Diario

Gli italiani, quelli Giusti

Carlo Angela, Arturo Carlo Jemolo, padre Giuseppe Girotti... La rete di aiuto agli ebrei braccati nella Repubblica sociale fu spontanea, estesa e ingegnosa. Era formata da persone comuni, molti sacerdoti e persino qualche camicia nera

Liliana Picciotto

Il titolo di «Giusto tra le nazioni» designa i non ebrei che abbiano manifestato atteggiamenti amichevoli e di solidarietà nei confronti degli ebrei. Lo Yad Vashem di Gerusalemme, il più grande Memoriale al mondo per le vittime della Shoah, attribuisce questo titolo a chi durante la Seconda guerra mondiale ha soccorso e salvato la vita, spesso a rischio della propria, di ebrei perseguitati. Attualmente sono 20 mila i Giusti individuati (per vederli tutti yadvashem.org), di cui 400 circa gli italiani. Per gentile concessione della casa editrice Mondadori, che pubblica a giorni I giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei 1943.1945 di Israel Gutman e Brach Rivlin dove sono raccolte in forma di dizionario biografico le storie di uomini e donne che tra il 1943 e il 1945 salvarono molte vite, anticipiamo alcune pagine del saggio introduttivo della curatrice dell’edizione italiana Liliana Picciotto.

Per meglio valutare l'entità del fenomeno del soccorso prestato agli ebrei conviene innanzitutto ricordare che il totale della popolazione italiana, valutata secondo l'ultimo censimento disponibile, quello del 1936, era di 42 milioni 994 mila anime. Nel 1943, dando per scontato un certo incremento di popolazione e prendendo in considerazione solo le regioni rimaste sotto il regime della Repubblica sociale italiana e dell'occupazione tedesca, gli italiani dovevano essere almeno altrettanti. Nello stesso periodo, gli ebrei rimasti intrappolati nel territorio governato dalla Repubblica sociale italiana e dall'occupante tedesco erano circa 32.300 sicché, ridotta la questione in meri termini quantitativi, circa 43 milioni di italiani avrebbero potuto o dovuto proteggere 32.300 ebrei perseguitati. Di questi, circa 8 mila furono gli arrestati (6.806 deportati identificati, a cui si aggiungono circa mille deportati inidentificati, 322 uccisi o morti in Italia prima della deportazione, circa 500 arrestati ma non deportati per mancanza del tempo necessario). Ne rimasero indenni altri 23.500 circa. Segnaliamo però già, a partire dal puro dato numerico, che la salvezza degli ebrei in Italia, per la loro esiguità e per la loro «inqualificabilità» fisica, che in nessun modo li faceva distinguere in mezzo al resto della popolazione, non era questione insormontabile. Gli ebrei facevano parte di una seconda Italia sommersa costituita da migliaia di individui bisognosi di aiuto: come i soldati che avevano smesso la divisa, come i prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi di internamento, come gli antifascisti ricercati. Senza il soccorso e la connivenza della prima Italia «ufficiale» che viveva, si nutriva, lavorava, operava alla luce del sole, aveva accesso alle tessere annonarie e a documenti accettati, la seconda Italia non avrebbe potuto sopravvivere. Occorreva trovare falsi documenti, finte tessere annonarie, rifugi, cibo, accompagnare i clandestini alla frontiera italo-svizzera, un'attività praticata da centinaia di individui, mossi dalle più diverse motivazioni, tra i quali ci sono anche i soccorritori di ebrei, i cosiddetti Giusti, elencati in questo libro. È importante sottolineare come i Giusti si mossero su di un terreno di solidarietà non solo verso gli ebrei ma verso gli ebrei in un contesto civile ben preciso. La protezione ai ricercati e agli ebrei fa parte della categoria della resistenza civile, come gli scioperi, le manifestazioni di massa per la penuria del cibo, il fiancheggiamento alla lotta armata, la resistenza al reclutamento di manodopera coatta. Non si può isolare il concetto del soccorso agli ebrei da quello di resistenza morale, un fenomeno che interessò tutta