Diario

I poster dell'orrore

Yossi Lemel denuncia le sopraffazioni realizzando manifesti shock, compreso quello dove si autoritrae ad Auschwitz nelle vesti del padre, che c'era stato

Marina Arbib

Il 27 gennaio ad Auschwitz c'ero anch'io», dice Yossi Lemel, «classe 1957, designer di Tel Aviv che è riuscito a creare poster che stupiscono in un Paese, Israele, dove non ci si stupisce più di niente. Anche in molte altre parti del mondo i suoi poster sono diventati famosi per la loro capacità di comunicare messaggi «forti» facendo uso dei mezzi più semplici. Dalla guerra del Libano (1982) in poi, Lemel ha creato immagini per denunciare ogni violenza contro la libertà umana, dalla strage del Kosovo agli abusi contro i palestinesi, dal razzismo all'indifferenza della società opulenta di fronte alla fame del Terzo Mondo. Ha sostenuto Amnesty Intemational e i diritti dell'uomo. Ha messo sotto gli occhi di tutti il «bagno di sangue» che travaglia il suo Paese; la «colomba della pace» in formalina; i Territori occupati come un corpo estraneo da estirpare. Il lavoro più duro, però, lo ha fatto con se stesso, al fine di trovare il coraggio di andare ad Auschwitz, dove era stato suo padre, uno dei pochissimi sopravvissuti agli esperimenti dei medici nazisti. Per commemorare i sessant'anni dalla liberazione di Auschwitz, l'anno scorso, Yossi Lemel ha fotografato se stesso, con i capelli rasati e l'uniforme a righe con cucito sul petto il numero del padre. «C'erano 20 gradi sotto zero, l'aria tagliava come un coltello, le foto sono andate avanti per ore: in ogni momento mi sembrava che non ce l'avrei fatta a continuare. Eppure, avevo chiara coscienza che quello che aveva passato mio padre non potevo capirlo», constata Yossi, facendo scorrere le fotografie, dove compare nei panni del deportato n. 125422: un «numero piccolo», uno di quei «vecchi prigionieri» che erano il sinistro mito del campo, come ha rammentato Primo Levi, in Se questo è un uomo. Per chi non riesce a riconoscere Yossi nel prigioniero 125422, impietrito sullo sfondo del reticolato, il poster ha fatto più di molte lezioni sulla deportazione. Un altro pugno nello stomaco lo dà il poster affisso alla mostra del Museo di Sachsenhausen Oranienburg (inaugurata il 14 aprile 2005): l'anta di un sobrio armadio di legno («L’armadio di un albergo di Berlino», precisa Yossi) si apre su una serie di appendiabiti vuoti. Da uno pende la casacca rigata, col numero. «Ad Auschwitz ho voluto continuare il viaggio nella memoria che ho iniziato nel 1995, quando ho fotografato il numero sull'avambraccio di mio padre: un lembo di pelle tatuata lungo sei metri. La gente guardava e rimaneva senza parole», ricorda Lemel. Esposto al Museo d'arte di Amburgo, per commemorare il cinquantenario della liberazione di Auschwitz, quel poster ha rovesciato sei milioni di morti davanti agli occhi di spettatori e giornalisti. Anche i più incalliti sono stati colpiti: pelle, peli grigi e sei numeri scuri, tutto «così semplice». «Quando mio padre ha accettato di collaborare, per me è stato l'inizio di un percorso liberatorio: non ero più solo con i fantasmi della mia infanzia di figlio di due sopravvissuti al nazismo», rivela Lemel. Ci sono voluti parecchi anni perché Lemel si rimettesse a parlare di Auschwitz. La prima volta che lo aveva fatto era all'asilo, a Gerusalemme. Tutti i bambini raccontavano degli aneddoti sui propri genitori e Yossi aveva voluto far partecipi i compagni di una cosa che gli sembrava degna della più grande attenzione: suo padre era stato, da ragazzo, in un posto dove aveva tanta fame che si era messo a rosicchiare la calce del muro. «Che schifo!», strillarono i bambini all'idea di mangiarsi il muro, e Yossi capì che su certe cose era meglio star zitto. «A casa, i miei facevano di tutto per essere normali, per farci crescere come gli altri, ma io sapevo che eravamo diversi. Ero un ragazzino che non se ne stava mai tranquillo e non solo perché ero discolo», riflette Lemel. Per cercare una risposta all'inquietudine, decise di andare in Polonia a vedere la casa di suo padre, nella cittadina di Bendin, che era stata piena di ebrei fino al giugno del 1943. «La casa era lì, di fronte a me, proprio come me l'avevano raccontata. Ho pensato che avrei dovuto essere contento: finalmente, avevo ritrovato un pezzo di passato, avevo anch'io nonni, zie, cugini. Invece, mi sono ritrovato a piangere in mezzo alla strada, coi polacchi intorno, che andavano e venivano per i fatti loro». Bernard Dov Lemel, il padre di Yossi, nacque a Bendin nel 1929, visse in quella casa con i tre fratelli e i genitori, sino al 1943; nel giugno di quell'anno, Bernard Dov fu deportato ad Auschwitz-Birkenau, dove fu scelto con altri undici ragazzi per essere sottoposto agli esperimenti «medici» dei nazisti. Più tardi lo mandarono a Sachsenhausen, dove gli inocularono i germi dell'epatite e di svariate altre malattie. «Tutto quello che ho sentito dire sulla baracca degli esperimenti e su quella della "Patologia", dove, in realtà, ammazzavano i deportati, è niente rispetto a quello che ho provato, quando là in mezzo mi ci sono trovato io», confessa Yossi Lemel guardando la propria foto di fronte al Krankenbau, la cosiddetta infermeria. Per questo, ha deciso di creare dei poster che segnino le tappe del viaggio che ha portato suo padre dalla natia Benzin ad Auschwitz e a Sachsenhausen, per concludersi a Schwerin, dove i sopravvissuti al campo erano giunti nella lunga «marcia della morte», ma si sono improvvisamente ritrovati liberi. «D'un tratto», rievoca Lemel, «si sono accorti che i loro guardiani nazisti scappavano e hanno capito che la marcia della morte era finita e loro era scampati». Anche la madre di Yossi è nata a Bendin; nel 1943 finì in un campo di lavoro per ebree, nella zona dei Sude­ti. Da lì fuggì, nascondendosi in un villaggio tedesco, dove si fece passare per polacca cattolica. Cambiò il suo nome: Batyah (che in ebraico significa «figlia di Dio») in Barbara e, siccome era bionda, con gli occhi azzurri e una pelle bianchissima, tutti le credettero. Andava in chiesa la domenica e muoveva le labbra recitando una filastrocca che aveva inventato per cercar di imitare le preghiere cattoliche. Quelli che l'avevano ospitata volevano maritarla con il figlio, che era un Ss; per fortuna, arrivarono i russi, Batyah- Barbara riuscì a scappare. Della sua numerosa famiglia - che era di chassidim - resta solo il ricordo della fede del cuore e della gioia di vivere. A quasi ottant'anni, Batyah continua a lavorare come estetista, perché, come dice lei, la pelle è una cosa straordinaria, così delicata e tanto forte. Ce l'hanno tutti, questo dono così particolare e non ci fanno caso e, allora, ci pensa lei a farglielo ricordare, con le sue cure, che spesso e volentieri prodiga gratis. «La famiglia di mia madre era una specie di tribù, contava varie decine di membri», dice Yossi Lemel, che crea con le immagini il percorso di una memoria che non ha potuto avere perché tutti quegli zii e potenziali cugini la Shoah li ha cancellati. I musei servono per non dimenticare il passato, ma Lemel vuol far capire che la Shoah fa parte del presente, il suo e quello della «generazione dei figli» dei sopravvissuti. E per far capire che non ha voluto «tirar fuori dalla naftalina» l'uniforme dei deportati giusto per commemorare, ha inaugurato la nuova serie di lavori dedicati alla seconda generazione dopo Auschwitz con una foto: lui e il padre, uno di fianco all'altro. Due volti in primo piano, due camicie bianche: quella di Yossi è a righe scure: «È un'allusione velata al fatto che Auschwitz noi figli ce lo portiamo addosso». In questi giorni sono esposti a Stoccolma i poster di Yossi ad Auschwitz e a Sachsenhausen. Il progetto-memoria continuerà con poster sui treni della morte e sulle nozze tra sopravvissuti. «Accettando di esporre il suo braccio, dieci anni fa, mio padre ha accettato di collaborare con me a un progetto di riscatto dal passato che tocca anche il presente e denuncia gli orrori, gli abusi, le violenze di ogni genere che si compiono tutt'ora, nel mondo». L'uomo ha cercato di distruggere l'immagine dell'uomo, ad Auschwitz, ma il pericolo dell'autodistruzione rimane anche oggi: per questo, Lemel ha ideato un modo per commemorare la bomba atomica su Hiroshima e, al tempo stesso, mettere in guardia per il presente. Il fungo atomico è fatto di fiori, ma sono fiori malati, sprigionano un che di sinistro; i colori del poster richiamano, oltre il pericolo atomico, anche l'inquinamento che rischia di distruggere il pianeta Terra. La lista delle esposizioni cui Yossi Lemel ha partecipato è lunghissima, quella dei riconoscimenti internazionali pure. Nel 2002 ha preso il Grand Prize alla prima Biennale internazionale del Poster in Corea, la medaglia d'oro all'analoga Biennale in Messico; menzione d'onore alla ventesima Biennale di Graphic Design a Brno, in Repubblica ceca. Il poster Israel-Palestine 2003 è stato premiato al concorso internazionale belga e l'elenco potrebbe continuare a lungo. A lui, però, piace ricordare che il miglior riconoscimento glielo dà la gente, quando si ferma a guardare i suoi poster che «scottano». Un'immagine per riflettere; un'immagine per continuare la lotta difficile contro il lato oscuro che minaccia l'uomo: è l'insegnamento che gli ha trasmesso suo padre, con quei sei numeri tatuati sul braccio e il coraggio di ricominciare a vivere. È l'esempio che continua a dargli la madre, quando se ne va con l'autobus a curare la pelle delle ricoverate negli ospizi o nei centri sociali di periferia: «La pelle è un'opera d'arte che tutte hanno a disposizione, basta guardarla con attenzione».

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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione

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