Diario
Nihil
obstat quominus imprimatur
P.
C. SARTORI O.F.M.
Ex
parte Ordinis imprimi potest
Fr.
M. FAUST O.F.M.
Deleg.
Glis.
E
Vicariatu Urbis, 13-11-1950
†
A. TRAGLIA, ARCHIEP. CAESAR.
Vicesgerens
Nazisti
con l'imprimatur
Un
libro scritto nel 1950, scoperto
da Enzo Sellerio, è così
antisemita da considerare Hitler un'autorità. L'autore
è un francescano, c'è il nullaosta di Roma
Giacomo
Papi
Ci
voleva l'occhio di Enzo Sellerio, cioè l'occhio del fotografo e dell'editore,
per avvistare su una bancarella del mercato delle pulci di piazza Marina a
Palermo quel «bel volumetto, vestito a festa nel suo aspetto tipografico» (così
nella presentazione). «Credevo fosse uno di quei romanzi rosa alla Guido da Verona che mi divertono molto», racconta Sellerio. «Un paio di mesi dopo
l'ho ripreso in mano e ho capito che si trattava d'altro. Lo stavo buttando via,
ma mi sono detto che, prima di gettare nell'immondizia qualsiasi vecchio
libro, un editore aveva il dovere di darci un'occhiata». Il titolo è Cavalieri
dell'amore, l'anno il 1950. L'autore è padre Ambrogio Peruffo dell'ordine
dei frati minori. L'editore Fiamma Nova di Roma è una filiazione di Fiamma, mensile
dell'ordine francescano regolare. Sul retro del frontespizio compaiono tre
imprimatur, l'ultimo dei quali della diocesi di Roma: «E Vicariatu
Urbis, 13-11-1950 †
A. Traglia, Archiep.
Caesar, Viceregens». Il volume è dedicato «Al Rev.mo P. Pacifico M. Perantoni, ministro generale dei frati minori». Impianto e struttura dell'opera si chiariscono dopo una presentazione grondante retorica, firmata da «Fr.
Guido Costantini, Commissario Gen. del T.O.F. d'Italia», cioè del
Terz'ordine francescano. Si tratta, spiega fra' Guido nella presentazione, di
quindici ritratti di moderni «cavalieri» accomunati dal loro «amore al
Serafino d'Assisi, che li ha cinti del cordoglio francescano ed ha loro donato
il mordente serafico della santità e dell'apostolato». Qualche riga più giù,
il frate si esalta: «O nobili Cavalieri del lavoro per Iddio e per le
anime: Leone Harmel, Carlo Lueger»... Che nel 1950, cinque
anni dopo
la liberazione
di Auschwitz, un libro francescano con tutti gli imprimatur del caso, celebrasse
Karl Lueger, borgomastro antisemita di Vienna tra il 1897 e il 1910, che Adolf
Hitler venerava come un maestro, può apparire sgradevole, ma non deve stupire
troppo. Il nome di Lueger compare ancora oggi in molti libri cattolici, con toni
non sempre di condanna. A lasciare stupefatti e spaventati sono, invece, i
contenuti violentemente antisemiti e nazisti della perorazione. Il capitolo
dedicato a Lueger è intitolato: «Martello degli ebrei». Già alla sesta
riga si legge: «Il suo nome rimane scolpito nel bronzo della storia, per aver
infrante le dure catene della schiavitù economica e politica ebraica, che
inceppava la vita e lo sviluppo della città di Vienna». La santificazione
prosegue in un crescendo che lascia sconcertati. «Gli ebrei, nella seconda metà
dell'Ottocento, favoriti dalle leggi, affamati d'oro e di metalli, calavano
dalla Galizia e dalla Russia, per assaltare la capitale dell'Impero. Vienna, con
i suoi ghetti, era divenuta una città giudaica, un quartiere generale d'incettatori
d'oro, di milionari, arricchitisi a spese dello Stato e del popolo, dissanguato
dall'immani usure, grondanti lagrime e sangue. E, con queste benemerenze, si
meritavano anche d'essere nominati Cavalieri e Baroni dell'Impero. Con l'aiuto
dei liberali, erano riusciti ad occupare facilmente i gangli della vita
economica e politica: le Borse, il commercio, l'industria, gli affari, la
stampa; e a dominare pienamente nel Municipio, nella Dieta Provinciale, nel
Parlamento. Col trionfo ebraico-liberale, seguirono le nuove leggi
anticristiane, condannate come abominevoli da Pio IX; stracciato il Concordato
con la Santa Sede, la Chiesa fu asservita allo Stato». A costituire il cuore
di un libro scritto e pubblicato, dopo la Shoah, da francescani e benedetto dal
vice del cardinal vicario di Roma (carica che, per intenderci, oggi ricopre
Camillo Ruini), sfilano gli argomenti classici dell'antisemitismo più becero.