l'Europa occupata, anche se variò da Paese a Paese, da una situazione a un'altra, da un tempo a un altro. Secondo la definizione di Jacques Semelin, la resistenza civile comprese una serie di comportamenti conflittuali con il potere costituito che si avvalsero non di armi, ma di mezzi civili come: il coraggio morale, l'inventiva, l'aggiramento della violenza, la capacità di manovrare i rapporti e di cambiare le carte in tavola a dispetto e ai danni del nemico. Discorso leggermente diverso va fatto per il soccorso da parte degli ecclesiastici dove l'aiuto agli ebrei fu dispiegato nel quadro di una più vasta opera di aiuto a civili rimasti senza tetto, a rifugiati di ogni tipo, a perseguitati per motivi politici. La carità cristiana fu dispiegata durante la guerra in maniera non specifica nei confronti degli ebrei, ma sicuramente in maniera speciale, per motivi di quantità e di particolare allarme per le loro vite. Il rifugio nei conventi e nelle case religiose, l'aiuto dei parroci nei piccoli centri, la disponibilità e il soccorso prestato da esponenti o semplici iscritti ad Azione cattolica fu di tale proporzione da assumere un aspetto corale, significativo sul piano ideale ma anche sul piano semplicemente dei rapporti affettivi tra le persone coinvolte. Al contrario di molti osservatori, non pensiamo che per questa ope­ra fosse necessaria una specifica direttiva papale. Dopo l'8 settembre 1943, il sentimento popolare era ormai cambiato: alla sopportazione e all'indifferenza per i problemi provocati dal regime fascista, si sostituì la rabbia nel constatare che l'Italia era per i tedeschi terra di conquista, dove non c'era limite ai soprusi. Forse gli italiani tardarono a riconoscere la natura del nazismo perché, per anni, esso si era presentato sulla scena come alleato, e, tra l'altro, fino all'8 settembre 1943 non aveva mai usato violenza sugli italiani. Ora che la Germania nazista era diventata alleata-occupante, la reazione fu immediata. I «resistenti civili» furono a migliaia: si trattò soprattutto di persone qualunque, semplici uomini della strada non dotati di particolare educazione o istruzione, che diventarono, a contatto con la barbarie, anticonformisti, non allineati, non filofascisti, non filotedeschi. Aiutò a predisporre gli animi in tal senso soprattutto la grande operazione di soccorso con vestiario e occultamento dei soldati sbandati nei giorni dopo l'8 settembre 1943, primo atto popolare, non coordinato ma corale, di insubordinazione agli ordini nazisti e fascisti. L'atteggiamento co­mune cambiò e, in pochi giorni, dall’indifferenza si passò al soccorso attivo o passivo. Per soccorso attivo si intende quell'insieme di attività volte a scardinare deliberatamente la politica nazista e fascista, mediante azioni di sabotaggio, offerta di nascondigli, boicottaggio agli ordini impartiti, fabbricazione di carte false, accompagnamento alla frontiera. Il soccorso passivo si estrinsecò invece in azioni di non coinvolgimento diretto, ma di tolleranza e connivenza verso azioni altrui. Questo comportamento solidale, visto nel suo insieme, ebbe in Italia due caratteristiche: fu spontaneo e collettivo. Fu un comportamento sociale di completa rottura rispetto al passato e si sottrasse clamorosamente dall'abitudine imposta dal regime di organizzare gli eventi collettivi. Fino ad allora, collettivo aveva voluto dire orientato, mai spontaneo. Dopo l'8 settembre, in poche ore, migliaia di giovani sbandati che servivano nell'esercito gettarono la divisa, si vestirono di abiti civili e chiesero l'aiuto della popolazione per occultarsi nelle campagne, nei casolari in montagna, nelle cantine, ovunque ci fosse qualcuno disposto a nasconderli. A questa massa di militari, si aggiunsero presto soldati o ufficiali alleati fuggiti dopo l'8 settembre dai loro luoghi di internamento e vaganti nella penisola alla ricerca di informazioni, aiuti materiali e logistici per mettersi in contatto con il loro esercito o per attraversare le linee, o per rifugiarsi in Svizzera. Si aggiungano gli antifascisti fuggiti dai campi di internamento disseminati soprattutto nell'Italia centrale, gli oppositori politici ricercati per attività «eversiva», tutti gli ebrei d'Italia e si vedrà che il movimento di soccorso nei loro confronti non poteva non assumere il carattere di movimento corale: migliaia di persone ne aiutarono migliaia di altre. L’aiuto da parte della popolazione civile agli ebrei non si può capire se non collocandolo in questa prospettiva. Il movente politico contò allora pochissimo; scorrendo le vicende dei Giusti appare chiaro come il soccorso, nella maggioranza dei casi, fu umanitario. Le organizzazioni politiche tardarono a prendere coscienza del pericolo mortale in cui versavano gli ebrei, il Cln si mosse tardivamente, nell'autunno del 1944, e solo perché sollecitato dai vertici della Delasem trasferitisi in Svizzera. Gli stessi fogli clandestini antifascisti affrontarono il problema poche, sporadiche volte. I privati, le famiglie amiche, i conoscenti furono più rapidi e determinati perché la situazione di allarme parlò immediatamente alle loro coscienze. Contarono allora di più forme di concordanza fondate su rapporti famigliari, professionali, lavorativi, di amicizia, di comunità. Si pensi ai vicini del rione del quartiere ebraico a Roma che nascosero centinaia di cittadini ebrei nelle cantine, nei solai, nei retrobottega dei negozi durante la terribile retata del 16 ottobre 1943 o agli amici che si strinsero talvolta in appartamenti di due, tre locali per ospitare i perseguitati. È bene ricordare che non ci fu specifico pericolo incombente su chi dava protezione agli ebrei in particolare. Voci, successive alla guerra, di fantomatici proclami che diffidavano la popolazione dall'aiutare ebrei non sono avvalorate dai documenti. Malgrado la pesantissima atmosfera di intimidazione generale per chi non si conformava all'ordine costituito, allora, veniva arrestato e punito con la deportazione chi faceva parte o era sospettato di far parte di un movimento antifascista organizzato, o veniva colto a possedere una radio clandestina o armi. Alcuni dei nostri Giusti sono stati in questo senso doppiamente eroici, furono arrestati e deportati per aver generosamente soccorso degli ebrei nel quadro di una loro cosciente attività politica. Essi sono Odoardo Focherini, Torquato e Franco Fraccon, Giovanni Palatucci, padre Giuseppe Girotti. Per gli altri, se colti in flagrante soccorso, c'era il fermo, l'interrogatorio, l'ammonizione: si vedano i casi della signora Borsotti Pancani, di don Cipriano Ricotti, di Vincenzo Tambini, di don Aldo Brunacci, di Alfonso Canova, di don Leto Casini. La principale forma di soccorso necessario agli ebrei in pericolo era l'occultamento in situazione dove essi non potessero essere più riconoscibili: per occultarsi occorrevano due cose, un ricovero diverso dalla propria casa e una falsa identità. Il primo più importante elemento di salvezza fu offerto, oltre che da generosi amici in case private, soprattutto da coloro che avevano a disposizione da offrire luoghi per dormire: conventi, monasteri, case religiose, ospedali. Appare chiaro dalle schede qui pubblicate e dalle altre ricerche da noi intraprese, che i religiosi cattolici furono i principali attori dell'occultamento degli ebrei. La situazione di Roma fu particolare perché vide la presenza simultanea di tanti ebrei (una comunità che contava 11 mila membri) e di tanti conventi e case religiose: è naturale che gli ebrei che fuggivano, terrorizzati, la retata scatenata dai nazisti il 16 ottobre del 1943, se privi di amici non ebrei pronti ad accoglierli nelle loro case, bussassero disordinatamente alle porte dei conventi, unica ancora di salvezza. Ciò si verificò a Roma per il modo stesso in cui agì sugli animi la tragica sorpresa del rastrellamento. Negli altri luoghi le cose andarono diversamente, come in una benefica catena: di solito gli ebrei che si trovavano già in condizione di sfollamento in piccoli centri o paesi, giunto l'8 settembre e l'occupazione tedesca, ma ancor più, giunto l'ordine di arresto generalizzato italiano del 30 novembre 1943, si rivolgevano alla persona più in vista, e allo stesso tempo più degna di fiducia del paese, il parroco. Questi, non disponendo di luoghi in cui far dormire le persone bisognose, si rivolgeva ai conventi, ai monasteri vicini o ai seminari per raccomandare gli ebrei, divenuti suoi protetti. La catena dell'esercizio della carità cristiana, altrove che a Roma, fu quindi dispiegata dal clero secolare per una parte e dal clero regolare dall'altra, in una situazione in cui le case religiose e i conventi erano anche i luoghi dove gli sfollati si rifugiarono come primo ricovero dai bombardamenti alleati. Le altre strutture di elezione per l'occultamento degli ebrei furono gli ospedali, dove occorreva la generosità del primario e la connivenza del personale infermieristico: l'Istituto dermopatico italiano, il Fatebenefratelli sull'isola Tiberina, il Policlinico Umberto I, a Roma, così come la casa di cura psichiatrica Villa Turina Amione diretta dal dottor Carlo Angela a San Maurizio Canavese e altri furono luogo di sollievo e rifugio. Quanto all'altro importante elemento di salvezza, i documenti falsi, ricordiamo che per sopravvivere ne occorrevano di due tipi: una carta di identità o una tessera postale (quest'ultima di più fondata legittimità) e una tessera annonaria, distribuita dalla prefettura a ogni cittadino, necessaria per ricevere la razione di cibo consentita dall'economia di guerra distribuita nei negozi di alimentari. Gli ebrei in clandestinità erano privi sia delle prime sia delle seconde, per cui, oltre a correre un grande pericolo se colti con i propri documenti stampigliati con la dicitura «di razza ebraica», non avevano modo di procurarsi il cibo necessario. Come per tutti i ricercati, anche per gli ebrei si creò un vero e proprio mercato di falsi documenti, talvolta ceduti gratuitamente per spirito di generosità, talvolta pagati a caro prezzo. Benemeriti impiegati comunali si lasciarono «derubare» di carte di identità in bianco a Roma, Milano, Bellaria e altrove, mentre a Genova si sa che un impiegato comunale si fece pagare profumatamente. Oltre alle carte in bianco occorrevano dati certi con cui riempirle, nuove fotografie e timbri e punzoni fabbricati appositamente da tipografi compiacenti. I dati falsificati recavano luoghi di residenza nell'Italia meridionale, difficili da controllare in caso di fermo perché in zona già liberata dagli Alleati. Uno di questi falsari era Giorgio Nissim che con l'aiuto di don Paoli fabbricò decine di queste carte di identità avendo come base la casa degli Oblati a Lucca, altri furono Luigi e Trento Brizi ad Assisi, padre Benedetto Maria a Roma, il cosiddetto Centro X (diretto dal generale Bencivenga) che arrivò a produrre a Roma migliaia di false tessere annonarie su carta filigranata delle Cartiere di Fabriano, sottratta al Poligrafico dello Stato con un audace furto notturno. Oltre alle comunità religiose o ospedaliere, talvolta ad agire furono comunità civili, come gli abitanti di un villaggio o abitanti di un caseggiato, in un concorso di sentimenti positivi. Mi sembra eccezionale il caso dei molti abitanti di Borgo San Dalmazzo che portarono cibo e generi di prima necessità alla caserma degli Alpini, improvvisato campo di concentramento per gli ebrei arrestati a Valdieri ed Entracque per circa un mese, fino al 21 novembre. L'altro caso da segnalare è senz'altro quello della cittadina di Amandola in provincia di Ascoli Piceno, dove tutto il paese si mobilitò assieme alla famiglia del capostazione Brutti per trattenere la famiglia jugoslava degli Almuli Eskenazi, che si era fermata solo per la notte ed era intenzionata a viaggiare verso il Sud. Fu formato una specie di comitato di soccorso e ognuno procurò qualche cosa per la sopravvivenza nel rifugio rimediato: chi vestiario, chi cibo, chi biancheria da letto, chi stoviglie e pentole. Non fu da meno il paese di Cotignola in provincia di Ravenna, dove ben quaranta ebrei furono sistemati, forniti del necessario per vivere e di documenti falsi da un gruppo di paesani con in testa il professore di scuola locale e il commissario prefettizio. Gli ebrei, con l'emanazione del sopra citato ordine d'arresto n. 5 diffuso dal capo della polizia Tamburini ai prefetti la sera del 30 novembre del 1943, ricaddero nella categoria dei fuorilegge da arrestare sia da parte della polizia tedesca, sia italiana. Se scoperti, erano senza scampo, destinati a essere mandati prima nelle prigioni e nelle camere di sicurezza locali, poi al campo di raccolta e di transito (di Fossoli, o di Bolzano poi), dove dovevano attendere il loro turno per la deportazione verso l'Est, eufemismo per dire essere assassinati con il gas oppure introdotti nel campo di sterminio di Auschwitz per essere sottoposti a lavoro schiavo. Ogni famiglia cercò di procurarsi la salvezza, tentando di occultare la propria identità confondendosi nel mare dell'anonimato. Dall'analisi delle schede che presentiamo, emerge un dato comune a tutte le disgraziate famiglie: il continuo peregrinare dopo aver lasciato la residenza abituale, l'impossibilità di un ubi consistam duraturo perché ogni rifugio, dopo pochi mesi, si presentava precario. Questa è la ragione per cui molte volte le persone che davano soccorso all'inizio non erano le stesse che portavano a termine l'opera di salvataggio. Si verificava la necessità di dover cambiare spesso residenza o rifugio, con il cuore in gola, con l'ansia di non riuscire a trovare una nuova sistemazione, con sempre meno oggetti personali e vestiti appresso, lasciati nel posto precedente. Su tutti incombeva il terrore di essere scoperti e arrestati assieme alle famiglie, la preoccupazione di procurarsi carte false, cibo e ricovero. Naturalmente riuscirono meglio coloro che avevano legami di famigliarità con la parte cosiddetta ariana della popolazione e, quindi, prime fra tutte le famiglie miste, in cui solo un coniuge era ebreo e l'altro partner ariano. Questo è il caso in cui tutto un gruppo famigliare era in grado di dare una mano per l'organizzazione della clandestinità. Ci mancano le statistiche, ma è facile pensare che la maggior parte dei salvataggi sia da ascriversi a questa situazione. La seconda situazione ottimale era quella in cui il capofamiglia era stato (prima dell'autunno del 1938) uno stimato professionista con legami di amicizia e di sodalizio con colleghi e membri della società circostante, come la famiglia del professor Mario Falco, soccorsa dal professor Arturo Carlo Jemolo, famoso giurista a Roma o del professor Carlo Alberto Luzzatti soccorso dal suo collega medico Enzo Casini, o l'avvocato Salvatore Jona soccorso dall'avvocato Emanuele Custo a Genova. Più una persona aveva allacciato legami di amicizia e di comunanza con la società che la circondava, più possibilità aveva di essere aiutata, ciò valeva per gli ebrei italiani ma anche per gli ebrei stranieri profughi. A questo proposito, menzione particolare va fatta all'alto numero di ebrei stranieri profughi o ex internati in Italia che si salvarono. Un fatto stupefacente che non ha pari negli altri Paesi occupati dove, al contrario, gli ebrei stranieri e profughi furono in genere i più colpiti dalla persecuzione. Guardando alle statistiche, gli ebrei stranieri colpiti dalla Shoah sono la metà di quelli italiani, 1.954 identificati i primi, 3.836 identificati i secondi. Le ragioni di questo fenomeno sono l'alta qualità del soccorso prestato dalla rete Delasem e dalle autorità ecclesiastiche per quanto riguarda gli ebrei «francesi» e l'alto grado di famigliarità conseguita con la popolazione locale dai gruppi di jugoslavi in libero internamento in paesini del Centro e del Nord Italia. Tali profughi, di elevata cultura e professionisti costretti a fuggire, furono apprezzati dagli abitanti e, dopo l'8 settembre, protetti e fatti fuggire in massa, specialmente dalle province di Treviso e di Aosta. La gamma degli interventi in favore degli ebrei andò dalla connivenza verbale, all'aiuto finanziario, all'occultamento dei beni, alla prestazione di ricovero e cibo, all'organizzazione del salvataggio, all'accompagnamento oltre il confine italo-svizzero. Rimane di far menzione delle reti di assistenza, grandi assenti nelle schede che presentiamo, che sono giocoforza intitolate a singole persone e a singole situazioni, reti che tuttavia si possono scorgere in filigrana. La prima e più importante, continuamente citata nelle singole vicende, è l'opera ebraica di soccorso Delasem già attiva legalmente sotto il governo fascista dalla fine del 1939. Divenuta clandestina, si appoggiò alle autorità ecclesiastiche di alto rango, oltreché a una vasta rete di connivenza costituita dai più disparati ambienti sociali: impiegati comunali, medici, industriali, diplomatici stranieri, tipografi. La Delasem stessa si rivolse per ricevere assistenza nella distribuzione del denaro raccolto all'estero e nel reperimento di ricoveri nei conventi al cardinal Pietro Boetto a Genova, al cardinal Elia Dalla Costa a Firenze, a monsignor Placido Niccolini vescovo di Assisi, al cardinal Fossati a Torino, al cardinale Schuster a Milano, e all'arcivescovo Antonio Torrini di Luc­ca, da tutti loro ricevendo un fraterno e solidale aiuto, che andò in alcuni casi fino a far rimuovere la consegna della clausura in certi conventi di Firenze e Assisi. A partire dalla seconda settimana di settembre del 1943, l'organizzazione, che già si trovava a dover affrontare l'emergenza dei folti gruppi di ebrei provenienti dalla Jugoslavia che si trovavano in internamento, fu travolta dall'ondata di fuggitivi che era dilagata in Italia dalla Francia meridionale attraverso i passi alpini. Essa, che fino ad allora si era occupata di problemi organizzativi legati all'emigrazione dei rifugiati stranieri presenti nella penisola e di problemi di assistenza sociale nei campi di internamento, per garantire agli stessi un livello di vita sopportabile, dovette rapidamente mutare obiettivi. Con la liberazione dall'internamento degli jugoslavi seguita alla caduta di Mussolini e l'arrivo dei «francesi», il numero di persone bisognose di sussidi in denaro aumentò vertiginosamente e ben presto si profilò l'urgenza di trovare loro ricovero (non ancora nascondigli poiché gli arresti iniziarono in Italia solo il mese successivo). I profughi, anche per suggerimento dei responsabili della Delasem che fin dalla primavera precedente avevano accarezzato l'idea di spostare gli ebrei residenti nel Nord Italia al Sud in territorio liberato dagli anglo­americani, si diressero di preferenza verso le regioni meridionali. Di conseguenza, gli uffici della Delasem maggiormente coinvolti furono quelli che si trovavano lungo la linea Genova-Torino-Firenze-Roma. In queste quattro città, gli attivisti della Delasem (citiamo almeno: Mario Finzi a Bologna, Giorgio Nissim nella Lucchesia e Garfagnana, Settimio Sorani e Giuseppe Levi a Roma, Nathan Cassuto e Matilde Finzi a Firenze, Massimo Teglio a Genova, Raffaele Jona in Piemonte, Raffaele Cantoni e Lelio Vittorio Valobra dall'esilio svizzero) dispiegarono ogni sforzo nell'opera di assistenza, confortati da un flusso di denaro proveniente dalla grande e benemerita organizzazione di soccorso American Jewish Joint Distribution Committee e da poche altre. Questa frenetica attività fu attuata fintanto che l'occupante tedesco non mise in piedi anche in Italia l'organizzazione degli arresti e delle deportazioni verso il campo di sterminio di Auschwitz, cioè fino a metà ottobre del 1943. I rastrellamenti a Roma il 16 ottobre 1943 e a Genova il 3 novembre successivo misero in allarme non solo gli ebrei stranieri ma indistintamente tutti gli ebrei d'Italia, che furono costretti a passare massicciamente nella clandestinità. In queste condizioni, l'opera della Delasem cambiò di nuovo forzatamente fisionomia: mentre, tra il 1939 e il 1943, i principali destinatari dell'opera di assistenza erano stati gli ebrei stranieri, dall’ottobre del 1943 anche gli ebrei italiani si trovarono ad avere esattamente le stesse necessità. Occorreva: a) cercare nascondigli, b) riuscire a distribuire denaro necessario alla sopravvivenza dei clandestini, c) fabbricare falsi documenti necessari per circolare, ma anche per procurarsi carte annonarie, d) trovare vie sicure per sconfinare in Svizzera. La Delasem stessa passò nella clandestinità e i suoi attivisti, per poter continuare a operare, dovettero chiedere l'aiuto del mondo ecclesiastico: filiera per eccellenza era la Chiesa cattolica con le sue ramificazioni gerarchiche e territoriali e con la sua consolidata esperienza di esercizio del diritto di asilo. Dalle schede emerge un altro fattore da sottolineare: talvolta i soccorritori facevano parte non già della popolazione civile o ecclesiastica «spettatrice», ma addirittura dell'universo delle pubbliche autorità, cioè di coloro che erano supposti essere «i persecutori», come funzionari di polizia, carabinieri, finanzieri, podestà, commissari prefettizi, perfino «camicie nere». Questi, talvolta anticiparono le notizie dei prossimi arresti, talvolta chiusero un occhio sull'esibizione di documenti non del tutto a posto, talvolta aiutarono a trovare sistemazioni o nascondigli, talaltra fornirono essi stessi documenti falsi. Tutti, naturalmente, erano tenuti a eseguire gli ordini, non obbedire era un'insubordinazione, ma a un certo punto della catena un anello si rompeva; questo avvenne ai livelli più alti, per esempio, per i funzionari degli uffici stranieri delle questure di Roma e di Fiume nelle persone di Angelo De Fiore e di Giovanni Palatucci, come per alcuni podestà (carica simile a sindaco, non elettiva, bensì di partito) di piccoli comuni come Ercole Piana, podestà di Bard, Francesco Garofano, podestà di Grognardo, Roberto Castracane, podestà di Villa Santa Maria, Vittorio Zanzi, commissario prefettizio a Cotignola, Giacomo Bassi, segretario comunale a Canegrate. Si hanno anche casi di carabinieri che corsero ad avvertire le prossime vittime di un imminente arresto come nel caso del maresciallo Enrico Sibona a Maccagno o Carlo Ravera ad Alba, o del maresciallo Osman Carugno, che a Bellaria aiutò un cospicuo gruppo di ebrei jugoslavi a trovare un rifugio. Molte delle vicende che racconteremo qui di seguito presentano lacune dovute a mancanza di memoria e informazioni. I testi sono stati redatti a partire dai dossier di istruttoria dei Giusti delle nazioni conservati presso Yad Vashem a Gerusalemme. Talvolta mancano elementi essenziali come un nome, l'anno di nascita, alcuni racconti sono troppo concisi o imprecisi. Ma ciò è dovuto al modo stesso con il quale le testimonianze sono state raccolte: non sono state depositate cioè per scopi di ricerca storica ma per scopi che riguardano la sfera etica della gratitudine, dell'esposizione di azioni benevole, messe in atto per contrastare azioni malevole. Un ultimo avvertimento: l'aiuto agli ebrei fu un aiuto morale, ma dispiegato con mezzi materiali: occorrevano disponibilità per ospitare una famiglia priva di carte annonarie, bisognosa di tutto, dal vestiario ai libri da leggere. Questo, in una economia di guerra, in un panorama di angoscia martellante, di bombardamenti, di penuria di cibo, di costante paura delle retate, ci fa percepire meglio l'ampiezza dei sacrifici messi in atto da quelli che hanno condiviso per giorni e mesi, talvolta per anni, la vita con gli ebrei.

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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione

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