Diario
Il
prof. di Primo
Levi
A
sessant'anni lo scrittore volle studiare il tedesco, dopo averlo forzatamente
orecchiato nel lager. Ebbe un insegnante, bravo e sfortunato, che finì suicida
Massimiliano Boschi
Il
solo suono della lingua tedesca fa sanguinare l'enorme «ferita
ancora fresca della Shoah», questa frase, pronunciata lo scorso febbraio da
alcuni deputati della Knesset israeliana, in occasione delle visita in
Israele del presidente tedesco Horst Köhler, non sarebbe piaciuta a Primo
Levi. Lo scrittore torinese, al contrario, ha sempre cercato una via di
comunicazione diretta con il popolo tedesco. Lo testimonia in maniera
evidente la lettera di ringraziamento inviata il 13 maggio 1960 a Heinz Riedt,
traduttore tedesco di Se questo è un uomo: «E così abbiamo finito: ne
sono contento, e soddisfatto del risultato e grato a lei, e insieme un po' triste.
Capisce, è il solo libro che io abbia scritto, e adesso che abbiamo finito di
trapiantarlo in tedesco mi sento come un padre il cui figlio sia diventato maggiorenne,
e se ne va, e non si può più occuparsi di lui. (...) Ma ecco, oggi io, 174517,
per mezzo suo posso parlare ai tedeschi, rammentare loro quello che hanno fatto,
e dire loro "sono vivo" e vorrei capirvi per giudicarvi (…) Sono
sicuro che lei non mi ha mai frainteso. Non ho mai nutrito odio nei riguardi del
popolo tedesco, e se lo avessi nutrito ne sarei guarito ora, dopo aver conosciuto
lei. Non comprendo, non sopporto che si giudichi un uomo non per quello che è,
ma per il gruppo a cui gli accade di appartenere». Questo stesso desiderio di
comunicare con il popolo tedesco spinse Levi, anni dopo, a tornare a scuola,
dopo quarant'anni di assenza: «Ho superato le barriere della timidezza e
della pigrizia, e a sessant'anni compiuti mi sono iscritto ai corsi di un
istituto molto serio dove si insegna una lingua straniera che conosco male.
Volevo conoscerla meglio per pura curiosità intellettuale: ne avevo
imparato gli elementi ad orecchio, in condizioni disagiate, e l'avevo poi usata
per anni per ragioni di lavoro, badando al sodo, cioè a capire e a farmi
capire». Il racconto di quel ritorno sui banchi di scuola è descritto in
maniera deliziosa, L'altrui mestiere pubblicato nel 1985. «L’insegnante»,
scrive Levi, «era colto, simpatico, intelligente, molto bravo nel vincere i
ritegni e le verecondie degli alunni, esperto nell'arte di insegnare e buon
conoscitore degli ostacoli che si frappongono al flusso dell'apprendimento».
Tra Levi e l'insegnante del Goethe di Torino nacque un ottimo rapporto che
Levi descrisse anche in una lettera inviata a una sua lettrice tedesca, Hety
Schmitt Maass: «Devo sembrargli un allievo ben strano, non solo perché il
mio tedesco è frutto di fonti così tanto diverse e mal assortite, ossia: il
campo di concentramento, la chimica, gli affari e alcuni libri letti a caso
- un miscuglio di classici e moderni! Lui pensa che questo sia il motivo per
cui il mio tedesco è così colorito e divertente, spesso utilizzo espressioni
arcaiche o letterarie in una frase colloquiale e viceversa (come deve esser
successo anche in questa lettera)». Quell'insegnante si chiamava Hans Dieter
Engert e fu vittima di una brutta storia. Nato nel 1933, ad Ulm, nel Baden
Wurtenberg, a metà strada tra Monaco e Stoccarda, si suicidò il 24 novembre
del 1981, impiccandosi a un appendiasciugamani del bagno, incapace di
sopportare il fardello di un processo che avrebbe reso pubblica la sua
omosessualità. La storia dell'insegnante di tedesco di Primo Levi ce l'ha
raccontata Jutta Pabst, che ancora oggi insegna al Goethe di Torino e conserva
foto e ricordi del prof. Engert. «Hans era un uomo di grande fascino e
cultura e un ottimo cuoco», racconta, «Si era trasferito in Italia dopo
essersi laureato in legge, era cattolico ed era stato educato dai gesuiti. Il
padre era morto in guerra per cui aveva instaurato un rapporto molto forte con
la madre, donna molto religiosa. Nonostante questo amava vivere in maniera
completa, tanto che molti suoi amici non hanno creduto al suicidio. Chi lo ha
frequentato negli ultimi giorni della sua vita, però, si era accorto del
cambiamento, era evidentemente distratto e preoccupato. Erano altri anni e Hans, come molti, teneva nascosta la sua omosessualità e anch'io, per lungo
tempo, non me ne accorsi. Me lo confessò solo alcune settimane prima del
suicidio quando trovò la forza si sfogarsi e di ammettere di esser vittima di
un ricatto». Qualche tempo prima, infatti, durante un viaggio in Tunisia, Engert aveva conosciuto Otmani, un ragazzo di 22 anni e lo aveva invitato a
stare a casa sua a Torino. Successivamente, a causa di un incidente al
ginocchio, era ritornato in Germania e al suo ritorno si accorse di essere stato
derubato. Accusò Otmani del furto e gli intimò di lasciare la casa, ma
questi reagì ricattandolo. Gli chiese dei soldi in cambio del silenzio,
altrimenti avrebbe spifferato tutto ai suoi colleghi mostrando delle foto
compromettenti. «A seguito del suicidio di Hans ho visto queste presunte foto
compromettenti», ammette Jutta Pabst, «erano foto che oggi non
scandalizzerebbero nessuno, semplici nudi maschili. Lui però fu scosso
terribilmente dalla vicenda, la sua educazione gli faceva vivere come una
colpa la sua omosessualità di cui, ovviamente, non aveva mai parlato alla
madre. In preda al panico chiese un colloquio con il direttore del Goethe, poi
si confessò anche con me. Il disinteresse del direttore per la vicenda non
lo tranquillizzò, anzi». Nel frattempo Engert aveva chiesto aiuto anche
al Fuori, una delle prime associazioni omosessuali di Torino. Lì gli
consigliarono di contattare i carabinieri, così finse di accettare il ricatto
e il 9 novembre del 1981 consegnò un milione a Otmani. Non appena
consegnati i soldi, intervennero le forze dell'ordine che arrestarono il giovane
tunisino. Quest'ultimo, però, respinse ogni addebito dichiarando che quel
milione era il compenso per il suo lavoro di cameriere svolto in casa di Engert.
La verità l'avrebbe dovuta stabilire il processo fissato per martedì 24
novembre. La sera prima giunse a Torino anche la madre di Engert. Il professore,
però, non riuscì a reggere la tensione, e la notte precedente al processo si
impiccò. Di quelle ore è stata testimone diretta Jutta Pabst. «La madre arrivò
a casa del figlio il lunedì sera, suonò ma non rispose nessuno. Noi amici e
colleghi sapevamo che per il weekend Hans era stato ospite di un amico per cui
non ci preoccupammo eccessivamente. Il mattino dopo, verificato che Hans non
era nemmeno lì, chiamammo i vigili del fuoco che sfondarono la porta di casa
e trovarono Engert cadavere nel bagno. Alla madre non raccontammo del suicidio
e io mi incaricai di tutte le pratiche burocratiche, compresa
l'identificazione del corpo, per questo vidi anche le foto
"compromettenti". Qualcuno mi raccontò anche di una lettera di
addio di Engert a Levi, ma non venne mai trovata. Molti amici di Engert, vista
la situazione, pensarono che il suicidio di Engert fosse stato simulato e
raccolsero delle firme per richiedere che fosse aperta un'inchiesta per
omicidio. Chiesero l'adesione anche a Levi che però non firmò, credeva al
suicidio di Engert, "era un suo diritto" disse». Engert aveva però
fatto in tempo a trasmettere una buona padronanza della lingua a Levi che iniziò
a scrivere in tedesco all'amica Hety Schmitt Maas. Quest'ultima, come ricorda
Levi ne I sommersi e i salvati, lo mise in contatto con Jean Amery,
pseudonimo di Hans Mayer, autore di Un intellettuale ad Auschwitz. «Hety»,
scrive Levi, «è stata avida, addirittura famelica, di incontri umani: quello
duraturo e fecondo con me, è stato solo uno dei tanti. "Il mio destino
mi spinge verso gli uomini con un destino" , mi ha scritto una volta: ma
non era il destino a spingerla, era una vocazione. Li cercava, li trovava, li
metteva in contatto fra loro, curiosissima dei loro incontri o scontri. È stata
lei a dare a me l'indirizzo di Jean Amery e il mio a lui, ma a una condizione:
che entrambi le mandassimo le veline delle lettere che ci saremmo scambiate».
Con Amery, Levi discusse proprio della lingua utilizzata degli aguzzini nei
lager: «Anche Amery afferma di aver sofferto per la mutilazione del linguaggio»,
scrisse, «eppure lui era di lingua tedesca. Ne ha sofferto in modo diverso da
noi alloglotti ridotti alla condizione di sordomuti: in un modo, se mi è
lecito, più spirituale che materiale. Ne ha sofferto perché era di lingua
tedesca, perché era un filologo amante della sua lingua, come soffrirebbe uno
scultore nel veder deturpare o amputare una statua». Quindi ancor più di
Levi, ancor più di molti deportati ebrei. La corrispondenza tra Levi e Amery
si interruppe tragicamente nel 1978, quando anche Amery decise di togliersi la
vita. Tre anni prima di Engert, nove anni prima di Levi. Amery, considerato un
«teorico del suicidio», al tema aveva dedicato un illuminante saggio,
intitolato «Levar la mano su di sé». Queste sono le ultime righe del testo:
«Non dovremmo negar loro [ai suicidi] il rispetto che il loro agire merita, né
privarli della nostra partecipazione, tanto più che noi stessi non facciamo
una figura troppo brillante. Siamo degni di compassione, tutti se ne
accorgono. Chinando il capo, vogliamo quindi sommessamente e con dignitoso
contegno piangere colui che ci lasciò nella libertà».
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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione |