Diario
La
rivolta di Spartaco
Sul
Colle San Marco, sopra Fermo, caddero otto ragazzi, fucilati dai nazisti. La
ricostruzione di un episodio che portò polemiche e dolore
Angelo
Ferracuti
La
nostra storia incomincia a Fermo una domenica mattina molto sonnacchiosa di
dicembre che minaccia temporali. Piove ininterrottamente da diversi giorni, il
cielo è aggrottato e i meteorologi hanno promesso anche la neve. In via
Abruzzo, dove arrivo con Mario Dondero autore delle foto che vedete in queste
pagine e partigiano nella Brigata Garibaldi, mi aspetta un giovane storico
dell'Università di Urbino, Sergio Bugiardini, autore di Memorie di una
scelta, libro che sta per essere ripubblicato dal Lavoro editoriale con un
titolo nuovo, La città e il colle, dove ha ricostruito con rigore e passione
civile la prima rivolta nelle Marche contro il nazifascismo. «Una banda bovesana (da Boves cittadina piemontese che fu teatro di strage da parte di
nazisti che poi la rasero al suolo, ndr»), ci tiene però a
precisare, antiretorico al massimo, «una guerriglia spontanea, qui nessuno
aveva il nome di battaglia, molti di loro erano militari sbandati». Il libro
non è solo il frutto di uno studio delle fonti, ma l'ha sviluppato sul campo
intervistando anche quelli ai quali la storia ufficiale avrebbe tolto la voce.
Sono 70 nastri frutto di intrusioni nella vita interiore, a posteriori affatto
facili, e interviste nelle quali riverbera l'interrogazione di Claudio Pavone,
indiscusso autore di Una guerra
civile:
«È
stato
possibile dare la parola a tutti?». Il montaggio ha il ritmo incalzante di un
documentario di parole. Quando lo raggiungo vedo la sua faccia paffuta di
ragazzo studioso tarmato dalla calvizie, gli zigomi pronunciati e le
sopracciglia cespugliose. Il racconto di Sergio inizia serioso mentre guida
sciolto la Focus blu sull'A14 poco trafficata. A lui questa storia piace
riferirla enfatico come personificasse ormai la Memoria di tutte le memorie
raccolte con fatica: «Il 12 settembre del 1943 i tedeschi arrivano nella città
di Ascoli. Un plotone si dirige verso la caserma Umberto I e il colonnello Santachè, un badogliano, ordina il fuoco. Allora i tedeschi fuggono, e
durante un'imboscata una intera colonna cade in mano agli italiani». Sembra
il primo di una catena di fatti altamente eroici, e invece solo dopo due ore i
germanici vengono liberati, e al termine dei funerali congiunti impongono la
consegna delle armi. Si brinda con l'anisetta Meletti, sembra tutto finito. «Santachè
è rimasto ferito durante gli scontri», continua Sergio, «così cede il
comando al tenente colonnello Miani. Ma debbo aggiungere un fatto importante:
già dopo l'8 settembre alcuni ascolani, tra i quali Spartaco Perini (che di
questo episodio riferirà in modo molto caustico), un sottotenente degli
alpini reduce della Guerra di Russia, comunista, chiede più volte al comando
militare di essere armato per contribuire alla difesa della città, ma le
autorità militari rispondono con un rifiuto». Beviamo un caffé in un motel
lungo l'autostrada, e appena fuori lui ne approfitta per fumare una sigaretta
continuando a dire: «Sempre il 12 settembre i civili entrano nelle caserme
cittadine e recuperano le armi, alla fine di una giornata di scaramucce con i
tedeschi si registreranno due caduti: Adriano Cinelli, di appena 16 anni, e
Concetta Cafini, uccisa da una pallottola vagante. A mezzogiorno una colonna
di tedeschi proveniente dal centro della città giunge al quartiere San
Filippo e Giacomo e si accende un violento conflitto a fuoco. Gli automezzi di
testa, colpiti da bombe a mano, si arrestano e si incendiano. Un centinaio di
tedeschi vengono presi prigionieri. E il 13 settembre Penni, giunto sul Colle
San Marco, inizia a organizzare il gruppo». È lo stesso comandante a
raccontare l'episodio quando è ancora in vita: «Si verificò un fatto straordinario:
sul San Marco fummo a incontrarci militari e cittadini e formammo una delle
prime bande partigiane d'Italia. Eravamo tutti volontari, e fra questi molti
consapevoli del fatto che, venendo sul Colle, si sarebbero prima o poi battuti
contro i tedeschi». I ribelli che scelgono di partire molto spesso provengono
da famiglie dei ceti popolari. Giorgio Fattori è operaio, figlio di un ex
muratore, Mariano Gasparri fa l'elettrauto, Dina Martelli è meccanico, Nobile
Di Antonio è figlio di un sarto, Nicola Collina di un artigiano edile,
Serafino Ficerai è addirittura apprendista commesso, Francesco Rosa fa
l'agricoltore, anche Pierino Ciccantelli ed Emidio Romani lavorano la terra.
Quando arriviamo all'altezza del cavalcavia che sta vicino alle Casermette,
sulle lastre in travertino possiamo vedere ancora i buchi provocati dai
proiettili di allora, e la scritta con i nomi dei caduti: «In difesa del popolo
e contro l'invasore». Peccato che alcuni cognomi sono sbagliati, e l'invasore
non si nomina, come nessuno ha provveduto a dare alla lapide la dignità che
merita. Una serie di fatti concorrenti, come il sedimentato di un destino,
segna questa storia che come tutte le storie non è affatto lineare. Nei giorni
a seguire non smette il saccheggio da parte dei civili nelle caserme, sul
Colle continuano ad arrivare ribelli ed ex prigionieri scappati dai campi di
concentramento della zona. Molti di loro sono attendisti, s'ingannano che gli
Alleati stanno per arrivare da un momento all'altro. In montagna giungono
anche i disertori che non hanno risposto a un bando che l'autorità italiana ha
emanato il 20 settembre. Radio Londra invita i fuggiaschi che si trovano
nelle vicinanze a raggiungere il Colle e ne esalta la portata militare e
numerica, cosa che poi, secondo molti, indurrà i tedeschi all'intervento
armato, più che il rapimento «di una mezza calzetta di fascista locale»,
Adriano Menghi, che Perini il 23 trascinerà sul Colle nell'intento di
processarlo. Lo stesso dirà di quei momenti: «Durante i primi giorni
arrivavano in continuazione sul San Marco nuovi uomini: civili, militari
sbandati, ex prigionieri inglesi, australiani, americani, slavi e persino
russi». A leggere il libro, la narrazione si disperde in mille rivoli. E poi
sono storie che non si sono umanamente solidificate attendibilmente in
un'epoca, ma che hanno continuato a circolare nel sangue e nel pensiero dei
sopravvissuti, e senza il lavoro prezioso di Bugiardini oggi questo giacimento
di voci sarebbe andato disperso. Quando arriviamo nel cuore della città,
Ascoli è ancora semideserta. Piazza del Popolo invasa dalle bancarelle del
mercatino dell'antiquariato è sempre il luogo meravigliosamente un po' irreale
ritratto da Manganelli. Da un
librivecchi porto a casa Eresia
della sera
di
Giudici con un solo euro. Per
strada, parlando con una signora, le dico che farò un reportage sui partigiani.
Risponde sorpresa e un po' maliziosa: «Partigiani? E li cercate qui? Questa
è una città nera. Ci hanno fatto le riunioni quelli di Ordine nuovo, si
figuri». La città, infatti, ha dato i natali ad almeno due neofascisti
famosi: il torbido Gianni Nardi e la mente criminale Valerio Viccei, quello
della londinese rapina del secolo, centocinquanta miliardi di bottino in
vecchie lire, dicono, morto nel corso di un conflitto a fuoco con le forze
dell'ordine in Abruzzo una ventina di anni fa. In corso Mazzini, nella sede dell'Istituto
storico, ci attendono Paola Alviti e i quattro ragazzi che stanno ricostruendo
la mappatura della battaglia. Hanno meno di trent'anni e sono i «nipoti» di
Spartaco Perini, tutti della sinistra antagonista ascolana nati politicamente
in un centro sociale, ai quali il comandante ha lasciato il suo prezioso
archivio e una rabbia sedimentata in mezzo secolo di persecuzioni politiche.
Andrea Larice fa il falegname, Andrea Gaspari è potatore, Andrea Ancona è
muratore precario. L’unico che non si chiama Andrea, Emanuele Mazzoccanti, fa
l'apicoltore per sbarcare il lunario. Ancona mentre camminiamo mi confessa che
il comandante era una figura straordinaria. «Con lui abbiamo fatto tante cose.
Incontri, seminari, assemblee. Una volta, durante una delle tanti
commemorazioni, siccome quelli dell'Anpi lo avevano escluso, intervenimmo
anche fisicamente per farlo parlare». Adesso hanno un debito con lui, e cioè
«realizzare qualcosa che renda giustizia a quelli che caddero combattendo per
la libertà», mi dice, vorrebbero realizzare un documentario, qualcosa che
resti. Mentre saliamo verso il San Marco la pioggia diventa sempre più densa
sul parabrezza. E più avanti già ai lati della strada si vede la prima neve
fresca, che cresce gradualmente sui tornanti. Più si sale e più il bianco acceca
gli occhi e s'addensa. La Panda dei ragazzi a un certo punto s'arresta, siamo
arrivati. Quando lasciamo le auto a ridosso di un bosco, fiocca già
copiosamente e la strada è completamente ricoperta. La nostra comincia a
pattinare, nonostante le termiche. Le auto che scendono dall'alto vanno a
velocità molto ridotta. Più avanti, su una curva, a pochi metri dalla
strada, si scorge già la lapide ricoperta in cima da uno strato di neve come
una bandiera di marmo che non sventola. C'è scritto: «Qui, vittime della
rappresaglia nazifascista, caddero Cellini Serafino, Ferri Luigi, Grifi Carlo,
Galiè Narciso, Marucci Pietro, Neri Giacinto, Panichi Alessandro, Rozzi
Emilio». Seguiamo i ragazzi e scendiamo in una strada carraia verso il bosco di
castagneti, quasi in fila indiana mentre la neve continua a scendere. Il sentiero
è pieno di pozzanghere, meglio salire affrontando la macchia. Nelle nebbie di
oggi puoi davvero immaginarti i corpi di giovani combattenti che dileguano tra
le sterpaglie. Il paesaggio carsico è chiuso, impervio, le nebbie avvolgono
a banchi come bave di ragno. La neve, mentre cade sul terreno ne nasconde le
tracce sensibili. Non si vede la città dabbasso, l'alto è cosa metafisica,
tutto insomma è coperto come in quei ventitrè lunghissimi giorni. Mentre
cerchiamo di districare rami aggrovigliati e acuminati di acacie per farci
largo nel bosco, Sergio mi racconta che «il 2 ottobre Perini riceve alcune
informazioni che danno i tedeschi presenti in città. A sera alcuni membri
della banda aprono il fuoco contro un gruppo di nazisti a Porta Cartara. Durante
la notte è tutto un susseguirsi di notizie confuse che circolano per il
Colle. Fra alcuni uomini della banda si diffonde il panico e sono molti quelli
che abbandonano le postazioni e rientrano in città. I tedeschi, intanto,
hanno iniziato un'ampia manovra di accerchiamento, puntando su Folignano,
Villa Lempa, Castel Trosino e Villafranca. Si dirà poi che i paracadutisti
impiegati nell'assalto, i Diavoli verdi del II Battaglione, si servirono di
guide fasciste ascolane per circondare le posizioni della banda». La cosa è
confermata da Nobile Di Antonio: «Comunque se non ci fossero state delle
spie, per i tedeschi non sarebbe stato un affare da poco venirci a stanare
lassù». Nei giorni precedenti in montagna si discute il da farsi. Giulio
Cesare Tranquilli ammetterà: «C'erano divisioni tra militari e civili,
questo è sicuro». All'alba del 3 ottobre i tedeschi, favoriti dalla fitta
nebbia, prendono senza colpo ferire il rifugio di San Giacomo, e dall'alto si
dirigono verso le postazioni della banda sorprendendo i resistenti nel sonno. Le
voci si rincorrono in un concentrato eccentrico. Emidio Costantini
riferisce: «Vidi colpire dei castagni proprio a pochi metri da me. Allora
scappai verso la montagna». Quinto Fattori dice che «stanchi di tutto quel
salire, ci fermammo tra alcune rocce, giusto in tempo per vedere più sotto una
numerosa colonna di tedeschi». Francesco Rosa ricorda: «Vidi i tedeschi
salire dalle Piagge verso di noi. Aprimmo il fuoco e fu una baraonda. Tra la
paura e l'incoscienza, tutti sparavano all'impazzata». La spianata del San
Marco è sottoposta a un intenso bombardamento. Libero Loreti accenna: «Perini
ci urlò di non farci prendere, perché ci avrebbero fucilato. Ci disse di
buttarci nei burroni, di scappare, ma io non ero più in grado di correre e
finii in trappola». Serafino Ficerai conserva un ricordo indelebile: «Caricammo
il mulo che avevamo di tutte le munizioni e della nostra mitragliatrice Fiat e
ci appostammo sulle Vene Rosse, dividendoci in piccole posizioni. lo e Ugo Cellini, con i fucili '91 e delle bombe a mano, ci mettemmo in direzione della
spianata, sopra un costone. Più sotto si piazzarono Serafino Cellini, Panichi
e Galiè». Doveva essere vicinissimo il luogo dove stanno le tombe ma camminiamo
da più di mezz'ora col fiatone in un posto fantasmatico, i corpi stanchi, gli
zaini inzuppati e le scarpe infangate non ci aiutano a capire dove stiamo.
Sembra una cosa assurda che stamattina, mentre poco più in alto, sul Monte
Piselli, famigliole inforcano gli sci scendendo velocemente e allegramente
lungo le piste, noi siamo dentro questa tenaglia di alberi e ramificazioni di
fratte che è difficile attraversare. Sento il calpestio degli anfibi, e le
mie scarpe affondare nel fango fresco che quando si slabbra lascia vedere il
terriccio argilloso. Adesso sembriamo davvero corpi fantasmi che si perdono
per andare in un luogo straniero. Ieri un amico mi ha raccontato una cosa
bellissima: lui è uno sciatore, e per anni ha pensato che quando gli sarebbero
nati dei figli, avrebbe voluto loro insegnare a scendere. Adesso, quando corrono
dietro di lui sulle piste battute, sente questo piccolo sogno realizzato e si
commuove. Lo racconto. Poi, all'improvviso, Andrea Ancona ci dice che siamo
quasi arrivati in località Vene Rosse. Ha il volto antico di un giovane vecchio
che non è invecchiato, e mi dice ancora scosso: «Quando siamo arrivati qui
per la prima volta è stata un'emozione grandissima, ci siamo messi a
piangere». Succede anche a noi di emozionarci per questa piccola croce in
rame che adesso accarezzo nel tentativo di leggere, colpita dai fiocchi di neve:
è quella di Cellini Serafino, nato il 29-12-1921 e morto qui il 3-10-1943
all'età di ventuno anni, che sta a pochi passi dalla croce di legno sopra uno
sperone di roccia. Proprio sotto, luogo che raggiungiamo aggirando il grande
masso, ce ne è un'altra, è del mitragliere Alessandro Panichi morto qui
crivellato dai colpi. La discesa è molto impervia, ci aiutiamo dandoci la mano.
Nevica ancora forte. Mi immagino i corpi feriti, sfondati nelle carni vive dal
fuoco dei proiettili, l'assurda ferocia della battaglia. Poi, all'improvviso,
una terribile scossa di terremoto fece tremare la montagna quel giorno. «La
terrà iniziò a tremare», dirà Gesualdo Biondi, «ci fu un boato fortissimo
e vidi i massi muoversi e spaccarsi. I tedeschi, in mezzo a quel trambusto,
scapparono, interrompendo l'attacco e credendo, come noi, che la montagna fosse
stata minata». Molti riuscirono miracolosamente a mettersi in salvo. In
questo posto dove stiamo, mentre la neve continua a cadere sferzando il viso,
molti uomini caddero sotto il fuoco tedesco, altri vennero fucilati sul posto,
altri ancora, caduti prigionieri, furono deportati in Germania. Gaetano
Alviti, anni dopo, così descrive i resti di quei poveri ragazzi: «I cadaveri
giacevano a terra, uno accanto all'altro. Tutta la città quel giorno si recò
per il riconoscimento dei caduti: fu straziante». Mi racconta Sergio la scena
eroica di alcuni di loro che lungo il viaggio che li avrebbe portati nei campi
di sterminio riuscirono miracolosamente a fuggire lanciandosi dal treno in
corsa. Altri morirono di stenti, di malattia o nel corso della lunga detenzione.
Altri ancora tornarono a casa due anni più tardi, a guerra finita. Spartaco Perini, al quale fu conferita la Medaglia d'argento al valor militare, si salvò
sganciandosi insieme ad alcuni suoi fedelissimi, e per tutta la vita subì
processi e persecuzioni politiche per la scelta fatta allora: «E un caro
prezzo lo dovetti pagare anche io, a seguito dei fatti del 3-5 ottobre. Il
dopo San Marco, infatti, l'ho dovuto passare difendendomi in continuazione
da calunnie e diffamazioni, soffrendo di più per questo che non quando i
tedeschi e i fascisti mi davano la caccia. (...) È vero: sono amareggiato»,
dirà, «perché tutte quelle lacrime che mi hanno fatto versare i miei
concittadini non le meritavo. Mi diedero persino del vigliacco, ma quando
raggiunsi il Sud liberato, portando con me Carlo Alberto dalla Chiesa e Fabrizio
Ruffo di Calabria, (...) mi offrii volontario per rientrare nel territorio occupato
dai tedeschi, dove sapevo benissimo che mi sarebbe toccata la morte certa, se
preso e riconosciuto dalle autorità nazifasciste». Il libro di Sergio Bugiardini nasce nel cuore di una ferita italiana ancora sanguinante a mezzo
secolo di distanza, qui dove i fascisti di oggi continuano a incendiare
vigliaccamente le corone d'alloro dopo ogni commemorazione. La scelta di quei
ragazzi di ieri la coagula alla perfezione Beppe Fenoglio in un celebre passo
del Partigiano Johnny: «Perché crepare in attesa di una vittoria che
verrà lo stesso, senza e all'infuori di voi? Mi sono impegnato a dire di no
fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dire di sì».
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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione |