Diario
Lettere
americane
Roberto
Coen Pirani dopo le leggi razziali del 1938 fu licenziato. Decise di emigrare
con la famiglia; dall' epistolario emergono struggimento e nostalgia
Alessandra
Minerbi
Le
riflessioni che seguono nascono dalla lettura di un ricco corpus di lettere
- poco più di cento - che Roberto Coen Pirani mandò ai genitori dal maggio
1939 fino alla primavera del 1946, dal periodo in cui maturò la sua decisione
di emigrare negli Stati Uniti a poco prima del suo ritorno in Italia. Vi è un
lungo silenzio tra l'autunno del 1941 e l'autunno del 1944: dall'ingresso degli
Stati Uniti in guerra fino ai primi contatti epistolari con l'Italia
progressivamente liberata dagli Alleati. Le lettere di Roberto sono state conservate
da suo padre Armando e, in tempi recenti, pazientemente trascritte da suo
figlio Leo. Sono purtroppo andate perdute quasi tutte le risposte della
famiglia dall'Italia - ne
restano una decina - ma
l'insieme del carteggio costituisce,
anche con la sua lunga interruzione e con le inevitabili reticenze, una
testimonianza significativa di cosa rappresentò la partenza e la lontananza
dall'Italia per quanti dovettero andarsene per il solo fatto di essere
considerati «di razza inferiore» nel Paese dove avevano fino ad allora vissuto.
Ho conosciuto Leonora e Roberto Coen Pirani nell'estate del 1981, a
Vallombrosa, dedico queste pagine alla loro memoria. Le dedico anche a Susanna,
Eleonora e Nicolò - felice che in quella lontana estate siano stati
riannodati fili mai interrotti - perché
questa storia è anche loro. Il 15 maggio 1939 la Montecatini, «Società
generale per l'industria mineraria e chimica», comunicava a Roberto Pirani,
capo ufficio del laboratorio centrale di Milano e del centro studi di Novara
che «in conformità alle direttive in materia razziale siamo venuti nella
determinazione di rinunciare alle vostre prestazioni». L'allora trentaduenne
chimico, sposato e con tre figli, si trovava così senza lavoro. Le prime leggi
razziali erano entrate in vigore in Italia nel settembre precedente. Gli ebrei
erano stati allontanati in breve tempo da tutti gli impieghi pubblici e
cominciava l'espulsione anche dalle altre attività professionali. Per gli
ebrei stranieri giunti nella penisola dopo il 1918 fu decretata la partenza
entro sei mesi, mentre per gli italiani non fu preso alcun provvedimento di
espulsione, ma il governo cercò di favorirne comunque la partenza. Pochi
furono coloro che decisero di partire, circa il 13 per cento (seimila) degli
ebrei italiani, stabilendosi per lo più negli Stati Uniti, in Palestina e in
America Latina. Emigrare era difficile non soltanto per motivi economici e
organizzativi, ma ancor più per l'antico e profondo radicamento in Italia,
per la violenta rottura di un lungo percorso di integrazione. Quattro giorni
prima di venire licenziato Roberto Pirani, consapevole della precarietà della
propria condizione, scriveva ai genitori facendo chiaramente capire che con la
moglie Leonora Finzi, sposata nel 1933, stava prendendo in considerazione
l'idea di partire. Dopo il licenziamento Pirani fu per qualche mese consulente
chimico della Società toscana azoto di Figline Valdarno, ma si trattava di una
soluzione soltanto transitoria. In quei mesi egli cercava così un altro
lavoro in Italia, ma anche una meta d'esilio e tante erano le ipotesi che si
accavallavano: Brasile, Argentina, Stati Uniti. Spesso è stata solo una serie
di circostanze casuali a far optare per un Paese piuttosto che per un altro: le
trafile burocratiche - fatte di biglietti, visti di transito e di ingresso -
erano complesse. Mentre i Pirani si stavano orientando, come i genitori di Leonora,
per l'Argentina, arrivarono i visti per gli Stati Uniti, grazie al ruolo
fondamentale di una coppia di zii di Leonora che firmarono l'affidavit -
cioè la garanzia di assistenza economica ai futuri immigrati - necessario per
il visto di entrata. Fino all'ultimo il dubbio se andare o restare fu
dilaniante: «Sul punto di prendere questa decisione», scrive Roberto il 16
settembre 1939, «puoi immaginare quali e quanti pensieri sorgano, incertezza
dell'avvenire, dolore di staccarmi da voi, ma sopra ogni cosa sta il pensiero
di far di tutto per assicurare ai figli un'esistenza in un mondo diverso e migliore».
E quattro giorni più tardi: «Stiamo attraversando delle giornate piuttosto
burrascose, di grande crisi spirituale, e al momento di deciderci siamo assaliti
da dubbi e pensieri che potete immaginare». L'ipotesi della partenza fu più
spesso presa in considerazione quando l'emigrazione faceva già parte dell'esperienza
familiare. Questo fu il caso della famiglia Pirani e soprattutto della
famiglia di Leonora Finzi. Il fratello di Roberto, Mario, emigrò in Brasile. Un
cugino, Corrado, si trasferì anch'egli in quegli stessi mesi a Chicago e
lavorò come medico. I genitori di Leonora stavano in quello stesso periodo
organizzando la partenza per l'Argentina. Altri due fratelli della madre si
trasferirono negli Stati Uniti nel 1938, mentre una sorella vi era già dal
1933 dopo aver sposato un ebreo tedesco costretto a lasciare il Reich
nazista. Il nonno materno di Leonora, Leo Olschki, noto editore di origine
polacca era arrivato in Italia nella seconda metà dell'Ottocento. Lo stesso
Leo, persa la cittadinanza italiana e ormai ultraottantenne, era emigrato in
Francia e poi in Svizzera nel 1938. L'anziano editore, costretto a un nuovo
esilio, scriveva a un amico: «Vivo come un esule e un vagabondo ora qui, or là,
adesso forzatamente in Svizzera, come apolide, ma con il mio vecchio passaporto
italiano prorogato per un anno». Percorsi diversi che rimandano a quella
dolorosa e difficile mancanza di stabilità in un'Europa sempre più chiusa
verso gli esuli come era emerso chiaramente l'estate precedente nel corso
della conferenza svoltasi a Evian per risolvere il sempre più urgente
problema dell'emigrazione dalla Germania. Vi avevano partecipato i
rappresentanti di 32 Paesi, senza però giungere ad alcun accordo. Come
scrisse in quegli anni Bertolt Brecht nel suo splendido Dialoghi di
profughi: «Il passaporto è la parte più nobile di un uomo», una tragica
verità che valeva ormai per tutti i profughi d'Europa. Ai primi di ottobre
Roberto, Leonora e i tre figli Leo, Claudia e Paolo, rispettivamente di 5, 3 e
1 anno, si imbarcarono sulla nave Rex diretti a New York. Il dolore della
separazione e la fatica psicologica e materiale del viaggio erano alleviati
dalla certezza che si trattasse di un'interruzione temporanea: «Quello che ci
consola», scrive Roberto durante il viaggio il 13 ottobre 1939, «è
l'impressione che la distanza dall'Italia è in fondo relativa. Il viaggio non
ci è apparso affatto lungo e anche il vedere tanta gente che ne ha l'abitudine
ci fa pensare cosa lieve il ripeterlo. Speriamo: certo è cosa radicata nella
nostra mente un ritorno in Italia fra non molto». L'arrivo, sebbene facilitato dall'aiuto affettuoso e partecipe degli zii, non fu facile. L'esperienza degli
ebrei emigrati negli Stati Uniti dopo le leggi razziali è stata poco indagata
dalla storiografia e ci è nota soprattutto attraverso le memorie di italiani
illustri fra cui la moglie di Enrico Fermi (insignito del Nobel per la fisica
nel 1938) e il fisico Emilio Segré (che si trovava a Berkeley al momento
dell’emanazione delle leggi razziali e decise di non fare ritorno in
Italia), la cui situazione, lavorativa ed esistenziale, non può essere
considerata rappresentativa di quella della maggior parte degli altri esuli. Per
un anno intero Roberto Pirani cercò lavoro come chimico e le sue lettere alla
famiglia lasciano trasparire, forse anche oltre le intenzioni, una fatica e
una tristezza crescenti, sempre accompagnate dal dubbio se non fosse opportuno
partire nuovamente o verso un altro luogo degli Stati Uniti o addirittura
verso un altro Paese. «Ma in verità», ammette Roberto dopo sei mesi di
ricerche, «non ho nessuna voglia di rimettermi in giro per il mondo, di
ricominciare a imparare un'altra lingua, di adattarmi a un nuovo ambiente». Lo
sconforto e la difficoltà sono accresciuti dalla netta percezione che il
clima è tutt'altro che favorevole agli stranieri: «La gente qui diventa ogni
giorno più diffidente verso gli stranieri, senza far tante distinzioni di
razza o di partito», scrive l'8 luglio 1940. Se il lavoro era il problema più
urgente c'era tutta una vita da ricreare. Roberto racconta di dedicarsi intensamente
allo studio dell'inglese e descrive diffusamente la lunga e difficile ricerca
di una casa. Il tentativo di ricostruire una quotidianità passa anche da
piccoli particolari: «Eccellenti gli spaghetti americani, però dobbiamo
ancora trovare dell'olio possibile e bisognerà che vada in qualche pizzicheria
italiana a cercarmi il parmigiano!», scrive Roberto pochi giorni dopo
l'arrivo. I bambini, descritti sempre con attenzione e ironia ai nonni lontani,
sembrano invece quasi non sentire la fatica del cambiamento e anzi il padre
constata con tristezza come in pochissimo tempo abbiano quasi dimenticato
l'italiano e ripetutamente racconta degli sforzi suoi e della moglie per costringere
i ragazzi a parlarlo almeno a casa. Certamente per i bambini non parlare una
lingua sconosciuta, la propria lingua, davanti ai compagni di scuola, era il
primo, fondamentale passo, per integrarsi. A un anno preciso dall'arrivo
nell'ottobre 1940 Roberto trovò lavoro come chimico alla Polaks Frutal Works di
Long Island, dove sarebbe restato fino al ritorno in Italia. L'assillo
quotidiano si fece dunque da quel momento meno pressante. La vita di ogni
giorno continuava a essere raccontata ai genitori con ricchezza di particolari,
ne emerge una quotidianità fatta di notevole isolamento: i Pirani frequentavano
quasi esclusivamente italiani, per lo più anch'essi ebrei. Con loro non si
condivideva una religiosità profondamente vissuta - nessuno di loro era capace
di celebrare la Pasqua ebraica secondo i precetti come raccontava ironicamente
Roberto - ma il ricordo del passato e i progetti per il futuro, un fitto e
continuo scambio di informazioni e notizie sul proprio Paese. «Fortuna che si
hanno spesso», scrive Roberto nel gennaio 1941,
«o da lettere
ad amici o da qualcuno, che ogni tanto arriva ancora dall'Italia, notizie
generali sulla situazione, che, se anche talvolta contraddittorie, pur ci
tranquillizzano». Se dunque tra il 1940 e il 1941 il lavoro regolare, i figli
sistemati a scuola, un appartamento di dimensioni adatte, rimandano a una vita
meno precaria, sono gli avvenimenti internazionali a destare preoccupazione. Le
lettere dirette nell'Italia fascista sono scritte operando una sorta di censura
preventiva e dunque non vi sono mai dichiarazioni compromettenti o prese di
posizione chiare, ma indubbia è la consapevolezza che la guerra sta per
diventare mondiale e che l'Italia e l'Europa sono profondamente mutate: «Intanto
l'Europa sta svanendo sotto i veli delle censure e sotto le cammafature
[sic] della
propaganda e delle notizie di
stampa, e ci andiamo domandando quando e in che condizioni la si rivedrà,
convinti che, in un modo o nell'altro, quando la rivedremo stenteremo a
riconoscerla». Così scrive
Roberto nel giugno del 1941
in quello
che è forse lo sfogo più esplicito di questi anni, subito stemperato da una
profonda e struggente nostalgia: «Ma ci sarà sempre la quiete e l'intima
bellezza di una spiaggia tirrenica o di un paesetto dell'Appennino toscano,
luoghi sognati tante volte qui, specie di fronte al grigio dell'Atlantico e di
fronte alla deserta distesa della campagna vicina e alla monotonia dei
villaggi e delle cittadine americane, a stento riconoscibili l'uno dall'altro».
Poco dopo questa lettera gli Stati Uniti entrano in guerra e per tre lunghi
anni non ci sono notizie né da una parte, né dall'altra. In quei tre anni
coloro che erano rimasti in Italia conobbero cambiamenti ben più difficili
rispetto agli esuli. La violenza devastante della guerra aveva attraversato
l'intera penisola e dopo l'occupazione nazista era stato esteso anche
all'Italia lo sterminio degli ebrei d'Europa. Leonora, scrivendo nell'aprile
del 1944 agli amici Contini nella Napoli da poco liberata, era ben cosciente
di questo divario: «Dopo tanto tempo ho l'impressione di non avere niente da
dire, e soprattutto ho l'impressione che le nostre vicende, se così si
possono chiamare, siano troppo poco interessanti per varcare l'oceano». Le
prime notizie dall'Italia sulla famiglia Coen Pirani giunsero da un capitano
medico americano, Leo Kaplan, che prestava servizio nella V Armata di stanza
in Toscana, grazie a quella complessa rete di contatti e di scambi che si
crearono all'estero. Leo Kaplan lavorava infatti al Michael Reese Hospital di
Chicago con Corrado Levi, cugino di Roberto, emigrato anch'egli in America, che
chiese al collega notizie degli zii di cui non si sapeva più niente da anni. Kaplan mandò dunque le prime notizie da Pisa in ottobre. Subito dopo Armando Coen Pirani, padre di Roberto, scrisse al nipote Corrado raccontando
dettagliatamente come erano passati quegli anni: la famiglia aveva deciso di
sfollare soltanto dopo i più violenti bombardamenti dell'estate 1943. Se per
nessuno era facile trovare una condizione sicura, per gli ebrei si aggiungeva
l'urgenza di vivere celando la propria identità, con nomi e documenti falsi.
Un ebreo fiorentino, Elio Salmon, nascosto anch'egli in quei mesi nella
campagna toscana, annotava sul proprio diario che cresceva di giorno in giorno
«la sensazione di essere come bestie braccate». Assai scarse sono le notizie
su come i Coen Pirani abbiano trascorso quei mesi, certamente in alcune
località toscane in provincia di Firenze e di Lucca, con un lungo periodo
nascosti in un manicomio, ma i contorni di questa vicenda restano vaghi nella
lettera di Armando. La figlia Liana, con il marito Said e i bimbi, era invece
sfollata alla Rufina, nelle vicinanze di Firenze e, costretta a recarsi in
città per farsi medicare un braccio, venne arrestata, non si sa se da italiani
o tedeschi, nel marzo del 1944, portata a Fossoli e da lì deportata ad
Auschwitz in maggio. Armando racconta che la figlia è stata deportata a Fossoli
e poi non ne ha più saputo niente: «Ti puoi figurare il nostro dolore e le
nostre speranze di rivederla presto», scrive nell'ottobre al nipote. E in
quel «presto» c'è tutta l'illusione, la speranza e anche la difficoltà a
comprendere la tragedia che si stava compiendo nei campi di sterminio
dell'Est. Da dicembre anche Roberto entra nuovamente in contatto con il
padre e in febbraio gli scrive: «Ma per quanto sia, come voi, nell'impossibilità
assoluta non solo di fare qualcosa per lei, ma anche di far qualcosa per avere
sue notizie, non penso al peggio. Certo la vita in un campo di concentramento
come quello sarà dura, ma bisogna credere che sarà tuttora in Italia, dove
non si è verificato né si verificherà alcuno degli eccessi che si sono
avuti altrove». La speranza che da Fossoli fosse possibile evitare la deportazione
a est dimostra quanto vaghe fossero ancora le notizie sullo svolgimento della
Shoah in Italia. Con il passare dei mesi però cominciarono ad arrivare
informazioni più chiare. Più volte nelle sue lettere Roberto accenna con
dolore a quanto gli scrive il padre a proposito della testimonianza di Liana Millu, una giovane ebrea pisana deportata ad Auschwitz e tornata a Pisa
nell'autunno del 1945. Nei febbrili mesi successivi si intrecciano i momenti
di speranza e quelli di sconforto. Le notizie erano contraddittorie perché
Liliana era ancora viva alla liberazione di Auschwitz, ma come si venne a
sapere con certezza alla fine del 1945 era morta poco dopo uccisa dagli stenti e
dalla malattia. Intanto nelle lettere scritte nel corso del 1945 Roberto cerca
di capire quale sia la situazione in Italia, quanto sia stata distrutta Pisa,
quali prospettive vi siano. Unica certezza è quella del ritorno. Sarà un altro
cambiamento difficile, su questo non c'è dubbio: «Naturalmente non ci
nascondiamo le difficoltà che incontreremo, specie all'inizio», scrive
Roberto nell'aprile 1946, «e specie per i bambini, per cui il cambiamento
sarà uno shock notevole, ma forse meno che fra qualche anno». Se nelle prime
lettere di Roberto c'era il faticoso affanno di creare una vita in un Paese
sconosciuto, adesso vi si legge l'angosciosa attesa del ritorno in un'Italia che
si sa profondamente mutata, di cui ci si informa nei minimi particolari, fino a
domandare se sia meglio portare la cucina a gas o quella elettrica. I Pirani si
imbarcarono sul Vulcania nel luglio 1946 per tornare al loro Paese d'origine.
Le radici che li legavano a esso erano troppo profonde, neppure la tragedia
della Shoah, alla cui realizzazione tanti italiani avevano contribuito in prima
persona, aveva potuto reciderle. Oltre al dolore per le notizie e all'ansia
per il futuro che li attende, c'è la fiera consapevolezza di un lungo
percorso di maturazione e presa di coscienza: «Per fortuna l'esilio se per noi
è stato comodo», scriveva Leonora, «non ci ha chiuso gli occhi, anzi vorrei
dire che ce li ha aperti per la prima volta; non è la prima volta che mi rendo
conto che fino a ieri troppo poco ci siamo occupati delle sofferenze umane e
che se vogliamo conquistarci un posto nel mondo, anche noi dobbiamo
partecipare alla ricostruzione di un mondo che non avrà niente a che fare con
quello di ieri».
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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione |