Diario

L'altro Armadio della Vergogna

Non c'è soltanto quello di Roma, che «archiviò» i crimini nazisti. Ora se n'è scoperto un altro: quello della Cia. Che ha arruolato molte ex Ss

Guido Salvini

All'alba del 10 agosto 1944, quindici antifascisti, prelevati dal carcere di San Vittore su ordine del comandante della polizia tedesca, il capitano delle Ss Theo Saevecke, furono fucilati da un reparto misto della Gnr (la Guardia nazionale repubblicana) e della Legione Ettore Muti. I loro corpi, raccolti in un mucchio, furono a lungo lasciati esposti nella piazza, sorvegliati da militi fascisti. Tutte le vittime - dal più anziano, il maestro di origine siciliana Salvatore Principato, già vicino a Filippo Turati e già arrestato durante il fascismo, al più giovane, l'operaio comunista di 23 anni Andrea Ragni - appartenevano a diversi movimenti della Resistenza ed erano di diversa estrazione sociale: un ingegnere, Umberto Fogagnolo, impiegati, operai, commercianti, tutti impegnati nell'attività clandestina. L'eccidio di piazzale Loreto fu eseguito senza alcun processo, secondo le più classiche prescrizioni della rappresaglia: la scelta delle vittime tra prigionieri politici «ostaggi» nel carcere di San Vittore ove aveva piena giurisdizione il capitano Saevecke, la loro uccisione in massa in un luogo pubblico, l'esposizione prolungata dei cadaveri quale monito per la popolazione, l'affissione in città di manifesti murali con i nomi delle vittime. Si trattò in realtà, per usare un termine contemporaneo, di un vero atto di «terrorismo» nei confronti della città: in piazzale Loreto all'epoca, così come ancora oggi, convergevano alla mattina gli operai diretti alle fabbriche dell'hinterland. La piazza era un punto di passaggio obbligato di cittadini e lavoratori: tutti dovevano vedere che cosa sarebbe accaduto a chi avesse osato ribellarsi all' occupazione nazifascista. Innesco della decisione di procedere all'eccidio, modellato sui bandi del generale Kesserling volti a domare l'Italia occupata, era stato, la mattina di due giorni prima, l'attentato commesso in viale Abruzzi contro un autocarro tedesco che ogni giorno distribuiva frutta, verdura e altri generi alimentari provenienti dalle mense militari. Nell'attentato in verità non erano morti (anche se la circostanza non è certa) i militari tedeschi impegnati in questo tentativo di accattivarsi la popolazione, o forse era morto solo l'autista del camion; ma erano invece rimasti uccisi tredici cittadini milanesi, tra cui alcune donne, alcuni ragazzi e un bambino di cinque anni, Gianstefano Zacchi, che erano tra coloro che si erano accalcati intorno al camion per partecipare alla distribuzione dei viveri. L’attentato, frutto di una logica politico-militare poco comprensibile e forse maldestramente attuato, non è mai stato rivendicato e non è citato né nei resoconti dell'attività dei Gap, né nella memorialistica della Resistenza. Meriterebbe forse che oggi qualcuno ne parlasse, al di fuori di ogni autocensura, e meriterebbero un ricordo anche le vittime innocenti di viale Abruzzi. La risposta delle autorità tedesche che decisero la rappresaglia fu particolarmente crudele anche perché al di fuori di ogni giustificazione di diritto bellico: le vittime in viale Abruzzi erano state infatti tutte (o quasi tutte) italiane e non vi erano perciò appigli per esercitare l'istituto della rappresaglia di guerra. Non meno crudele fu il «lavoro sporco» delegato dal comandante Saevecke ai militi fascisti della Gnr e dalla Legione Muti, raccolti in poche ore dal colonnello della Gnr Pollini per obbedire all'ordine tedesco ed effettuare il massacro. Subito dopo la Liberazione, lo Special Investigation Branch britannico, nelle cui mani erano caduti molti uomini e le carte dell'Hotel Regina (la famigerata sede della polizia tedesca a Milano), aveva condotto un'inchiesta molto minuziosa su questo e altri crimini commessi dal comando di Saevecke. Erano stati sentiti in modo dettagliato parenti delle vittime, testimoni oculari, italiani e tedeschi allora detenuti a San Vittore. Erano stati acquisiti documenti e fotografie. In pratica tutte le prove erano state trasmesse alle autorità italiane, per permettere di celebrare a Milano rapidamente il processo. L’eccidio di piazzale Loreto è un caso semplice, perché il fatto è evidente, e nello stesso tempo significativo per affrontare l'intero meccanismo sulla «guerra contro i civili» voluta in tutta Italia dall'occupante. Un caso anche delicato dal punto di vista politico-giudiziario, perché l'indagine britannica coinvolgeva tra le persone denunziate non solo un personaggio particolarmente brutale ma solo di medio calibro come Saevecke, ma buona parte dello stato maggiore della polizia e dell'esercito tedesco operante in Nord Italia: coinvolti il diretto superiore di Saevecke, colonnello Walter Rauff, responsabile della polizia tedesca per Lombardia, Piemonte e Liguria; il capo delle Ss per l'Italia del Nord-Ovest, generale Willy Von Tensfeld; il capo del comando militare tedesco a Milano, generale Von Goldbeck. Il processo, dunque, si poteva fare. Ma per le quindici vittime di piazzale Loreto, in quegli anni, un processo fu celebrato solo contro i manovali della strage. Per merito del ricercatore Alfonso Airaghi è stata ritrovata solo pochi mesi fa nell'Archivio di Stato di Milano la sentenza della Corte d'assise straordinaria di Milano che il 23 maggio 1947 aveva condannato alcuni esecutori fascisti dell'eccidio. I capi delle brigate ne­re Vittorio Rancati e Giovanni Villasanta erano stati condannati, grazie ai condoni, rispettivamente a 5 e 3 anni di reclusione. Piccole pene. Molto più severa era stata la sentenza nei confronti di due militi che avevano inseguito e ucciso uno dei prigionieri, Eraldo Soncini, che aveva cercato invano di fuggire e di nascondersi nella portineria di un palazzo di via Andrea Doria. I suoi assassini, Luigi Campi e Giacinto Luisi, erano infatti stati condannati inizialmente a morte, poi a 10 anni di reclusione. Chissà se qualcuno degli assassini è ancora vivo e se ha letto sul giornale le cronache della commemorazione che si svolge ogni anno il 10 agosto in piazzale Loreto? Chissà che cosa hanno provato Rancati, Villasanta, Luisi, Campi e gli altri fucilatori di quella mattina, mai identificati... Ma il processo principale, quello agli ufficiali tedeschi che avevano deciso la strage, che sorte ha avuto? Per rispondere è necessario andare all'Armadio della Vergogna, quello riaperto a Roma solo nel 1994. L’indagine dello Special Investigation Branch britannico, ricca di oltre 40 testimonianze, era rimasta abbandonata per quasi 50 anni nei corridoi e negli stanzini della procura generale militare di Roma, insieme agli altri 695 fascicoli impolverati di quello che è stato chiamato, appunto, l'Armadio della Vergogna. Dell'occultamento si sta ancora occupando una specifica commissione parlamentare d'inchiesta i cui lavori termineranno tra poche settimane, prima della fine della legislatura. La commissione è chiamata dalla legge istitutiva a spiegare le cause dell'occultamento: solo interne alla magistratura militare? Suggerite o volute dal potere politico? Legate a scelte e a contesti internazionali? La commissione, presieduta da Flavio Tanzilli, ha lavorato per oltre due anni con impegno e sottotraccia, raccogliendo anche all'estero un gran numero di atti e di testimonianze, e presto del suo lavoro e delle sue conclusioni si potrà discutere. Ma che sorte ha avuto il fascicolo intestato a Saevecke e agli altri ufficiali tedeschi per la strage di piazzale Loreto? Era giunto alla procura militare di Torino solo alla fine del 1995. Il sostituto procuratore Pier Paolo Rivello non aveva