniente da Leningrado,
riuscendo a fare rapidamente fortuna nel commercio. Fu così che la diciottenne
ebrea provò le regole ferree di un collegio femminile cattolico, molto
esclusivo peraltro, visto che una delle sue compagne di corso e amiche era
addirittura una Rothschild. Ma nell'autunno del 1939 la sua esistenza subì
una svolta fatale: il deteriorarsi della situazione politica in Europa le
impedì di tornare a Parigi dopo le vacanze estive: e l'anno dopo seguì il
trasferimento con la famiglia a Vilnius (Vil'no per i russi, Wilno per i
polacchi, Wilna per i tedeschi), nel frattempo divenuta capitale della Rpubblica
socialista sovietica di Lituania. Là Zanna conobbe l'occupazione tedesca
(24 giugno 1941), l'internamento nel ghetto e un crescendo di orrori
raccapriccianti, fasi premeditate di un piano di indicibile malvagità, che sterminò
il 94 per cento della popolazione ebraica della Lituania (circa 240 mila persone
alla vigilia della Seconda guerra mondiale). Tuttavia il provvidenziale
dono di un passaporto tedesco a nome di Margarita Rutkovski, e un aspetto
sfacciatamente ariano, sottrassero la giovane ebrea all'agonia del ghetto di Vilnius, e la condussero addirittura nella sezione di Minsk (Bielorussia)
del ministero nazista per gli Affari dei territori orientali occupati. Da lì
il passaggio nelle file dei partigiani sovietici fu scelta coraggiosa al limite
della temerarietà, visti i rischi di essere smascherata dagli uni e creduta una
spia dagli altri. A guerra finita, la maniacale e inumana sospettosità del
regime staliniano le costò, naturalmente senza alcuna colpa, quasi sei anni
di detenzione, tra la prigione interna della Lubjanka, a Mosca, e il gulag di
Nizhnij Tagil, negli Urali. Scontata la pena, all'inizio del 1950 Zhanna si
ritrovò praticamente sola al mondo, visto che le uniche parenti rimaste
vivevano a Mosca, e la capitale, insieme con altre 38 città sovietiche e
l'intero territorio delle tre Repubbliche baltiche, figurava nella lista dei
luoghi dove non avrebbe mai potuto risiedere. Posta di fronte all'ignoto
assoluto, fece una scelta sentimentale, decidendo di scegliere come proprio
domicilio Elizavetgrad (nel frattempo ribattezzata Kirovograd), la città di
sua madre, dove lei stessa era nata, ma della quale non serbava il benché
minimo ricordo. Nella provincia ucraina la vita era dura per tutti, figurarsi
per un'ebrea venuta dal nulla, che come referenze poteva presentare solo una
condanna a cinque anni di Gulag per un reato politico. Ma ancora una volta lei
sopravvisse, e le riuscì persino di mettersi in contatto con alcuni compagni
di scuola di Vilnius, dei quali non aveva notizie da più di dieci anni. Nel
1952 li andò a trovare, contravvenendo le norme sul soggiorno obbligato,
sulla cui osservanza vegliava nientemeno che l'Nkvd. Quella volta se la cavò
con una reprimenda. Nel 1953, dopo la morte di Stalin, Zhanna lesse sull' Izvestija
di un'amnistia concessa per i reati minori (non oltre i cinque anni di
pena), sia comuni che politici. Giornale alla mano, si recò al comando
cittadino dell'Nkvd, e «pretese» che le fosse concesso di tornare a vivere
in Lituania. I funzionari della polizia politica cercarono di dissuaderla,
facendole balenare l'ipotesi inquietante di un nuovo processo da celebrarsi a Vilnius, ma di fronte alla sua determinazione nulla poterono. Nell'estate del
1953, esattamente dieci anni dopo esserne dovuta fuggire sotto falso nome con
un passaporto tedesco, Zhanna tornò a Vilnius, per restarvi. Tutti i suoi beni
stavano dentro una rudimentale valigetta costruita ai tempi del Gulag. I
primi mesi furono molto difficili: trovare un tetto, un lavoro, un permesso di
soggiorno pareva impossibile. Ma Zhanna non poteva certo scoraggiarsi proprio
allora. Non lo fece, e si ricostruì una vita dignitosa. Nel 1956 sposò Maks
Carnyj, lituano da poco tornato dalla Siberia, dove la sua famiglia (come altri
sedicimila connazionali) era stata deportata da Stalin nel 1941. Per decenni,
fino all'inizio degli anni Novanta, Zhanna Ran-Carnyj trattenne la spinta
interna a raccontare la propria esistenza, ma infine si piegò a una necessità ineludibile: quella di far rivivere e con nome, cognome, carattere,
professione, decine e decine di persone a lei care (in primo luogo i genitori e
il fratello) di cui non era rimasto nulla se non il suo ricordo, e di rendere
merito a uomini e donne di nazionalità diversa (ebrei, lituani, bielorussi,
russi, ucraini), che in mezzo alle atrocità e al trionfo del lato peggiore
dell'essere umano, a rischio delle propria vita, le avevano fornito un aiuto,
senza il quale anche la sua energia e il suo coraggio straordinario sarebbero
stati vani. Nel 1993 fu pubblicato a Vilnius il libro delle sue memorie,
scritto in russo e intitolato L'incredibile verità. L'anno seguente
sarebbe stato tradotto in lituano e nel 2000 in inglese (la traduzione italiana
uscirà tra qualche settimana dalla casa editrice il melangolo). In Lituania
le memorie di Zhanna Ran-Carnyj sono uscite alla luce solo grazie alla
scelta coraggiosa di una piccola casa editrice senza alcuna risonanza mediatica,
fatto comprensibile, visto che andavano a toccare uno dei momenti più bui,
meno gloriosi della vicenda storica della nazione appena tornata indipendente.
Oggi quel passato non pare più provocare imbarazzo. C'è chi invita a rendere
«giustizia», considerandoli «combattenti per l'indipendenza», ai lituani che
si arruolarono nella Wehrmacht, nelle Ss, nella polizia locale al servizio degli
occupanti, e si dedicarono con zelo allo sterminio degli ebrei; come esempio
da seguire indica la vicina Lettonia, dove i generali lettoni delle Ss, a suo
tempo decorati da Hitler, sono oggi ufficialmente definiti eroi nazionali. In
Lituania non si è giunti a questo punto, e il recente tentativo di fondare un
partito apertamente filonazista e antisemita è fallito. Tuttavia più delle
prese di posizione di qualche storico e politologo estremista, a dare il senso
dell'atteggiamento della società lituana contemporanea verso l'epoca
dell'occupazione tedesca e del nazismo in genere, è la pubblicazione,
risalente a pochi mesi fa, di un romanzo che ha come protagonista Adolf Hitler.
Già il titolo esplicitamente romantico,
La luce della luna
in una finestra
buia, fa presagire «interessanti»
sviluppi. E infatti l'autrice, Vaida Maria Knabikaite, dichiara di avere
voluto rappresentare, per la prima volta nella storia, il Führer come «un
vero essere umano, con una vera anima». Se la giovane scrittrice sedotta
dalla personalità di Hitler avesse fatto stampare il suo lavoro presso una
piccola casa editrice periferica ci si potrebbe permettere di circoscrivere
il fatto nell'ambito di una curiosa inclinazione individuale. E invece non
solo il romanzo è uscito per i tipi di un autorevole editore delle capitale, ma
il primo giornale del paese Lietuvos rytas, di solito poco propenso a
concedere spazio a giovani talenti letterari, ha pubblicato una lunga e per
certi versi stupefacente intervista alla semisconosciuta autrice. Sul conto del
Führer, il giornalista intreccia una serie di delicati eufemismi, al punto che
quella di «personalità non comune, che ne ha combinate delle belle» (sic)
spicca come la definizione
più critica. Quanto alla
trentunenne Vaida Maria Knabikaite, invitata a fornire una propria definizione
della personalità di Hitler, risponde: «Si tratta di una delle personalità
più contraddittorie e mistiche del Novecento. Mi occupo anche di altri
giganti, quali Cesare e Napoleone. Adolf Hitler è stato il più strano dei
giganti. Gli storici che di lui hanno scritto esprimono meraviglia per le sue
azioni illogiche, per la sua follia. Per me l'aspetto più interessante è che
egli è stato il più irrazionae di tutti i grandi condottieri». Più avanti
la scrittrice confessa, tra l'altro, di avere in comune con il protagonista del
suo libro lo «spirito battagliero», ma afferma di non essere particolarmente
interessata alle sue imprese belliche, su molte delle quali in effetti nel
romanzo sorvola. Evidentemente non ancora del tutto soddisfatto,
l'intervistatore le chiede, in ultimo, di mettere in evidenza almeno una buona
qualità del creatore del Terzo Reich. Ed è qui che Vaida Maria Knabikaite
attinge il culmine del lirismo: «Questa qualità è lo sconfinato, sincero
amore per la madre. Amare la propria madre, per un essere umano, significa
molto, ed è segno di umanità». Come a garantire che si tratta di cosa
seria, Lietuvos rytas accompagna all'intervista un parere sull'opera
espresso da Regimantas Tamoshaitis, docente di letteratura lituana
all'università di Vilnius: «Il libro reca l'impronta dell'ispirazione e del
talento letterario, intriga e sorprende, colpisce per la narrazione, i
caratteri e le peripezie dei destini individuali». Di espressioni quali «campi
di sterminio», «Auschwitz», «ghetto di Vilnius», «processo di Norimberga»
nessuna traccia.
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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione |