Diario

Conosciuto 1945

Giovanni Scirocco

Quando Christian Schiefer inizia a fotografare, con un'Agfa regalata gli a 15 anni, utilizzando il cavalletto di legno e aspettando la luce giusta per ritrarre i paesaggi della montagna incantata (era nato a Davos nel 1896 da una famiglia di falegnami della Val Passiria), era «semplicemente attratto da quel tratto di magico che la fotografia aveva per me», dirà in una delle pochissime interviste della sua lunga vita. Ma la fotografia diventa presto una passione e un'occasione di lavoro: segue corsi di perfezionamento a Vienna e a Monaco e, dopo la forzata interruzione per il servizio militare nel corso della prima guerra mondiale, si impiega nello studio De Jongh, un celebre fotografo di Losanna. Nel luglio 1920 si trasferisce a Lugano-Paradiso, dove apre un proprio negozio, specializzandosi in ritratti, cartoline e prospetti per gli alberghi del lungolago: «L’apparecchio che dovevo maneggiare era un mostro che pesava sui 50-60 chili; era fornito di rotelle per poterlo spostare e girare secondo la luce. A quei  tempi non c'era ancora l'installazione per la luce artificiale; avevo un treppie con una placca di metallo sulla quale si metteva la polverina che, collegata ad una miccia, si infiammava dando il lampo». Verso la metà degli anni Venti inizia a collaborare con la rivista Illustrazione ticinese e in seguito anche con altri rotocalchi. Nel 1937 gli viene affidato il primo incarico davvero importante: fotografare, per un catalogo, i dipinti conservati nella pinacoteca del barone von Thyssen alla villa «La Favorita» di Castagnola-Lugano (l'importante collezione è da diversi anni a Madrid, lì trasferita in un museo accanto al Prado). A contatto coi magnifici quadri della collezione, soprattutto quella dei pittori del Nord Europa (Cranach, Bosch, Holbein, Rembrandt) Schiefer si forma quella cultura pittorica che ritroviamo in alcune sue foto. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, il Ticino è uno dei cantoni più poveri della Svizzera, con un'economia ancora prevalentemente contadina, come testimoniano anche le foto che Schiefer scatta nelle valli sopra il lago di Lugano; soprattutto, è presente l'irredentismo filofascista, che ritiene terre italiane, oltre al Ticino, anche i Grigioni e il Vallese. Il 30 agosto 1939 l'Assemblea federale nomina comandante in capo il generale Henri Guisan e gli affida il compito di difendere e mantenere unita la Confederazione, stretta tra la Germania nazista e l'Italia fascista, anche attraverso una serie di visite ai vari Cantoni, per esempio la visita del generale Guisan nel 1941. Il 2 settembre, mentre la Germania invade la Polonia e l'Italia inizia la breve stagione della «non belligeranza», è decretata la mobilitazione generale, che richiama in servizio attivo i militi. Giornalisti e fotoreporter, tra i quali Schiefer, vengono arruolati nel Servizio stampa e radio, che doveva rispondere alle direttive impartite dallo Stato maggiore, documentando soprattutto i rapporti tra popolazione civile ed esercito: «Il corrispondente militare è in prima luogo un saldato e solo secondariamente un reporter». Dopo l'8 settembre, grazie anche al fatta che carabinieri e guardia di finanza avevano abbandonato la vigilanza dei pasti di frontiera, migliaia di profughi affluirono in Svizzera: soldati (persino una squadrone al completo, cavalli compresi, del Savoia cavalleria, sbandati, ex prigionieri alleati, ricercati, ebrei: in pochi giorni, fino a quando, il 18 settembre, i tedeschi rioccuparono i principali posti di controllo di frontiera, circa 30 mila persone. Era morta la patria, in quei giorni, come molta storiografia, da De Felice a Galli della Loggia, ha continuato a ripetere, senza grande originalità? Farse la patria della retorica monarchica e fascista; forse, però, nei primi combattimenti contro i tedeschi a Porta San Paolo, ma anche nel rifiuto di continuare a combattere la guerra fascista, a Cefalonia e nei lager dove furono. internati i 600 mila saldati che non vollero arruolarsi con i repubblichini, vi era il tentativo., consapevole a meno, di iniziare un'altra storia. Come ha scritto a Natalia Ginzburg «le parole patria e Italia ci apparvero d'un tratta così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. Eravamo là per difendere la patria e la patria erano quelle strade e quelle piazze, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che passava». Tutti i reportage con i quali Schiefer documentò i passaggi di frontiera, grazie anche all'opera degli «spalloni», le diverse fasi dell'accoglienza dei rifugiati e la loro vita nei campi di prima accoglienza, in attesa di essere trasferiti lontani dal confine, nella Svizzera interna furono verboten, interdit, censurati, per non allarmare l'opinione pubblica svizzera. Schiefer fu incaricato anche di scattare le fotografie in formato passaporto da inserire nel «libretto per rifugiati». Nel sua archivio ne sono rimaste circa 400, ma soltanto a una trentina di esse riusciamo ad associare un nome, un cognome, una storia, più a meno fortunata (Luigi Preti, futura ministro socialdemocratico; Olga Nacmias; Emma Perla Debenedetti la cui famiglia era partita da Torino e, arrivata in treno nel comasco, si era fatta portare dai contrabbandieri, dietro pagamento, a Lanza d'Intelvi, per entrare in Svizzera. I genitori sono ammessi perché sono vecchi. Anche la figlia è ammessa, con il marito e tre bambini; ma Jolanda, l'altra figlia, è respinta can il marito Leonardo e i due sono riportati alla frontiera con altre sedici persone. La suocera di Leonardo, Emma, una donna fragile e dal sorriso dolce, muore poco dopo in ospedale. Jolanda e Leonardo Debenedetti vengono deportati ad Auschwitz, dove Jolanda verrà subita assassinata. Leonardo invece tornerà, sarà compagno di viaggio di Primo Levi nel lungo esodo «comico e tragico» descritto in La tregua. Mancano inoltre le foto di quelli che furono respinti alla frontiera, per vari motivi, a partire dalla mutevolezza delle direttive («la barca è piena», dichiararono a un certo punto le autorità elvetiche), arrestati dai repubblichini, consegnati ai nazisti, deportati, gasati nei campi di concentramento. È il caso della famiglia di Liliana Segre, allora tredicenne: «Era il 7 dicembre del 1943. Riuscimmo. ad attraversare il buco nella rete del confine, là dove passano solo i clandestini, gli animali e i contrabbandieri, e ci trovammo nella terra di nessuno che divide gli Stati, e poi in un baschetto. Eravamo in suolo svizzero, ce l'aveva fatta! Ci abbracciavamo forte: io, papà e due vecchi cugini che si erano uniti a noi all'ultima momento, Giulio e Rino Ravenna. Le guardie svizzere, mute, ci trovarono nel primo boschetto che incontrammo dopo la radura, dopo la terra di nessuno, e ci portarono al comando di polizia di Arzo, il primo paese del Canton Ticino. Al comanda di polizia, dopo una lunga attesa - senza dirci una parola, senza darci un bicchiere d'acqua né un pezzo di pane - l'ufficiale di turno ci condannò a morte. Ci trattò con disprezzo estremo, disse che eravamo degli imbroglioni, che la Svizzera era piccola e non c'era posto per noi. Ci rimandava indietro». Arrestati dai finanzieri italiani, furono portati prima nel carcere di Varese e poi a San Vittore. È ancora Liliana Segre che parla: «Un pomeriggio di fine gennaio del 1944 entrò un tedesco a nel reparto ebraico di San Vittore e lesse un elenco di oltre sei­cento nomi. C'erano anche i nostri. Dovevamo prepararci a partire, ma per dove? Uno dei vecchi cugini che aveva tentato con noi la fuga in Svizzera, Rino Ravenna, si suicidò gettandosi dall'ultima piano del raggio: era la prima volta che vedevo un morto. Suo fratello Giulio morì qualche tempo dopo di stenti, nel campo di Fossoli. Più di 7 mila ebrei italiani furono deportati ad Auschwitz. Siamo tornati in 363». Tra questi non c'erano il padre e i nonni paterni (la testimonianza è tratta da Emanuela Zuccalà, Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre fra le ultime testimoni della Shoah, Edizioni Paoline, Milano 2005). Il 28 aprile 1945 giunge la notizia della cattura di Mussolini, mentre tentava di fuggire in Svizzera. Milano è già insorta. Schiefer è incaricato dal suo giornale di mettersi sulle tracce dell'ex capo del fascismo: ottiene a Lugano un lasciapassare del Cln, parte in treno con due Leica e giunge a Ponte Chiasso, in tempo per assistere alla consegna delle armi da parte dei reparti tedeschi in fuga. Entra in Italia e fa tappa a Como nel primo pomeriggio del 28 aprile: «La città era animata, le strade percorse da una folla festante che sventolava bandiere tricolori e cantava inni patriottici. Ci si abbracciava nelle piazze, i partigiani che affluivano dalle montagne erano accolti da manifestazioni di irrefrenabile simpatia». Parte per Milano con una macchina della Croce rossa scortata dalla guardia di finanza e dai partigiani. Ovunque, in una città devastata dalla guerra e dove si soffre per la fame (persino le aiuole dei giardini sono state trasformate in orti) trova manifesti inneggianti agli anglo-americani e i ritratti dei partigiani caduti. Arriva all'Hotel Diana, dove alloggia il viceconsole svizzero, nel tardo pomeriggio del 28 aprile. Il giorno dopo, una domenica, all'alba, incontra per le scale un anziano cameriere: «Hanno fatto bene ad am­mazzarli, quei vigliacchi... Li hanno portati a piazzale Loreto». Nella piazza della periferia nord-est di Milano avevano sfilato, fin dai primi giorni della Liberazione, le formazioni partigiane: nel pomeriggio del 27 le colonne dell'Oltrepò pavese, l'indomani le brigate di Cino Moscatelli, che entrano dalla Valsesia a Milano da viale Certosa. Non era stato casuale il ritrovarsi in quella piazza di partigiani e popolazione. La mattina dell'8 agosto 1944 una bomba aveva fatto esplodere un camion della Wehrmacht parcheggiato di fronte al 77 di viale Abruzzi, a pochi metri dal Titanus, un albergo diventato la sede del comando logistico tedesco. Sei passanti erano rimasti uccisi e altri dieci feriti (le cifre non sono però, ancora oggi, certe). I tedeschi sono agli ordini di Theodor Saevecke, il capo della Gestapo a Milano. (Nel dopoguerra diventerà un funzionario del controspionaggio della Germania occidentale. Nel 1999 verrà condannato all'ergastolo in contumacia dal tribunale militare di Torino. È morto nel 2001). Comandano, per rappresaglia, la fucilazione di quindici «comunisti e terroristi», detenuti a San Vittore senza alcuna imputazione. La rappresaglia viene eseguita dai militi della Guardia nazionale repubblicana e della Brigata Muti, il cui co­mando si trovava in via Rovello, dove Grassi e Strehler fonderanno il Piccolo Teatro. Per ordine dei nazisti, i cadaveri vengono lasciati sul posto fino alle sei di sera: era infatti tipico della strategia nazifascista ricorrere, per ammonimento, alla pubblica esposizione dei corpi del nemico. Ricorda Franco Loi, allora quattordicenne, grande poeta del dialetto milanese: «Erano tutti abitanti del rione, tra Teodosio e Loreto. Uno con le mani protese davanti alla faccia, come a proteggersi e gridare - una faccia paonazza, gli occhi come buchi viola, i capelli impiastricciati, incollati alla fronte bassa; un altro con gli occhi stravolti, bianchi, le labbra tumide, dure; e altri ancora con le dita lunghe come rami, e certi colli gialli tra camicie gualcite, magliette spiegazzate ... I parenti non potevano onorare i loro morti. Nessun grido, nessun pianto. I fascisti erano lì, giovani e spavaldi. In quel fotogramma della loro vita e della loro storia, sprezzanti, quasi a non dover o non poter tradire la parte che una terribile legge gli aveva assegnato. Ogni tanto provavo a distogliere gli occhi, e vedevo quei giovani in divisa nera, che fissavano la gente e sembrava volessero provocare. Ma la gente era immobile, come inchiodata, con gli occhi bassi e le spalle pesanti. Tutto pareva far parte di una scena irreale, completamente separata dall'ampiezza del cielo e di piazzale Loreto, che sotto il sole si allontanava verso viale Monza, viale Padova, via Porpora e quel Titanus imponente del comando tedesco...» (in Giovanna Sicari, Milano nei passi di Franco Loi, Unicopli, Milano 2002). Quando, alle 3.40 del mattino di quel 29 aprile, un camion di partigiani guidati da Walter Audisio, il colonnello Valerio, l'esecutore materiale, secondo la versione ufficiale, dell'esecuzione di Mussolini a Giulino di Mezzegra, arriva a Milano trasportando i corpi del duce, della sua amante Claretta Petacci e del fratello di quest'ultima, Marcello, insieme a quelli dei quindici gerarchi fascisti fucilati a Dongo, la scelta di piazzale Loreto, di «mostrare» la morte e proclamare la fine, del fascismo e della guerra, non è casuale, ma voluta (Luigi Meneghello, partigiano giellista, scriverà in Bausète che «era necessario disfarsi del fascismo in modo percepibile ai sensi») interpretando «in modo letterale quel criterio toponomastico dell'esercizio della vendetta che informa la giustizia partigiana durante i giorni dell'insurrezione» (Sergio Luzzatto, Il corpo del duce, Einaudi, Torino 1998). Schiefer esce dall'albergo e alcuni partigiani lo indirizzano al comando del Cln di viale Lombardia, dove viene preso in custodia da un partigiano con il cappello e la tuta da alpino, «un carabiniere con la penna». Vorrebbe recarsi subito a piazzale Loreto, ma prima lo guidano al Politecnico di piazza Leonardo da Vinci, sede del comando del 6° settore Cln, dove era stato processato Achille Starace, segretario del Partito nazionale fascista dal 1931 al 1939, artefice dei più grotteschi riti del regime (dal foglio d'ordini al «saluto al duce») poi caduto in disgrazia presso lo stesso Mussolini, che lo definiva pubblicamente «un cretino obbediente». Starace era stato catturato mentre correva, da buon ex ufficiale dei bersaglieri, in una strada di Porta Ticinese e riconosciuto per essersi voltato alla domanda: «Dove vai Starace?» «Vado a prendere un caffé», la risposta surreale). Poco dopo il fotografo svizzero documenta un'altra scena consueta in quei giorni, esaltanti e terribili, della Liberazione: la «punizione» di una collaborazionista in viale Abruzzi. Ma la sua attenzione è nuovamente attratta dalla folla che corre verso piazzale Loreto: «La gente andava in una certa direzione. Non si trattava di una manifestazione organizzata. Era passato il tempo delle adunate spontanee coatte. Comunque, la gente andava in quella data direzione e non in un'altra qualsiasi di tutte le direzioni possibili. Si andava. Lo dico perché c'ero anch'io, tra la gente. Era la mia prima uscita dopo il ritorno a casa dal lager... Quella di piazzale Loreto era la cerimonia della fine della guerra» (Oreste del Buono, La debolezza di scrivere, Marsilio, Venezia 1987). Nella grande piazza, dove adesso c'è un brutto Mc Donald, il cordone di partigiani non riesce a fermare la pressione della massa - «In quel carnaio cencio so era difficile riconoscerli e infatti la gente non li riconosceva, per quanto, a stento trattenuta dalle guardie, li toccasse quasi coi piedi; e pareva una tonnara a rovescio, ché il centro era quieto e orto, e tutt'attorno schiumava convulsa la folla» (Andrea Damiano, Rosso e Grigio, Il Mulino, Bologna 2000) - e decide di issare i corpi al traliccio di un distributore di benzina: per primo Mussolini, poi la Petacci, Pavolini, Barracu, Mezzasoma, Zerbino. Nelle foto che scatta si ve­de, a pochi passi da piazzale Loreto, in via Lulli, il ginnasio-liceo Carducci che, come altre scuole milanesi, stava pagando un altissimo prezzo all'oppressione nazi-fascista: Quintino di Vona, docente di lettere classiche, era stato fucilato dalle Brigate nere il 7 settembre 1944; Mario Segre, insigne epigrafista, deportato ad Auschwitz dove troverà la morte nello stesso 1944; Enzo Capitano, studente diciottenne, deportato in Germania e deceduto a Mauthausen nel maggio 1945; Maria Arata Massariello, insegnante di scienze, deportata a Ravensbruck e fortunatamente sopravvissuta. Dal 1959 la sede del Carducci è in via Beroldo, sempre a 100 metri da piazzale Loreto. Sono immagini che mostrano una piazza quasi irriconoscibile per i milanesi di oggi, per le evidenti distruzioni causate dai bombardamenti e per i mutamenti urbanistici successivamente intervenuti. Ma, soprattutto, ci rivelano le diverse espressioni, e i rispettivi stati d'animo, della folla, sempre più numerosa dopo che Radio Milano Libera aveva dato la notizia: stupita, felice, attonita, ma soprattutto assuefatta agli orrori della guerra. In fondo quella terribile scena stava a significare non solo la punizione per i crimini di Mussolini e del fascismo (lo squadrismo, la soppressione delle libertà democratiche, il tribunale speciale, il confino, l'avventura abissina e l'uso dei gas, la guerra di Spagna, le leggi razziali, la guerra a fianco di Hitler, la repubblica di Salò e la guerra agli italiani), ma anche la nemesi della sua tragica «modernità»: il culto scenografico del duce si stava rivoltando contro il suo protagonista, quasi in un rito premoderno, tragica e collettiva catarsi per una stagione della storia. Nella memoria di molti testimoni di quel giorno rimane impressa la scena di una donna che estrae dalla borsetta una pistola e spara cinque colpi contro il corpo di Mussolini, uno per ognuno dei suoi figli morti nel bombardamento delle scuole di Gorla, il 20 ottobre 1944; o l'immagine di un uomo che urla al cadavere penzolante del duce: «Fai il discorso, adesso, fai il discorso!». E sembra quindi legittima la domanda che si pose Leo Valiani, se quella folla non fosse, almeno in parte, «la stessa delle adunate oceaniche». Ma suonano anche vere le parole dell'Avanti! del 30 aprile 1945: «Ieri in una luminosa giornata di sole si è svolto uno spettacolo orribile. Necessario come tanti orribili supplizi (…) Quale "legalità" avrebbe riparato il torto commesso, l'arbitrio fatto legge, la violenza eretta a norma di vita? Nessuna legge, nessuna legalità che non fosse una "legalità" sorta spontaneamente dal popolo stesso che aveva subito l'affronto. E il popolo è stato costretto a giustiziare il proprio tiranno per liberarsi dall'incubo di un'offesa irreparabile (...) Chi volentieri vedeva nel fascismo soltanto una buffa commedia, forse oggi capirà quale tragedia in realtà sia stato per noi, che l'abbiamo subito, che l'abbiamo scontato sino in fondo». A stento Schiefer riesce a scattare: «Potei avvicinarmi perché il partigiano che si prendeva cura di me, dandomi la mano come se fossi un bambino, sparava in aria a intervalli dei colpi di pistola gridando: "Largo! Stampa estera! Posto! Posto!". E quando una partigiana voleva farmi scendere dal camioncino sul quale ero salito, lo stesso partigiano protettore sentenziò: "Il fotografo può restare"». Assiste dall'esterno, come cittadino di un paese neutrale, ma non può evitare una qualche forma di partecipazione: «l più esagitati sparavano ancora su quei corpi già morti, su quelli appesi e su quelli sdraiati. Cosa non può fare una incontenibile rabbia nel corpo e soprattutto nell'anima! Professionalmente parlando si è soddisfatti quando un servizio d'informazione riesce ad avere un forte seguito nel pubblico; qui, però, mi è rimasto un grande malessere di fronte a quelle scene di crudeltà pur consapevole della giusta condanna che la storia ha dato alla dittatura fascista che le aveva causate». Quando lascia la piazza alle 11.30 sente alcuni colpi secchi: «Hanno ucciso Starace». Un'altra auto dei partigiani lo riaccompagna a Chiasso. Sviluppa subito le immagini e le invia al giornale, la Schweizer Illustrierte Zeitung, che però non le pubblica, giudicandole troppo crude. Varcano invece l'Atlantico e il 10 maggio appaiono sul New York Times e su altri importanti quotidiani americani (mentre in Italia il commercio delle foto scattate da altri fotografi presenti a piazzale Loreto, come Fedele Toscani, il padre di Oliviero, e Peppino Giovi della Publifoto costrinse il prefetto di Milano, Riccardo Lombardi, a sequestrarle. Il 30 aprile, con un'ordinanza, Lombardi aveva anche disposto «l'immediata sospensione delle fucilazioni arbitrarie disposte in seguito a procedimenti sommari da parte di formazioni di volontari e di sedicenti tali»). 8 maggio 1945: la guerra è finita, in Europa, ma anche in Svizzera. Ma a Schiefer era riservato un altro incontro, sia pure fugace, con la storia. Nel mese di settembre Winston Churchill arriva sul lago di Como, accompagnato dalla figlia Sarah e dalla propria scorta personale, rifiutando quella offerta dal governo italiano. Ufficialmente è giunto sul lago per riposarsi dopo la sconfitta subita dai laburisti alle elezioni di luglio e per dipingere i propri amati acquerelli. Alloggia a Moltrasio nella villa dell'industriale Donegani, messa a disposizione delle autorità militari inglesi che vi avevano trasferito tutta la documentazione recuperata dai servizi segreti di Sua Maestà nei luoghi dove era passato Mussolini in fuga, che probabilmente Churchill visionò e distrusse. Ma Schiefer riuscì a scattare solo qualche foto di nascosto, durante uno spostamento a Menaggio dell'ex premier inglese, grazie anche a qualche sigaretta e un po' di cioccolato per le guardie del corpo. Sono foto da paparazzo, ma Schiefer non lo era, ed infatti gli riescono male: troppo elegante, con il suo farfallino e troppo limpido il suo sguardo. La guerra è veramente finita: Schiefer ritorna al suo negozio, alle sue cartoline, ai suoi matrimoni, alle foto di qualche celebrità che appare sul lago in occasione dei primi festival del cinema di Locarno. Nel 1951 va perduto parte del suo archivio fotografico per l'allagamento del locale dove era stato depositato. Non ne fa un dramma: «Le perdite sono gli inconvenienti di una vita troppo lunga». Diventa noto anche come rivenditore di apparecchi e di materiale cinefotografico a clienti come Gianni Berengo Gardin, Mario De Biasi, Ugo Mulas. Nel 1986, dopo 73 anni di attività, cede il suo negozio. Muore a Lugano nel 1998, a 102 anni. La prima mostra fotografica personale gli è stata dedicata nel 2003, dall'archivio di Stato di Bellinzona, cui ha lasciato il suo fondo fotografico. Non era un paparazzo, forse non era neanche un fotoreporter, ma se per un fotografo, come insegna Henri Cartier-Bresson, è fondamentale «mettere sulla stessa linea testa, occhio, cuore», Christian Schiefer lo è stato, davvero.

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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione

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