L'apoteosi arriva un paio di pagine più in là. «Adolfo Hitler ne "La
mia vita"», continua padre Ambrogio, «ci dà la valutazione politica in
un chiaro parallelismo tra Carlo Lueger e Giorgio von Schonerer, da cui balza
nitida la figura del nostro illustre terziario». Segue fluviale citazione
tratta dal Mein Kampf a cui l'autore fa seguire il commento: «Notiamo
però da altre autorevoli fonti...». Se nell'anno del Signore 1950, Hitler poteva
essere considerato «autorevole» da un religioso francescano, la sfilza di
imprimatur dimostra che a quel tempo l'opinione non doveva apparire così
mostruosa nel mondo cattolico. Proseguendo la lettura diventa chiaro che Adolf
Hitler non è soltanto autorevole, ma è l'unica autorità sui cui edificare
la glorificazione di Lueger. Il Mein Kampf viene citato da padre
Peruffo pagina dopo pagina, con lo stesso acritico entusiasmo e
la stessa ammirazione. «Adolfo
Hitler ha scritto: "lo vedo in quell'uomo il più grande borgomastro
tedesco di tutti i tempi... Ciò che egli fece come sindaco di Vienna durerà
eternamente"». Considerate l'ultima pagina: per descrivere il congedo
di quel «cavaliere dell'amore», Peruffo si affida proprio, e unicamente,
all'autorità e alla prosa di Adolf Hitler. «"Quando il solenne funerale
- nota Hitler - del morto sindaco si incamminò lungo il Ring, procedendo dal
Palazzo Comunale, anch'io mi trovai tra le centinaia di migliaia di persone che
guardavano il corteo funebre"», scrive il religioso che prosegue, questa
volta, senza citare: «Il nome di Carlo Lueger resterà per tutti i tempi
radioso e perenne faro di luce. Egli, quale combattente, duce ed eroe della
grande causa del popolo e della fede cattolica, non appartiene soltanto come
proclamò il Presidente del Reichstag alla storia austriaca, ma a tutto il
mondo civile. Nel campo sociale è un Maestro e una Guida sicura. Nel
Terz'Ordine serafico brilla quale mirabile esempio del vero spirito
francescano». Una nota a piè pagina chiarisce le fonti: Il Terz'ordine
francescano (Vicenza, 1928) dello stesso Lueger, l'articolo Il dottor
Carlo Lueger apparso nel 1910 sul gesuita La Civiltà cattolica e,
infine, naturalmente, «il Presidente del Reichstag» in persona: «Adolfo
Hitler, La mia vita, VIII Ed., Bompiani, 1928».
***
Il
17 gennaio di quest'anno, la Corte suprema degli Stati Uniti ha autorizzato un
gruppo di ebrei croati sopravvissuti al regime degli Ustascia, a portare in
tribunale lo lor e l'ordine francescano per complicità nel trafugamento dei
beni di ebrei avvenuti tra il 1941 e il 1943. La data del processo è ancora
da stabilire, ma se l'accusa sarà provata, la Banca vaticana e l'ordine
francescano dovranno restituire, almeno in parte, quanto contribuirono a rubare
oltre sessant'anni fa. Al di là dell'esatta entità della colpa, la
collaborazione con il regime filonazista di Ante Pavelic rappresenta la macchia
più atroce nella storia novecentesca dei francescani. (Una macchia che,
naturalmente, non coinvolse tutti, né può cancellare le molte azioni
meritevoli compiute da membri dell'ordine nel corso della Seconda guerra mondiale).
Si tratta, però, di un imbarazzo che avverti ancora oggi ben vivo, non appena
accenni al contenuto nazista del libro scoperto da Enzo Sellerio. Per
collocare storicamente Cavalieri
dell'amore nella
storia della Chiesa del secondo
dopoguerra, occorre stabilire innanzi tutto chi fossero, e che rilevanza
avessero, il religioso che lo scrisse e coloro che lo benedirono. È
necessario identificare padre Ambrogio Peruffo, in primo luogo, ma anche quel
misterioso C. Sartori che firmò il Nihil obstat quominus imprimatur, «Fra
M. Faust» che lo confermò e, soprattutto, l'arcivescovo Traglia che concesse
l'imprimatur più alto. Quando viene a sapere i reali motivi del nostro
interesse, la voce di fra' Luigi Perugini della Curia generale di Roma si
incupisce. Qualche giorno dopo il gentilissimo frate, procuratosi il libro,
riflette: «È grave, ma forse, se vede, le fonti sono del 1928... E comunque
non bisogna concentrarsi su questo brutto episodio e dimenticare tutto ciò che
di buono hanno fatto i francescani in quegli anni. Inoltre», sorride, «non
deve avere avuto un gran successo se ho dovuto tagliare tutte le pagine con il
tagliacarte dell'unica copia che sono riuscito a trovare». Su Ambrogio Peruffo
e C. Sartori, in ogni caso, la Curia generale non ha molto. Può dire soltanto
che appartenevano con ogni probabilità alla Curia provinciale di Venezia dove
il giorno dopo dimostrano uguale cortesia e sollecitudine, inviando in meno di
venti quattr' ore a chi scrive tutte le informazioni del caso. Il profilo più
umile è quello dell'autore. Ambrogio Peruffo era nato a Trissino, Vicenza, il
28 novembre 1911, è morto a Saccolongo, Padova, il 7 luglio 1990. Fu ordinato
sacerdote il 14 luglio 1935 a Cormons. Tra il 1937 e il 1954 è a Roma, dove è
commissario generale del Terz'ordine francescano e redattore della rivista Terziari
francescani d'Italia e del foglio Squilla. Nel 1943-1944 è
cappellano della Legione universitaria di Roma. Nel 1950, anno in cui pubblica
l'apologia filonazista di Lueger, è insegnante all'Apostolicum di
Grottaferrata. In seguito diventa direttore spirituale del Seminario
pontificio di Sant'Apollinare a Roma. Ritorna in Veneto «esausto» nel 1967
per svolgere il compito di maestro e direttore spirituale dei chierici di San
Bernardino di Verona. «Anima squisitamente ascetica e francescana», annota
la breve nota biografica che compare sugli Acta Provinciae Venetae S. Antonii
Patavini Ordinis Fratrum Minorum (4/1990, XLV, p. 316), «si dedicò con
entusiasmo e successo alla diffusione dell'ideale francescano attraverso apprezzate
pubblicazioni». Tra queste, oltre al libro in questione, compaiono titoli
come Contardo
Ferrini, professore d'Università (1947),
Fratelli nostri (1941) e
Terziari d'oggi (1939). A
firmare l'imprimatur più responsabile (perché è il più diretto, mi spiega fra' Luigi) dovrebbe essere stato, invece, padre Cosma Sartori, la cui
carriera è incomparabile a quella del più giovane Peruffo. Entrambi nascono
nel vicentino (padre Sartori a Zovencedo il 26 giugno 1890), entrambi si
formano al Collegio serafico di Chiampo, dove probabilmente si conoscono. La
carriera di entrambi si sviluppa a Roma. Nel 1933, dopo alcuni anni da
missionario a Hankow in Cina, padre Sartori viene chiamato dai superiori in
patria per ricoprire il ruolo di professore di diritto canonico dell'Ateneo
antoniano di Roma, cattedra che occupa per 25 anni, fino alla morte nel 1957. «Durante
questo periodo», recita il suo profilo biografico, «le sue capacità di
mente e di cuore ebbero spesso alti riconoscimenti sia da parte delle autorità
accademiche, sia da parte dell'Ordine che della Santa Sede». L'elenco dei suoi
incarichi (da quello di decano della facoltà di Giurisprudenza a quello di
membro della Commissione istituti seminari
e sinodi
della S. Congregazione di
Propaganda fidei) occupa quasi
una colonna delle tre pagine a lui dedicate sugli Actae. Muore nel dicembre
1957, salutato come «limpidissimo specchio di vita religiosa e sacerdotale»,
«vero uomo di Dio, fulgido esempio da imitare». Se di M. Faust, che firma il
secondo
imprimatur del volume, siamo riusciti a sapere soltanto che fu delegato
generale dell'ordine per il Sudamerica, appaiono molto più interessanti le
notizie sul firmatario del terzo nullaosta. Luigi Traglia, allora vice del
vicario romano del papa, è infatti tra le figure più importanti e centrali
del Vaticano del secondo dopoguerra. Nato ad Albano laziale il 3 aprile 1895,
muore a Roma il 22 novembre 1977 ed è seppellito in San Lorenzo in Daniaso a
Roma. Ordinato sacerdote nel 1917, diventa vescovo di Cesarea e Palestina
nel 1936, assistente al trono pontificio nel 1951, presidente del Comitato
speciale per l'anno mariano nel 1953, presidente per il Primo sinodo romano del
1959. Il 28 marzo 1960 è eletto cardinale. Tra il 1962 e il 1965 prende parte
al Concilio vaticano II voluto da Giovanni XXIII ed è proprio Traglia, il 3
giugno 1963, che sta celebrando la messa di suffragio in San Pietro al momento
della morte del papa buono. Prende parte al conclave che elegge Paolo VI nel
1963. Due anni dopo, fino al 1968, è vicario generale di Roma. Nello stesso
anno, parlando ai parroci romani, il pontefice lo onora pubblicamente: «Il
saggio e zelante Cardinale Traglia, da Noi tanto stimato», dichiara papa Montini, «che dopo lunghi anni di ministero in questa Nostra Diocesi Romana
ha preferito accettare un ufficio più proporzionato alle sue forze fisiche,
ma che lascia un tesoro di insegnamenti, di esempi e di opere, del quale il
Clero Romano dovrà essergli sempre obbligato e dal quale potrà attingere
sempre buona ispirazione». Nel 1972 Traglia diventa vice decano del Sacro
collegio dei cardinali. Nel 1975, avendo compiuto 80 anni, perde il diritto di
partecipare ai futuri conclavi. La prima notorietà pubblica di Luigi Traglia
risale al 13 febbraio 1945 quando in Santa Maria degli Angeli battezza Israel
Zoller, il rabbino capo di Roma che dopo la guerra si convertì al
cattolicesimo prendendo il nome di Eugenio in onore di papa Pacelli. Un
episodio controverso, spesso citato in ambienti cattolici come riprova della
politica antinazista di Pio XII. Tra i cardinali attualmente in carica ordinati
da Luigi Traglia compaiono Giovanni Canestri, arcivescovo di Genova, Alexandre do Nascimento, arcivescovo di Luanda, Ernesto Corripio Ahumada,
arcivescovo di Città del Messico, William Henry Keeler, arcivescovo di
Baltimora e, infine, Camillo Ruini, come ricorda Giovanni Paolo II in una
lettera del 4 dicembre 2004 che celebra il cinquantenario di sacerdozio
dell'attuale presidente della Cei: «L'8 dicembre 1954, nel centenario della
proclamazione del dogma dell'Immacolata», scrive Karol Wojtyla, «Ella,
venerato Fratello, ricevette l'Ordinazione sacerdotale per le mani dell'allora Vicegerente di Roma, Mons. Luigi Traglia. Ricordando, cinquant'anni dopo,
questo fondamentale momento della Sua esistenza...». Un aneddoto più personale
sulla figura del cardinale è stato recentemente narrato dal senatore a vita Giulio Andreotti alla presentazione del libro di Marco Politi, Il ritorno
di Dio. «Era il 1938, quindi sono passati tanti anni», ha raccontato Andreotti. «Allora, noi giovani universitari, come conferenza di San
Vincenzo, andavamo a Pietralata. Ci chiamavano "i signorini",
anche se di signorile non avevamo niente. Quando ci furono le cresime a Pietralata, invitarono anche monsignor Traglia, che non era ancora cardinale,
e che fece un discorsetto dalla pedagogia straordinaria. Disse: "Ragazzi,
io devo approfittare di questa occasione per parlare ai grandi, perché voi in
chiesa ancora ci venite, ma loro, se non gli parlo in un'occasione come
questa, o a un funerale, chi li vede mai?". E poi, lui che aveva due
lauree, una grande cultura teologica, ma che sapeva avere una comunicativa
unica, raccontò un episodio: "Quando stavo entrando in chiesa, uno m'ha
detto: 'Monsigno', lei parla bene, ma so' due mila anni che c'è il
cristianesimo e tanta gente è ancora cattiva!"'. Sapete che gli ho
risposto? 'Pure il sapone c'è da tanto tempo e c'è ancora chi è zozzo. Ma
mica è colpa del sapone, è colpa sua!"'». Forse monsigno' timbrò
senza vedere. Questa storia dimostra, però, che a quei tempi l'atmosfera in
certi ambienti cattolici poteva rendere miopi, se non ciechi, di fronte all'orrore
del nazismo. A forza di lavare, il sapone si sporca.
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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione |