Diario

Jerry, clown ad Auschwitz

Storia di un film mai uscito, «The Day the Clown Cried», tratto dal romanzo di Joan Q'Brien, che Jerry Lewis girò nel 1972 nel lager. Tradendo il libro, perché non sopportava che il suo personaggio fosse un mediocre pagliaccio

Antonio Iovane

Nel febbraio del 1972, un celebre comico percorre l’enorme spianata bianca del lager di Auschwitz-Birkenau. C'è solo neve e quel silenzio freddo delle grandi distanze. Osserva i blocchi, la ferrovia dalla quale scendevano i deportati. Percorre il chilometro che porta alle camere a gas dei Sommersi, quello che resta dopo che i tedeschi in fuga le hanno fatte saltare in aria. S'interessa, alle camere a gas, le immagina tristemente in funzione. Studia. Qualche visitatore lo nota, lo riconosce, richiama l’attenzione. Sì, quella è la faccia di plastica di Jerry Lewis. Il comico, quello dei film con Dean Martin, il pasticcione dinoccolato di Dove vai sono guai e la scena della macchina da scrivere immaginaria. Che cosa ci fa Jerry Lewis ad Auschwitz? Che cosa c'entra Jerry Lewis con Auschwitz? Sembra impossibile, ma il comico è lì perché vuole girare un film. All'inizio degli anni Settanta Jerry Lewis è tornato a essere quello che era prima di diventare famoso: Joseph Levitch, il suo vero nome. Ha meno di cinquant'anni ma è già un attore finito. La sua comicità se l'è portata via la contestazione. Fino a pochi anni prima era ancora sul set, il picchiatello. Faceva ridere l'America dei buoni sentimenti, era il sempliciotto ingenuo che fa commuovere. Ma ora è come se fosse trascorso un secolo: Jerry Lewis è troppo leggero, disimpegnato, svagato. Pochi comprendono il vero valore della sua comicità, quella sottile forma di ribellione al mondo scritta nella sua incapacità di sapersi adattare, di capitombolare ovunque si trovi. Ai più il picchiatello appare solo come uno che arriva sempre fuori tempo, un goffo, un maldestro. Pochi capiscono che Jerry Lewis è il debole, è quello che sta fuori dal mondo, e quindi il ribelle. Cade continuamente perché non sa reggersi in equilibrio sulla realtà e inciampare è la sua forma di ribellione. Macché: per i più le sue cadute non significano nulla. Sono solo capitomboli, la sua specialità: decine, centinaia di cadute sulla schiena, alcune dolorosissime, tragiche - una in particolare, nel 1967, la colonna vertebrale scheggiata. Jerry salta gambe all'aria e precipita di schiena in terra. Il pubblico si sbellica. Ma trauma dopo trauma, Lewis finisce in ospedale. Per anni ha fatto ridere cadendo e giocando a rendersi ridicolo. Ora è fuori del tempo, è fisicamente distrutto. E deve pagare tutto. «Ho trascorso 37 anni a fare ruzzoloni clauneschi e il mio fondo schiena comincia ad averne abbastanza», dice in quegli anni. Il viale del tramonto lo ha già percorso in buona parte, non gli restano che serate da vecchia gloria come quella all'Olympia di Parigi, nella primavera del 1971. Solo che mentre è lì, riceve la visita di un produttore belga: il cinquantacinquenne Nathan Wachsberger. Quest'uomo ha alle spalle una fervida attività di distribuzione di film europei in America e viceversa, produttore di film con Orson Welles, Serge Gainsbourg e Jane Birkin. Wachsberger dice a Jerry che ha comprato i diritti di un libro della scrittrice Joan O'Brien, The Day the Clown Cried. Gli dice che vuole farei un film. Gli dice che lo vuole come protagonista: «Tu sei l'unico che può interpretare il clown come lo ha immaginato lei». La storia? Un clown tedesco deportato in un campo di sterminio per le sue satire contro Hitler viene utilizzato per rendere più docili i bambini destinati alle camere a gas. Una storia assurda, nessuno ha ancora provato a far entrare le risate in un campo di sterminio. Una materia impossibile da maneggiare. Trent'anni dopo ci penserà Benigni, con La vita è bella. Ma il 1971 è ancora troppo presto. Theodor Adorno ha appena detto che dopo la Shoah è impossibile far poesia e quelli che vogliono fare? Vogliono che un pagliaccio entri ad Auschwitz? Jerry Lewis è cauto, titubante davanti ai sogni. Eppure Wachsberger non è uno sprovveduto e la sua proposta è allettante. Innanzitutto girerebbero a Stoccolma, negli stessi studi di Ingmar Bergman, con attori europei di prima categoria. E Jerry adora l'Europa: «Quando vado in Europa il mio io si rigenera» aveva detto in alcune lezioni tenute all'Università della California del Sud, «mi sento più forte perché per loro la comicità è la struttura stessa della vita». Però The Day the Clown Cried non è una commedia. È una storia drammatica. Verso i film «seri», come li chiama lui, Jerry prova un senso di frustrazione. Perché la commedia è considerato un sottoprodotto. Eppure «la comicità ha il vantaggio dell'universalità e di poter suscitare un calore particolare». Ma questo l'Academy non lo capisce. Hollywood non lo capisce, inchiodando lo al suo ruolo di attore di serie B. «Mi dedico alla commedia anima e corpo perché ce l'ho nel sangue. Sento anche che non c'è niente di più drammatico della comicità, ed è quindi completamente inutile che mi metta a fare un film serio». E adesso che gliela chiedono? Adesso che è arrivato Nathan Wachsberger col suo portafogli pieno di soldi? Lewis mercanteggia, sa bene che «il produttore che riesce a tirar fuori dal suo film un utile reale è un vero genio. E come i buoni registi anche i buoni produttori sono una rarità». Ma calma, ci vuole calma. Il picchiatello rilancia: vuole essere il regista, vuole riscrivere la sceneggiatura già scritta dalla O'Brien e da Charles Denton. Wachsberger non ha obiezioni. Jerry Lewis sogna il momento di rinascere. Per la parte della protagonista vorrebbe Jeanne Moreau, l'attrice di Truffaut e di Ascensore per il patibolo (Louis Malle), che rifiuta. Così ripiega sulla bergmaniana Harriett Anderson (Sussurri e grida e Fanny e Alexander, ma anche il primo film di Bergman, Monica e il desiderio). Jerry Lewis e Ingmar Bergman, niente di più distante. Lewis visita gli studi di Stoccolma e i campi di sterminio di Auschwitz e Dachau; per osservare i clown va a Parigi, agli spettacoli del circo Buglione. Osserva le loro facce accese dal trucco bianco, dal sorriso dipinto. Anche lui sarà così; per interpretare il clown dimagrisce venti chili. «Voleva dimostrare non solo di essere versatile» scrive un suo biografo, Arthur Marx, «ma anche fare qualcosa per l'umanità». In tempi di ri­voluzioni possibili, il comico della macchina da scrivere immaginaria è pronto per la sua. «I canti contro la guerra fatti nei campus universitari non aiutano certo due contadini in una risaia», aveva detto qualche anno prima, ma «in una pellicola potrebbe esserci qualcosa che impedirà a un soldato di sparare contro nove bambini un giorno o l'altro in qualche parte del mondo». Parole che sembrano anticipare The Day the Clown Cried. Le riprese dovevano cominciare nell'ottobre del 1971, slittano però al 5 aprile 1972, e questo peserà su tutto il resto. Jerry ha riscritto la sceneggiatura, ma ha modellato il protagonista sulle proprie caratteristiche. «La storia originale», racconterà la O'Brien, «era un storia di orrore, dolore e infine illuminazione e auto sacrificio. Jerry l'ha trasformata in una rappresentazione sentimentale, chapliniana». La propria natura non si cambia. Il comico vuole portare il picchiatello ad Auschwitz. «Non c'è niente di più drammatico della comicità». Per due settimane tutto sembra andare bene: Jerry è felice, sta girando un film che «mostrerà», annuncia entusiasta, «che non dobbiamo tremare né arrenderei nell'oscurità». Sta per fare qualcosa di utile. Ma è difficile giudicare questa nuova sceneggiatura. «Jerry ha trasformato un mediocre clown in un uomo di grandi qualità, un bastardo in un eroe», dirà indignata la O'Brien. E così, è naturale che sarebbe stato così. Bastava leggere delle difficoltà già incontrate nell'interpretare il personaggio di Buddy Holly in Le folli notti del dottor Jerryl. «Non mi piaceva», dice Jerry. «Non mi era neanche piaciuto scrivere la sua parte da spregevole, incivile, volgare animale, figurarsi a interpretarlo. Mi chiedevo: "Com'è possibile che sia tanto bravo a fare la canaglia?"». Già, impossibile. Anni dopo, quando si ritrova a fare i conti con un altro «schifoso, sporco, bastardo», decide che deve cambiare le cose. Così nell'ultima scena del film, quella in cui Jerry Lewis decide di entrare coi bambini nella camera a gas, accade questo: Helmut «preme il viso contro la porta di acciaio. Lotta contro il panico che lo assale. Poi rapidamente si asciuga gli occhi e si volta verso i bambini. Tira fuori tre pezzi di pane stantio dalla tasca del cappotto e comincia a fare giochi di destrezza dondolando la testa verso destra e poi verso l'altro lato prima lentamente e poi sempre più veloce. Si fa strada dal fondo una lieve risata. La camera indietreggia e mostra i bambini. Improvvisamente Helmut getta i pezzi di pane in alto nell'aria e tende le braccia come a circondare con il suo abbraccio tutti i bambini. I bambini si raccolgono intorno a lui e lo imitano nella risata prima timidamente poi la risata si estende fino a fare risuonare l'intera camera di gentili risate». Ma nella versione della O'Brien accade qualcosa di diverso: «Si sente il suono dell'armonica di Helmut misto al riso soffocato dei bambini e poi si ode il suono scioccante del sibili. "Hiss" riempie l'aria e le risate dei bambini cominciano a sentirsi solo a momenti così come il suono dell'armonica che cerca disperatamente di terminare il motivo. Ma anche l'armonica si ferma e tutto quello che si riesce a sentire è soltanto il sibilo del gas e poi silenzio assoluto». Jerry mostra Helmut, la O'Brien no. Jerry mostra un clown. La O'Brien non ci tiene, per lei Helmut è tutt'altro. È chiaro che il picchiatello sta girando qualcosa che rischia di non poter mai essere distribuito. Un film impossibile, tanto che il fido Wachsberger si mostra uno sprovveduto. Il milione e mezzo di dollari per girare il film non ce l'ha. «I buoni produttori sono una rarità», aveva detto Jerry. Di più: non ha nemmeno finito di pagare i cinquantamila dollari di diritti alla O'Erien per sfruttare il soggetto. E ora che i diritti sono scaduti e che Jerry Lewis ha stravolto il suo libro, la scrittrice non vuole più concederli. Eppure va avanti. Ci crede troppo, è una missione: i soldi per continuare ce li mette lui. Dorme tre ore a notte, soffre. Il mal di schiena, la paura di non arrivare fino in fondo, la questione dei diritti non pagati. «Ho avuto quasi un infarto» spiegherà, «ma la sofferenza, l'inferno in cui sono passato con Wachsberger è stato un vantaggio: ho messo il mio dolore nelle inquadrature». Jerry non si ferma: questo deve essere il film della svolta, se il mondo ha accantonato il picchiatello, adesso conoscerà il nuovo Jerry. Ma il comico è affranto, la sua maschera da pagliaccio è continuamente percorsa da una smorfia di dolore. Arriva esausto al terzo mese di riprese. «Paralizzato», come dirà, nel momento dell'ultima tragica scena, quella in cui decide di entrare nella camera a gas assieme alla bambina che ha consolato. È l'ultimo ciak di un film che non uscirà mai. Jerry organizza visioni private con pochi spettatori scelti. Solo una dozzina di persone vedrà The Day the Clown Cried. Lo mostra anche alla O'Brien, per cercare di convincerla a cedere i diritti, ma lei lo definisce «talmente brutto che vorrei fosse bruciato». Tutti lo trovano orribile, tranne il critico francese Jean-Pierre Coursodon secondo il quale, una volta adoperati alcuni tagli, potrebbe anche risultare «sublime». Jerry Lewis non ha mai smesso di offrire alla O'Brien diversi milioni di dollari perché conceda i diritti e lasci uscire il film. La scrittrice non ha mai ceduto. Forse, nel futuro. «I critici e "quelli che contano" riconoscono raramente ciò che vale nel momento del suo divenire», aveva detto Jerry prima che tutto iniziasse. «Aspettano che uno sia morto e sepolto per penetrare lentamente nel cuore della notte e scoprire che un giorno, molto tempo prima, piaceva al pubblico. Confesso che non sto nella pelle per sapere cosa si dirà di me quando avrò tirato le cuoia. E, dato che faccio parte anch'io della messa in scena, confesso anche che mi piacerebbe starmene da qualche parte a sentire».

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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione

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