Diario

Il tatuaggio di Schlemihl

Il sopravvissuto di Auschwitz, un «essere senza destino»: il capolavoro dello scrittore ungherese Imre Kertész diventa anche il film «Senza destino»

Norman Manea

Traduzione di Marco Cugno

All'inizio del romanzo di Imre Kertész, Liquidazione (Feltrinelli), Keseræ, redattore editoriale, affascinato dalla biografia e dall'opera di B., guarda dalla finestra della sua abitazione, nella Budapest dell'anno 1999, i barboni che aveva osservato spesso negli ultimi tempi. «Keseræ stesso era perfettamente conscio del fatto che in quel rapporto forzato che aveva stabilito, per così dire a propria insaputa e senza aver dato la propria approvazione, con i barboni, esisteva qualcosa di inquietante. Ne soffriva davvero, come per una malattia». È di nuovo pervaso da un insidioso sentimento di insicurezza. Sono situazioni dall'identità incerta. «Il dubbio amletico, per Keseræ, non era più l'essere-o-non-essere, ma piuttosto il sono­o-non-sono». La sua vita è una vita «seonda», dipendente dalla vita dei manoscritti. Benché l'autore lo collochi, dalla prima frase, al centro del romanzo - «Il nostro uomo, l'eroe di questa storia, chiamiamolo Keseræ » - potremmo dire che egli svolge, piuttosto, un ruolo di intermediazione. Il vero personaggio centrale del libro rimarrà, di fatto, anche qui, il traduttore e scrittore B., che Kertész presenta in Kaddish (presto in uscita dalla Feltrinelli e in uno spettacolo di Moni Ovadia). Era stato, del resto, proprio l'incontro con B. a imporre a Keseræ di assumersi i rischi dell'esistenza in uno Stato totalitario e, in tal modo, di definirsi. Tra i manoscritti che giacciono sul suo tavolo c'è anche la pièce Liquidazione, lasciata da B., una commedia in tre atti, ambientata a Budapest nel 1990. La prima scena si svolge nella stanza di una casa editrice, dove Kürti, sua moglie Sará e il dr. Obláth (anch'egli in Kaddish) aspettano l'arrivo del redattore. Vale a dire dello stesso Keseræ, colui che rilegge ora la pièce, della cui prima postcomunista era stato l'intermediario, nella quale, come si vede, figurano personaggi vicini alla sua vita e a quella dell'autore e amico B. Il passaggio dal testo della pièce Liquidazione a quello del romanzo, anch'esso intitolato Liquidazione (il quale, come la pièce, è incentrato sull'esistenza di B. e dei suoi amici), è condotto da Kertész con fine ingegnosità e maestria. In quanto stimola una lettura dai significati molteplici, potremmo chiamare postmoderno il rapporto tra la pièce, il romanzo e il romanzo precedente, se il termine non rischiasse di distogliere l'attenzione, per l'accento posto sull'esperimento formale, dalla gravità della creazione di Imre Kertész. Lo scrittore sopravvissuto a tragedie come l'Olocausto e il Gulag deve affrontare l'inevitabile stanchezza del ritorno e l'impossibilità del non ritorno all'atroce punto iniziale e iniziatico della sua formazione come uomo e come artista. Sul mercato libero e carnevalesco del presente, dove niente è percepibile se non è scandaloso e niente pare abbastanza scandaloso da essere memorabile, il «tema» della sua vita e della sua creazione è divenuto, nel frattempo, cliché vendibile... Nel romanzo di Kertész, post­Olocausto, postcomunismo e post­modernismo arricchiscono reciprocamente, in una felice congiunzione, le loro potenzialità, in virtù del valore estetico-morale e della tensione fra tragedia e ludico che anima la narrazione. La realtà come premessa testuale gioca, effettivamente, su molti piani in Liquidazione: nella pièce che legge Keseræ, nel romanzo di cui è narratore e che lo connette al romanzo Kaddish e non solo a questo. La tecnica narrativa sottilmente referenziale non diventa mai scopo in sé, puro «esperimento», semplice realtà della fiction, autosufficiente. Essa acquista una nuova, convincente, legittimità, come intermediazione espressiva, modulando la vibrazione del testo in cui si inscrive il dramma dell'esistenza.

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Liquidazione amplifica l'opera precedente, ma, spesso, le si contrappone, completandola. È un romanzo referenziale, ma anche, all'occorrenza, un romanzo autonomo. Referenziale è, inevitabilmente, il nuovo romanzo anche in relazione alla letteratura dell'Olocausto, confermando la visione specifica dell'autore, che gli valse, d'altronde, il riconoscimento internazionale. Il libro scruta le conseguenze durature dell'orrore Auschwitz e dialoga con la letteratura a esso dedicata. Nonostante il pretesto libresco-investigativo (la ricerca del romanzo rimasto dopo il suicidio di B.) e l'inserzione «teatrale», la strategia narrativa poggia su una intensa e complessa problematicità piuttosto che sull'evocazione strettamente epica. Ciò che l'autore vuole trasmettere, in particolare, non è la retrospettiva della catastrofe, ma il suo spirito, il suo persistente respiro tragico, in un approccio post - e meta-Olocausto, imperniato sulla realtà e sul simbolo Auschwitz. La confessione traumatica del sopravvissuto, che rifiuta una sopravvivenza diversa da quella situata nello stesso cratere nero del genocidio a cui, per puro caso, è scampato e dove con­tinua a scavare, incessantemente, mediante la lettura e la scrittura, nel sotterraneo della sua vita, per condurla a rovina, si sostanzia nel nuovo romanzo della testimonianza di coloro ai quali è stato vicino (la moglie, l'amante, il redattore editoriale che lo ammira fino alla monomania). Il fatto che alcuni dati biografici e alcune battute di Kaddish sembrano contraddetti in Liquidazione diventa meno importante della complementarità dei due libri, varianti di un ritratto (o autoritratto) fittizio, articolato nell'epicentro del disastro morale del Novecento. La retrospettiva dell’esistenza di B. è qui, spesso, indiretta, ma è anche un retrospettiva post mortem: dopo il suo suicidio, cioè, e dopo il lento decesso del decrepito sistema comunista nell’Europa dell’Est, che l’autore ha vissuto come una seconda possibilità di far rivivere l’incubo.

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«Mancava però proprio l'essenza - almeno di questo era convinto Keseræ. E inoltre - e questo era il pensiero più segreto di Keseræ, tanto segreto da nasconderlo persino a se stesso - se si fosse liberato della commedia, forse si sarebbe in qualche modo liberato anche di se stesso». Nella ricerca del manoscritto del romanzo, egli ricapitola ciò che sa o immagina di B., ma investiga anche il proprio passato, nel quale l'estinto detiene un ruolo dominante. Risultato di un lento processo di induzione traumatica, Keseræ sembra aver abolito, proprio lui - lettore professionista e sagace - ogni distanza critica rispetto al suo eroe, e questi appare come una versione tenebrosamente «maturata» di György Köves, il personaggio centrale del romanzo Essere senza destino (sempre uscito dalla Feltrinelli e ora anche film in uscita in Italia con il titolo Senza destino). Anche György Köves era sopravvissuto, solo in apparenza, nella vita «più pura, più frugale» di Auschwitz, iniziato alla «felicità», come pure all' «affettuoso rancore» dell'esistenza prigioniera. A un'altra età della retrospezione/introspezione, B. riformula le conclusioni di György Köves: «Il Male è il principio della vita». Neppure lui esclude completamente la possibilità del bene, ma la contemporaneità appare, anche a lui, come la catastrofe dopo la catastrofe, nella quale l'uomo perduto, espropriato del destino, esiliato dal significato, non può più ritrovare il centro dell'io, la coscienza di sé. La sostituzione dell'uomo tragico con il suo doppio pervertito e burlesco della post catastrofe non definisce solo il quadro di riferimento dell'interrogazione rivolta da B. o da Köves, ma, a poco a poco, anche quello di Keseræ. Egli crede che B. sia stato il solo che si fosse addossato le conseguenze del fatto che «ogni storia giunge a una fine, e che la storia di noi tutti è una storia inenarrabile». L’urgenza di trovare il romanzo lo coinvolge sempre più intensamente.

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«Se si fosse liberato della commedia, forse si sarebbe in qualche modo liberato anche di se stesso. Si sarebbe liberato anche della ossessiva sensazione di inverosimiglianza che allora gli era piombata addosso e che si accompagnava a una certa spiacevole sensazione di mancanza, sempre e dappertutto, proprio come l'ombra assente di Peter Schlemihl».

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Peter Schlemihl era comparso, circa due secoli prima, come errante, in un porto del Nord della Germania e sulla prima pagina del racconto che renderà classico il suo nome. L’eroe del libro di Adelbert von Chamisso (Storia straordinaria di Peter Schlemihl, scritta nel 1813 e più volte pubblicata in Italia, in queste pagine si fa riferimento alla traduzione di Laura Bocci pubblicata dalla Garzanti nel 1992) era anche lui un barbone. Esule, rifugiato, senza patria? Uno straniero di cui non sappiamo niente. Keseræ lo associa, niente affatto casualmente, a B. e, quindi, a Köves, barboni anche loro, espropriati dell'ombra protettrice della normalità, ma anche condannati a portare, ora, dopo Auschwitz, il nuovo marchio, impresso nella carne, del «segreto» millenario dell'esclusione. Francese rifugiato in Germania, Chamisso provava una evidente solidarietà per «l'ebreo errante». La figura di Aasvero è presente nella sua poesia. Il nome Schlemihl, che simbolizza, nella tradizione ebraica, «colui che ha la disdetta addosso», una sorta di Povero Augusto angariato che attira tutte le sventure e le disgrazie, lo aveva sentito nel famoso salotto letterario berlinese della signora Rahel Levin­Varnhagen, l'aristocratica impaurita al pensiero di essere, lei pure, «uno Schlemihl e un'ebrea». Se il nome annuncia la natura della narrazione che segue, la prima risposta del nuovo venuto potrebbe suggerire qualcosa del suo passato. Quando il signor John, a cui era stato inviato con una lettera di raccomandazione, gli spiega le regole della società locale, dove «chi non è padrone di almeno un milione è un mascalzone», Schlemihl si affretta, per subitanea illuminazione, ad assentire, come se la sua esperienza «in patria» l'avesse già condotto alla stessa cinica conclusione. Proprio per non essere, di nuovo, «un mascalzone», sembra impaziente di accettare il baratto che l'anonimo in «redingote di taffettà gri­gia», il signore in grigio, gli propone. Schlemihl riceve, in cambio della sua inutile «ombra» («la bella, bella ombra»), la borsa che, a comando, si riempie all'istante di denari. Che si tratti della assai vituperata «sete di denaro» dell'ebreo? La sua paura ancestrale dell'ambiente in cui vive, da cui cerca di proteggersi con il mezzo avvalorato da millenni? Tutto ciò che Schlemihl intraprende, in seguito, dimostra che egli non è un arrivista immorale e crudele, ma solo un povero straniero desideroso di organizzarsi una vita «felice» nel nuovo domicilio. La perdita dell'ombra, vale a dire di ciò che hanno, normalmente, i suoi simili, lo trasforma davvero, ora, in un sospetto, in un emarginato, in «un mascalzone», in un Povero Augusto che ha la disdetta addosso, ridicolo, ma anche brutto, questa volta. Quando l'allogeno cerca, disperatamente, di ricuperare la propria ombra, il signore in grigio - «un povero diavolo», come lui stesso si presenta, un semplice dealer logico, pragmatico, senza apparenze malefiche - gliela promette in cambio dell'anima. Le speculazioni sul significato simbolico dell' «ombra» si concentrano, di solito, sulla nozione di «identità» sociale (tradizione, etnìa, cultura, lingua, assimilazione) o su quella di «entità» individuale, singolarizzata, ma, a volte, anche sullo sdoppiamento e sul simulacro, come ambiguità protettiva. La nuova offerta - la vendita dell' anima­ - è però priva di equivoco. L'eterno outsider respinge il tradizionale patto col diavolo. Egli si ritirerà, per sempre, insieme con la sua anima, fuori dalla società, lontano dagli uomini, nella grotta dalla quale può studiare la natura. Nell'ospizio in cui lo troviamo alla fine del libro, Schlemihl viene identificato con un numero e «ritenuto un ebreo».

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A differenza del suo predecessore Schlemihl, B. non ha perduto la sua ombra in seguito a un baratto. Gli è stata strappata, brutalmente, nel campo di sterminio. Quando compare sulla riva post­Auschwitz, B. non possiede più quella «cosa inutile», naturale per gli altri, e il suo nome non è più quello del vecchio pària, di uno «che ha la disdetta addosso», nato per incassare i pugni del­la storia. Ora la storia è il suo stesso nome: una lettera e un numero rossicci, tatuati sulla pelle, fin dall'infanzia. È il segno d'identità di una stirpe nata sul «pianeta Auschwitz», e marchiata per sempre da una astrale estraneità, simbolo di un'altra età nella barbarie umana. Aspirare ora agli attributi della normalità parrebbe un gioco puerile in un film di Disney, in cui Peter Pan, il ragazzino abituato a evadere in qualsiasi momento dalla realtà immediata, ha bisogno che gli si cucia addosso l'ombra che lo renda «reale». La biografia di B. è, nella visione di Sára, la sua amante, «semplice come una favola, e assurda come la nostra vita». Il tempo e la ferita di B. sono diversi da quelli di Schlemihl. «Non è lecito sapere chi si è», dirà B. al suo lettore e ammiratore. Benché anche Schlemihl avesse coperto, in un momento di disperazione, tutti gli specchi, le differenze tra le due vite e le due storie rimangono drastiche. La lettera che diventa il nome di B. non è una codificazione casuale o fantasiosa. Keseræ sostiene che B. era nato negli ultimi mesi del 1944, dunque verso la fine della guerra, in una baracca di Auschwitz. Il nuovo prigioniero era stato tatuato sulla coscia, non sul suo braccio, troppo corto, di neonato, mentre la lettera B, seguita da quattro cifre, significava che la madre era stata registrata, probabilmente per errore, come detenuta politica della Slovacchia, non come ebrea ungherese, alla quale sarebbe stata destinata sull'avambraccio la lettera A, seguita dalle cinque cifre fatali. Benché il «passato» di detenuto fosse minimo e il tatuaggio ambiguo, l'ossessione Auschwitz non potrà essere guarita. In un accesso di collera, B. aveva tuttavia gridato a sua moglie, in Kaddish, di non avere assolutamente bisogno di Auschwitz per comprendere il male del mondo in cui viveva. Il nuovo romanzo di Kertész, come già i precedenti, dimostra che senza il tatuaggio sanguinoso della storia la comprensione sarebbe stata fortemente limitata. Il bambino vecchio B. non può più assimilare le illusioni, per quanto terapeutiche, della normalità. Precocemente istruito nel «principio del male», György Köves, il giovane riconoscente per l'inestimabile iniziazione alla crudeltà elementare e «semplice» dell'universo concentrazionario, aveva contemplato le manifestazioni del male con rassegnazione, senza lamenti o indignazione. La massima di Cioran («5ans l'enfer, point d'illusion») può essere ora rovesciata: senza illusioni, non esiste inferno. Al «poker» dell'esistenza, giocato sia in Kaddish che in Liquidazione, Auschwitz rimane «imbattibile», in competizione con qualsiasi altro istituto di «rieducazione», mediante sterminio, nazista o comunista. La «maledizione» millenaria acquista, questa volta, un'altra ampiezza. La dannazione ha sostituito ogni identità, il tatuaggio definisce un'altra età dell' abisso. Rispetto al marchio inciso nella carne, l'ombra perduta può apparire come un frivolo dettaglio. Nell'incubo post-Olocausto, anche B. rifiuterà di vendere la propria anima. Kürti dice di B.: «Evitava di partecipare a checchessia, non si immischiava mai in niente, non aveva una fede, non si ribellava e non provava delusioni». E Obláth aggiunge: «lo direi piuttosto che nessuno aveva passato questi 40 anni tanto elegantemente quanto lui. Si librava...». Non può essere omessa, tuttavia, neppure l'opinione di Judit, la martire del matrimonio. Non avendo esperienza di Auschwitz se non attraverso i suoi genitori e il suo matrimonio con colui che aveva trasformato la propria sopravvivenza in una nuova cattività, Judit sceglie, come rivolta, la vita, non la morte. Non il suicidio quotidiano «in questo grande lager della vita», come aveva sostenuto B., pur senza avere la forza di portarlo a compimento, ma una opzione contraria: «Il mondo è un mondo di assassini, ma io non voglio vedere il mondo come un mondo di assassini, io voglio vedere il mondo come un luogo dove si può vivere». Prima del suicidio, B. le aveva chiesto di bruciare il manoscritto del romanzo e di restituirgli, in tal modo, Auschwitz, perché lei potesse continuare a vivere. Lui non si considerava scrittore, veniamo a sapere da Judit. La scrittura «era il suo unico mezzo di espressione. Il vero mezzo di espressione dell'uomo, però, diceva sempre, è la propria vita». È ciò che avrebbe detto, certamente, anche Schlemihl, la cui immaginaria confessione a Chamisso cercava di esprimere, con le parole, ciò che la vita aveva espresso meglio. Si potrebbe dire che il crollo del comunismo aveva espropriato B. della ragione di perseverare nell'esperimento dell'orrore. «Era esaurito», dice Judit. «La resistenza era scomparsa, e il mondo gli era apparso nella sua completezza. E ormai ne aveva abbastanza di cercarsi nuove prigioni». Neppure Keseræ ha venduto la propria anima. In una di quelle camere ufficiali dove «si concentra tutta l'indifferenza del mondo», Keseræ rifiuta di diventare informatore della polizia comunista in cambio della libertà e dell'«ombra» di normalità che gli oppressori gli promettono. Egli aspetta, teso, la tortura. I diavoli improvvisati, comprensivi o negligenti (come tanti loro confratelli negli scritti di Kertész) , non lo costringono, ma lo mandano, tranquillamente, in prigione. Il diavolo non è completamente nero neppure in un mondo nero, e l'eroe non si considera affatto eroe, consapevole che, sottoposto alla tortura, avrebbe ceduto e che «se avessi firmato quel foglio, naturalmente sotto costrizione fisica, avrei potuto spiegarmi la cosa». Il dottore selezionatore e i sorveglianti Ss che permisero o ignorarono la sopravvivenza del neonato ad Auschwitz sembrano, anche loro, semplici giocattoli nell'ambiguità del «kitsch» barbaro in cui operano, diavoli minori e servili che possono essere, indifferentemente, sadici o negligenti o annoiati. Come l'uomo in grigio, neppure i nuovi emissari delle tenebre forzano il male. Non ne hanno motivo, il male domina sovrano, sulle vittime e sui boia. «L'uomo delle catastrofi non ha destino... lo Stato, la dittatura - ma puoi usare il termine che vuoi - lo attira con la forza centrifuga di gorghi vertiginosi... e sprizza dentro di lui, come un geyser bollente, il caos, dopo di che il caos diviene il suo habitat», affermerà B. Una riformulazione dell'avvertimento biblico: «Procura di non conoscere te stesso».

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Auschwitz è stato il culmine naturale della Storia precedente e niente di quanto è accaduto in seguito ha infirmato questo dato, ci avverte Imre Kertész. Ma i crimini «contro l'umanità» continuano, quotidianamente, con la regolarità con cui la Terra gira, impassibile, intorno al Sole e intorno al suo asse sempre più incerto. L'incrinatura profonda e irreversibile che Auschwitz ha prodotto nella coscienza di sé dell'uomo ha lasciato l'arte e la letteratura «in sospeso», dice Kertész. Il sopravvissuto divenuto artista crea nel sotterraneo della disperazione. La premessa del male domina il cielo illeggibile e muto che intravede dalla grotta della sua solitudine. Egli è più cosciente di chiunque altro dei suoi contemporanei che il mondo vive sotto la minaccia di precipitare nell'abisso del disastro. György Köves vedeva il lager come una realtà della «predeterminazione», entro la quale funzionavano altre predeterminazioni. B., suo confratello, conferma che la vita post-Auschwitz porta anch'essa l'impronta di una nera predeterminazione. In questo contesto «l'arte della catastrofe», se così possiamo chiamarla, deve affrontare contraddizioni insolubili. Benché la creazione, come parte della vita, sia continuata dopo Auschwitz (nonostante la predizione di Adorno), il «tema» dell'Olocausto limita fortemente, per via della predeterminazione, i gradi di libertà che il gioco dell'arte presuppone. Imre Kertész si limita al tema dell'Olocausto, certo, ma lo oltrepassa anche, per scendere, al di là della congiuntura tragica, nelle profondità tenebrose dell'umano stesso. La scrittura esce, infine, dal referenziale, per divenire essenziale. I paradossi le danno nuova energia: l'urgenza collabora con la lucidità, il pessimismo potenzia l'interrogazione, l'estetica della negazione rigenera la creatività. L’arte «in cenere» si dimostra viva, ardente. L'intensità della tragicità e la forza dell'espressione danno valore a un'opera necessaria e rappresentativa. In quest'opera abita ora anche Keseræ, il non-ebreo che si è aggiudicato «il privilegio» Auschwitz in virtù dell'oscura irradiazione della personalità di B.

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L’assoluta solitudine del finale del romanzo, sul quale scende, insieme con la notte, il buio, ripropone il suo inizio. Colui che aveva vissuto la vita dei manoscritti riconosce il proprio destino nel manoscritto bruciato. Nella stanza brilla il computer della nuova era, con le sue alternative brevi e imperative: «Avanti-Cancella». Non è l'incertezza dell'identità a dominare ora Keseræ, ma, piuttosto, il fatto che la professione di lettore non lo attira più. Non ha più importanza per lui se un libro sia buono o cattivo. Lo preoccupano lo svanire della memoria, gli uomini senza passato e senza futuro. Pensa, di nuovo, ma senza l'inquietudine di un tempo, a quei barboni, tra i quali può immaginare se stesso. La loro massa informe mormora nella strada il coro muto della Storia. Ombre senza corpo e corpi senza ombre, tra cui sanguinano i tatuati del destino.

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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione

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