avuto difficoltà a rintracciare l'ex capitano Saevecke, classe 1911, che non si era mai nascosto e viveva in Germania da rispettato pensionato della polizia tedesca. Non aveva avuto difficoltà nemmeno a chiederne il rinvio a giudizio e portare in aula le prove per ottenerne la condanna: perché tutti gli elementi di accusa erano già nelle testimonianze raccolte dagli investigatori britannici nella primavera del 1946. Nel 1995, però, di tutti i responsabili indicati per nome e cognome negli atti, era rimasto vivo solo lui, Saevecke. Gli altri, da Rauff a von Tensfeld a Goldbeck, avevano usufruito, in vita, dell'amnistia di fatto loro concessa dalla procura generale militare. Il Tribunale militare di Torino aveva comunque giudicato Saevecke in contumacia, rimasto senza problemi in Germania perché la legge federale tedesca vieta l'estradizione dei cittadini, e lo aveva condannato il 9 giugno 1999 alla pena dell'ergastolo, di fatto ineseguibile. Nel dibattimento erano stati per la prima volta sentiti in pubblico molti testimoni, alcuni parenti delle vittime e il giornalista Indro Montanelli (allora detenuto a San Vittore e la cui fuga dal carcere, per sottili equilibri politici nella Milano occupata, era stata propiziata proprio da Saevecke). Ma in realtà per motivare la sentenza di condanna erano state sufficienti le vecchie testimonianze dattiloscritte dell'lnvestigation Branch del 1946. La sentenza di Torino, non appellata, era divenuta definitiva. Alla fine, nell'autunno 2000, anche una procura tedesca aveva aperto un giudizio contro Saevecke, ma egli è morto nel dicembre 2000 a Bad Rothenfelde, una località termale della Bassa Sassonia, senza danni se non quelli dovuti alla pubblicità dei processi finalmente aperti contro di lui. Questa sarebbe la chiusura definitiva della vicenda di piazzale Loreto, se ricerche recenti, il lavoro della commissione parlamentare e la desecretazione negli Stati Uniti di molti documenti dei servizi segreti concernenti i crimini di guerra nazisti non avessero riaperto di fatto il caso, mostrando il backstage di quell'impunità. Infatti si è scoperto che il fascicolo di piazzale Loreto era uscito dall'Armadio della Vergogna e vi era poi rientrato, dopo essere passato per le mani dell' autorità politica italiana. Non solo: altri atti di pari valore (compresa la confessione dell'imputato per l'eccidio di piazzale Loreto e altre uccisioni ordinate dal comando della polizia tedesca di Milano) erano rimasti chiusi fino al 2004 oltreoceano, in un altro armadio, quello della Cia che con gli altri servizi Usa aveva reclutato e protetto molti criminali nazisti. Nel 1963, qualche anno dopo l'italiana «archiviazione provvisoria» nell'Armadio, era iniziata in Germania una campagna giornalistica sul passato di Theo Saevecke, divenuto funzionario della polizia federale della nuova Germania. Impegnato proprio nel settore dei «crimini politici», in tale veste si era distinto per alcune sue iniziative spregiudicate contro la libertà di stampa. Un settimanale certo non comunista, Der Spiegel, aveva sollevato il ricordo dei crimini attribuiti a Saevecke durante la guerra in Italia e in Tunisia, soprattutto nei confronti della popolazione ebraica. Era stata aperta un'indagine amministrativa e l'ambasciata della Repubblica federale tedesca di Roma il 6 marzo 1963 aveva chiesto notizie in proposito alle autorità italiane. Il 25 marzo 1963 il ministero della Difesa italiano aveva chiesto in visione alla procura generale militare eventuali atti relativi a Saevecke e nel giro di pochi giorni, il 29 marzo, il voluminoso dossier era uscito dall'archivio ed era stato inviato al Gabinetto del ministro. Solo allora le testimonianze, che certamente ben pochi avevano letto, erano state tradotte dall'inglese in italiano. Prima che il fascicolo rientrasse nell'archivio, o meglio nell'Armadio, il procuratore generale militare Enrico Santacroce aveva chiesto a un suo sostituto procuratore generale, Tringali, di leggere gli atti tradotti e di redigere un suo parere sul caso. Tringali aveva lavorato parecchio e con una lunga relazione aveva segnalato al suo capo che Saevecke, come risultava dalle testimonianze, aveva certamente partecipato con altri ufficiali alle riunioni preparatorie per la decisione e l'organizzazione della rappresaglia e aveva fornito al generale Goldbeck i nomi dei partigiani italiani da fucilare. Lo stesso Saevecke e il generale von Tensfeld, capo delle Ss nel nordovest, si erano occupati degli ordini per la formazione del plotone d'esecuzione e Saevecke aveva inviato in piazzale Loreto un suo personale rappresentante affinché gli relazionasse a esecuzione avvenuta. La responsabilità di Saevecke e degli altri ufficiali era quindi, secondo Tringali, inequivocabile. Eppure Santacroce con un appunto scritto a mano in calce alla relazione aveva disposto che gli atti fossero rimandati in archivio. Pericolo scampato, dunque, ancora per almeno 30 anni. All'epoca presidente del Consiglio, a capo di un governo Dc-Psdi-Pri, era il democristiano Amintore Fanfani, ministro della Difesa Giulio Andreotti. Ma c'era un secondo «armadio» ancor più irraggiungibile del primo. Negli Stati Uniti. È ormai un fatto accertato e ammesso dagli stessi interessati che, al termine della Seconda guerra mondiale, i servizi di informazione statunitensi, civili e militari, abbiano reclutato ufficiali tedeschi di grado elevato ed ex funzionari dei servizi di sicurezza e di polizia nazisti. Secondo i suoi ideatori, il reclutamento sarebbe stato giustificato dalla pressante necessità di contenere la minaccia dell'apparato sovietico soprattutto nei Paesi dell'Europa occidentale. Con ogni mezzo. Il passaggio tra reclutamento da parte del campo occidentale e anticomunista e sottrazione dei criminali alla punizione era poi un corollario obbligato: non si poteva certo arrestare e giudicare come criminale il potenziale umano che già nel 1947, data «Ufficiale» di nascita della Guerra fredda (e forse ancor prima) si intendeva riutilizzare. Già alla fine degli anni Novanta, nel contesto delle nuove indagini sulla strage delle Fosse Ardeatine e sulla strage di piazza Fontana (unite da un unico filo, quantomeno sotto il profilo del reclutamento da parte delle strutture americane di ex nazisti subito dopo le Ardeatine e di neonazisti di Ordine nuovo al tempo della strage del 12 dicembre 1969) era emerso che il maggiore Karl Hass, complice del capitano Erich Priebke nell'eccidio delle Ardeatine, era passato sin dal 1946 al servizio dello spionaggio militare americano per essere utilizzato in Italia in campo informativo e operativo: compresa la messa in opera di contatti con i gruppi clandestini di estrema destra che potevano essere utilizzati in caso di vittoria del Fronte popolare alle elezioni italiane dell'aprile 1948. Poi tutto è stato confermato dalle stesse confessioni dell'imputato e dal suo fascicolo personale acquisito presso l'archivio dei servizi segreti militari italiani. Ma a partire dal 1998, grazie al Nazi War Disclosure Act (la legge varata sotto l'amministrazione Clinton che aveva consentito la declassificazione di milioni di documenti governativi riguardanti specificamente i crimini di guerra nazisti), il fenomeno si è progressivamente definito come un reclutamento non occasionale, ma quasi organico, dispiegatosi da parte degli uomini dell'intelligence Usa con una notevole profusione di mezzi e senza troppe distinzioni e preclusioni. È venuto alla luce con documenti ufficiali, anche se non ancora completi, un fenomeno ampio con diverse gradazioni di «giustificabilità» politico-militare in relazione al passato, sovente noto e ampiamente criminale, dei reclutati. Tra di essi il colonnello Eugenio Dollmann, imputato e prosciolto per la strage delle Fosse Ardeatine, addetto a tenere i contatti in Italia tra il comando del generale Wolff e le autorità della Repubblica sociale italiana. E il colonnello Otto Skozeny, «liberatore» di Benito Mussolini dalla prigionia al Gran Sasso, sino a meno noti rumeni e ucraini collaborazionisti dei nazisti. E ancora, con elevati dubbi di «giustificabilità», il colonnello Reinhardt Gehlen, già capo dei servizi di spionaggio hitleriani all'opera nei Paesi dell'Est occupati, reclutato nell'estate del 1945 dagli americani insieme a tutta la sua rete, divenuta nel 1956 uno dei nuclei fondatori del servizio segreto della Germania federale, il Bnd. E infine, addirittura, non meno di cinque collaboratori di Adolf Eichmann, tra cui l'ufficiale austriaco della Gestapo Otto von Bolschwing. Tra i reclutati e insieme sottratti ai processi non mancava il capitano Theo Saevecke. Il fascicolo intestato all'agente Saevecke (nome in codice Cabanio) declassificato dalla Cia nel 200I (Cabanio era morto l'anno precedente) e di cui la stampa americana e inglese aveva fornito qualche anticipazione, è stato interamente acquisito dalla commissione parlamentare di inchiesta grazie a una trasferta negli Stati Uniti nel luglio 2005. Contiene l'intera «carriera» di Saevecke, reclutato nel 1946 dalla base della Cia di Berlino e aiutato l'anno successivo a evitare un processo per crimini di guerra che i britannici volevano intentare nei suoi confronti. Saevecke aveva precedenti non solo in Italia, ma anche in Polonia sino al 1940 e in Tunisia, ove era stato assistente del colonnello Walter Rauff (l' «inventore» dei camion che funzionavano quali camere a gas mobili). Ciò nonostante era stato ingaggiato, probabilmente perché considerato un elemento di notevole «esperienza e intelligenza pratica», anche se ai suoi stessi reclutatori era ben noto che egli era ancora convinto della bontà dei principi del nazionalsocialismo. Inaspettatamente all'inizio degli anni Cinquanta aveva anche ricevuto la proposta di tornare a lavorare nella polizia federale criminale tedesca (Bka) prima in qualità di collaboratore esterno e poi ufficialmente come dipendente. Aveva tuttavia continuato a mantenere i contatti con i servizi americani che, negli anni Cinquanta e Sessanta, allorché erano emersi i suoi precedenti in Italia e in Tunisia ed erano state aperte inchieste amministrative, lo avevano «salvato» più volte passando direttamente al ministro dell'Interno tedesco dossier addomesticati che erano serviti a sollevarlo dalle accuse. Era così riuscito a evitare sia di essere processato, sia di essere allontanato dal Bka, andando in pensione nel 1971 dopo aver accettato negli ultimi anni di servizio di tenere soltanto un più basso profilo all'interno della Polizia tedesca per evitare situazioni di imbarazzo per i suoi protettori americani. Il documento di maggior interesse ritrovato negli Usa dentro il fascicolo intestato a Saevecke è certamente un rapporto d'indagine molto dettagliato stilato dalle autorità americane e firmato il 4 giugno 1945 dal maggiore E. T. Shergold al termine degli interrogatori del capitano Saevecke e di quattro suoi collaboratori all'interno dell'ufficio Si­po-sd di Milano caduti in mano alleate. In tale rapporto vengono riassunte le confessioni sue e dei suoi uomini e descritte non solo le operazioni condotte dal comando di polizia che aveva sede all'Hotel Regina, volte a eliminare agenti alleati che agivano a Milano e le operazioni di depredazione della comunità ebraica milanese, ma anche le azioni di rappresaglia per contrastare l’attività partigiana. Il dato più inquietante è che in tale rapporto si racconta con molti particolari che Saevecke si era assunto non solo la responsabilità dell'eccidio di piazzale Loreto, disposto in base agli ordini del colonnello Rauff, ma anche quella di aver ordinato ai suoi uomini e a uomini della Legione Muti le fucilazioni di Corbetta del luglio del 1944, chiamate nel rapporto «The Corbetta shootings». A Corbetta, un comune dell'hinterland milanese lungo il Naviglio, Saevecke aveva partecipato personalmente il 20 luglio a un rastrellamento e ordinato la fucilazione immediata, sempre d'intesa con Rauff, di tre probabili partigiani e la distruzione della cascina dove si nascondevano. Il giorno successivo, dopo aver fatto radunare gli abitanti di Corbetta nella piazza del paese, Saevecke aveva ordinato la fucilazione di cinque ostaggi, cinque civili scelti a caso, l’incendio delle loro abitazioni e la deportazione di una cinquantina di altri cittadini. Tutto in risposta all’uccisione pochi giorni prima di un ufficiale tedesco nella zona. L’affiorare di questo documento evidenzia che i crimini commessi a Milano e a Corbetta da Saevecke e dai suoi superiori sono rimasti a lungo impuniti (quelli di Corbetta per sempre). Perché «coperti» due volte: dalla mancata trasmissione da parte della procura generale militare del fascicolo dell'Investigation Branch all'autorità giudiziaria competente; e dall'occultamento del rapporto a firma del maggiore Shergold (che peraltro precedette di poco l'ingaggio di Saevecke nei servizi di informazione statunitensi). Come si legge nell'equilibrata introduzione del saggio Us Intelligence and the Nazis interamente dedicato nel 2004 all'analisi dei documenti appena declassificati, ciò ha conseguenze anche nell' attualità, per esempio nella lotta contro il terrorismo: «reclutare risorse di intelligence all'interno del precedente campo nemico» è sentito come «un bisogno imperioso», ma nel contempo è certo che agendo in tal modo si rischia di ricevere «cattiva intelligence» e di perdere il punto di vista della moralità e quindi di inquinare i propri fini per quanto giusti siano. La questione è resa più grave dal fatto che oggi i servizi segreti, l'intelligence community, sono in tutto il mondo una sorta di «Governo invisibile», il quinto o sesto potere a seconda delle classificazioni, in grado di sequestrare persone all'estero e di gestire in molti Paesi le proprie carceri «private». E forse nemmeno sempre tenuti a informare, o a informare correttamente, i «governi visibili». Ma i patti con il diavolo sono una parte integrante, quasi connaturata a questo nuovo potere. Come ha detto il senatore Giovanni Pellegrino, già presidente della commissione parlamentare sulle stragi italiane, in questi anni, in direzione opposta a questo potere non scritto, quasi in una sorta di bilanciamento, l'attività giudiziaria, storica e delle commissioni parlamentari d'inchiesta, in Italia e altrove, ha nonostante tutto contribuito a restringere il campo dell'indicibilità, aggiungendo frammenti di verità che sommandosi cercano di rendere progressivamente visibile l'invisibile o ciò che è stato occultato nei mille «armadi» del globo. Nello stesso tempo però, se ciò che è lontano nel tempo diviene col trascorrere degli anni meno indicibile, poiché viene meno, in parte, il segreto da tutelare e diminuiscono i rischi di possibili conseguenze, ciò che avviene nel tempo presente rimane paradossalmente più difficile da percepire e sondare: gli eventi e le operazioni di oggi ci sono meno noti di quelli del passato. Per tutte queste ragioni certamente anche oggi, in questo preciso momento, altri Saevecke, per motivi più o meno giustificabili, vengono in varie parti del mondo recuperati e reclutati dai loro ex nemici. Ma probabilmente solo tra cinquant'anni qualche «Armadio» si aprirà, ne sapremo qualcosa e potremo cominciare a giudicare il suo contenuto.

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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione

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