Diario
Gli
italiani, quelli Giusti
Carlo
Angela, Arturo Carlo Jemolo,
padre Giuseppe Girotti... La rete di aiuto agli
ebrei braccati nella Repubblica sociale fu spontanea, estesa e ingegnosa. Era
formata da persone comuni, molti sacerdoti e persino qualche camicia nera
Liliana
Picciotto
Il
titolo di «Giusto tra le
nazioni» designa i non ebrei che abbiano manifestato atteggiamenti amichevoli e
di solidarietà nei confronti degli ebrei. Lo Yad Vashem di Gerusalemme, il più
grande Memoriale al mondo per le vittime della Shoah, attribuisce questo titolo
a chi durante la Seconda guerra mondiale ha soccorso e salvato la vita, spesso a
rischio della propria, di ebrei perseguitati. Attualmente sono 20 mila i Giusti
individuati (per vederli tutti yadvashem.org), di cui 400 circa gli
italiani. Per gentile concessione della casa editrice Mondadori, che pubblica a
giorni I giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei 1943.1945
di Israel Gutman e Brach Rivlin dove sono raccolte in forma di dizionario
biografico le storie di uomini e donne che tra il 1943 e il 1945 salvarono molte
vite, anticipiamo alcune pagine del saggio introduttivo della curatrice
dell’edizione italiana Liliana Picciotto.
Per
meglio valutare l'entità del fenomeno del soccorso prestato agli ebrei
conviene innanzitutto ricordare che il totale della popolazione italiana,
valutata secondo l'ultimo censimento disponibile, quello del 1936, era di 42
milioni 994 mila anime. Nel 1943, dando per scontato un certo incremento di
popolazione e prendendo in considerazione solo le regioni rimaste sotto il
regime della Repubblica sociale italiana e dell'occupazione tedesca, gli
italiani dovevano essere almeno altrettanti. Nello stesso periodo, gli ebrei rimasti
intrappolati nel territorio governato dalla Repubblica sociale italiana e
dall'occupante tedesco erano circa 32.300 sicché, ridotta la questione in meri
termini quantitativi, circa 43 milioni di italiani avrebbero potuto o dovuto
proteggere 32.300 ebrei perseguitati. Di questi, circa 8 mila furono gli
arrestati (6.806 deportati identificati, a cui si aggiungono circa mille deportati inidentificati, 322 uccisi o morti in Italia prima della deportazione, circa 500
arrestati ma non deportati per mancanza del tempo necessario). Ne rimasero
indenni altri 23.500 circa. Segnaliamo però già, a partire dal puro dato
numerico, che la salvezza degli ebrei in Italia, per la loro esiguità e per
la loro «inqualificabilità» fisica, che in nessun modo li faceva distinguere
in mezzo al resto della popolazione, non era questione insormontabile. Gli
ebrei facevano parte di una seconda Italia sommersa costituita da migliaia di
individui bisognosi di aiuto: come i soldati che avevano smesso la divisa,
come i prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi di internamento, come
gli antifascisti ricercati. Senza il soccorso e la connivenza della prima Italia
«ufficiale» che viveva, si nutriva, lavorava, operava alla luce del sole,
aveva accesso alle tessere annonarie e a documenti accettati, la seconda
Italia non avrebbe potuto sopravvivere. Occorreva trovare falsi documenti,
finte tessere annonarie, rifugi, cibo, accompagnare i clandestini alla
frontiera italo-svizzera, un'attività praticata da centinaia di individui,
mossi dalle più diverse motivazioni, tra i quali ci sono anche i soccorritori
di ebrei, i cosiddetti Giusti, elencati in questo libro. È importante
sottolineare come i Giusti si mossero su di un terreno di solidarietà non solo
verso gli ebrei ma verso gli ebrei in un contesto civile ben preciso. La
protezione ai ricercati e agli ebrei fa parte della categoria della resistenza
civile, come gli scioperi, le manifestazioni di massa per la penuria del cibo,
il fiancheggiamento alla lotta armata, la resistenza al reclutamento di
manodopera coatta. Non si può isolare il concetto del soccorso agli ebrei da
quello di resistenza morale, un fenomeno che interessò tutta l'Europa occupata,
anche se variò da Paese a Paese, da una situazione a un'altra, da un tempo a un
altro. Secondo la definizione di Jacques Semelin, la resistenza civile
comprese una serie di comportamenti conflittuali con il potere costituito che
si avvalsero non di armi, ma di mezzi civili come: il coraggio morale,
l'inventiva, l'aggiramento della violenza, la capacità di manovrare i
rapporti e di cambiare le carte in tavola a dispetto e ai danni del nemico.
Discorso leggermente diverso va fatto per il soccorso da parte degli
ecclesiastici dove l'aiuto agli ebrei fu dispiegato nel quadro di una più vasta
opera di aiuto a civili rimasti senza tetto, a rifugiati di ogni tipo, a
perseguitati per motivi politici. La carità cristiana fu dispiegata durante
la guerra in maniera non specifica nei confronti degli ebrei, ma sicuramente
in maniera speciale, per motivi di quantità e di particolare allarme per le
loro vite. Il rifugio nei conventi e nelle case religiose, l'aiuto dei parroci
nei piccoli centri, la disponibilità e il soccorso prestato da esponenti o
semplici iscritti ad Azione cattolica fu di tale proporzione da assumere un
aspetto corale, significativo sul piano ideale ma anche sul piano
semplicemente dei rapporti affettivi tra le persone coinvolte. Al contrario di
molti osservatori, non pensiamo che per questa opera fosse necessaria una
specifica direttiva papale. Dopo l'8 settembre 1943, il sentimento popolare
era ormai cambiato: alla sopportazione e all'indifferenza per i problemi
provocati dal regime fascista, si sostituì la rabbia nel constatare che
l'Italia era per i tedeschi terra di conquista, dove non c'era limite ai
soprusi. Forse gli italiani tardarono a riconoscere la natura del nazismo perché,
per anni, esso si era presentato sulla scena come alleato, e, tra l'altro, fino
all'8 settembre 1943 non aveva mai usato violenza sugli italiani. Ora che la
Germania nazista era diventata alleata-occupante, la reazione fu immediata. I
«resistenti civili» furono a migliaia: si trattò soprattutto di persone
qualunque, semplici uomini della strada non dotati di particolare educazione o
istruzione, che diventarono, a contatto con la barbarie, anticonformisti, non
allineati, non filofascisti, non filotedeschi. Aiutò a predisporre gli animi in
tal senso soprattutto la grande operazione di soccorso con vestiario e occultamento
dei soldati sbandati nei giorni dopo l'8 settembre 1943, primo atto popolare,
non coordinato ma corale, di insubordinazione agli ordini nazisti e fascisti.
L'atteggiamento comune cambiò e, in pochi giorni, dall’indifferenza si passò
al soccorso attivo o passivo. Per soccorso attivo si intende quell'insieme
di attività volte a scardinare deliberatamente la politica nazista e fascista,
mediante azioni di sabotaggio, offerta di nascondigli, boicottaggio agli
ordini impartiti, fabbricazione di carte false, accompagnamento alla
frontiera. Il soccorso passivo si estrinsecò invece in azioni di non
coinvolgimento diretto, ma di tolleranza e connivenza verso azioni altrui.
Questo comportamento solidale, visto nel suo insieme, ebbe in Italia due
caratteristiche: fu spontaneo e collettivo. Fu un comportamento sociale di
completa rottura rispetto al passato e si sottrasse clamorosamente dall'abitudine
imposta dal regime di organizzare gli eventi collettivi. Fino ad allora,
collettivo aveva voluto dire orientato, mai spontaneo. Dopo l'8 settembre,
in poche ore, migliaia di giovani sbandati che servivano nell'esercito gettarono
la divisa, si vestirono di abiti civili e chiesero l'aiuto della popolazione
per occultarsi nelle campagne, nei casolari in montagna, nelle cantine,
ovunque ci fosse qualcuno disposto a nasconderli. A questa massa di militari,
si aggiunsero presto soldati o ufficiali alleati fuggiti dopo l'8 settembre
dai loro luoghi di internamento e vaganti nella penisola alla ricerca di
informazioni, aiuti materiali e logistici per mettersi in contatto con il loro
esercito o per attraversare le linee, o per rifugiarsi in Svizzera. Si
aggiungano gli antifascisti fuggiti dai campi di internamento disseminati
soprattutto nell'Italia centrale, gli oppositori politici ricercati per
attività «eversiva», tutti gli ebrei d'Italia e si vedrà che il movimento di
soccorso nei loro confronti non poteva non assumere il carattere di movimento
corale: migliaia di persone ne aiutarono migliaia di altre. L’aiuto da parte
della popolazione civile agli ebrei non si può capire se non collocandolo in
questa prospettiva. Il movente politico contò allora pochissimo; scorrendo le
vicende dei Giusti appare chiaro come il soccorso, nella maggioranza dei casi,
fu umanitario. Le organizzazioni politiche tardarono a prendere coscienza
del pericolo mortale in cui versavano gli ebrei, il Cln si mosse tardivamente,
nell'autunno del 1944, e solo perché sollecitato dai vertici della Delasem
trasferitisi in Svizzera. Gli stessi fogli clandestini antifascisti
affrontarono il problema poche, sporadiche volte. I privati, le famiglie
amiche, i conoscenti furono più rapidi e determinati perché la situazione di
allarme parlò immediatamente alle loro coscienze. Contarono allora di più
forme di concordanza fondate su rapporti famigliari, professionali,
lavorativi, di amicizia, di comunità. Si pensi ai vicini del rione del
quartiere ebraico a Roma che nascosero centinaia di cittadini ebrei nelle
cantine, nei solai, nei retrobottega dei negozi durante la terribile retata del
16 ottobre 1943 o agli amici che si strinsero talvolta in appartamenti di due,
tre locali per ospitare i perseguitati. È bene ricordare che non ci fu
specifico pericolo incombente su chi dava protezione agli ebrei in
particolare. Voci, successive alla guerra, di fantomatici proclami che
diffidavano la popolazione dall'aiutare ebrei non sono avvalorate dai
documenti. Malgrado la pesantissima atmosfera di intimidazione generale per
chi non si conformava all'ordine costituito, allora, veniva arrestato e
punito con la deportazione chi faceva parte o era sospettato di far parte di
un movimento antifascista organizzato, o veniva colto a possedere una radio
clandestina o armi. Alcuni dei nostri Giusti sono stati in questo senso
doppiamente eroici, furono arrestati e deportati per aver generosamente soccorso
degli ebrei nel quadro di una loro cosciente attività politica. Essi sono
Odoardo Focherini, Torquato e Franco Fraccon, Giovanni Palatucci, padre
Giuseppe Girotti. Per gli altri, se colti in flagrante soccorso, c'era il fermo,
l'interrogatorio, l'ammonizione: si vedano i casi della signora Borsotti Pancani,
di don Cipriano Ricotti, di Vincenzo Tambini, di don Aldo Brunacci, di Alfonso
Canova, di don Leto Casini. La principale forma di soccorso necessario agli
ebrei in pericolo era l'occultamento in situazione dove essi non potessero
essere più riconoscibili: per occultarsi occorrevano due cose, un ricovero
diverso dalla propria casa e una falsa identità. Il primo più importante elemento
di salvezza fu offerto, oltre che da generosi amici in case private, soprattutto
da coloro che avevano a disposizione da offrire luoghi per dormire:
conventi, monasteri, case religiose, ospedali. Appare chiaro dalle schede qui
pubblicate e dalle altre ricerche da noi intraprese, che i religiosi cattolici
furono i principali attori dell'occultamento degli ebrei. La situazione di
Roma fu particolare perché vide la presenza simultanea di tanti ebrei (una
comunità che contava 11 mila membri) e di tanti conventi e case religiose: è
naturale che gli ebrei che fuggivano, terrorizzati, la retata scatenata dai nazisti
il 16 ottobre del 1943, se privi di amici non ebrei pronti ad accoglierli nelle
loro case, bussassero disordinatamente alle porte dei conventi, unica ancora
di salvezza. Ciò si verificò a Roma per il modo stesso in cui agì sugli
animi la tragica sorpresa del rastrellamento. Negli altri luoghi le cose
andarono diversamente, come in una benefica catena: di solito gli ebrei che si
trovavano già in condizione di sfollamento in piccoli centri o paesi, giunto
l'8 settembre e l'occupazione tedesca, ma ancor più, giunto l'ordine di
arresto generalizzato italiano del 30 novembre 1943, si rivolgevano alla persona
più in vista, e allo stesso tempo più degna di fiducia del paese, il
parroco. Questi, non disponendo di luoghi in cui far dormire le persone bisognose,
si rivolgeva ai conventi, ai monasteri vicini o ai seminari per raccomandare
gli ebrei, divenuti suoi protetti. La catena dell'esercizio della carità
cristiana, altrove che a Roma, fu quindi dispiegata dal clero secolare per una
parte e dal clero regolare dall'altra, in una situazione in cui le case
religiose e i conventi erano anche i luoghi dove gli sfollati si rifugiarono
come primo ricovero dai bombardamenti alleati. Le altre strutture di elezione
per l'occultamento degli ebrei furono gli ospedali, dove occorreva la generosità
del primario e la connivenza del personale infermieristico: l'Istituto dermopatico
italiano, il Fatebenefratelli sull'isola Tiberina, il Policlinico Umberto I, a
Roma, così come la casa di cura psichiatrica Villa Turina Amione diretta dal
dottor Carlo Angela a San Maurizio Canavese e altri furono luogo di sollievo e
rifugio. Quanto all'altro importante elemento di salvezza, i documenti falsi,
ricordiamo che per sopravvivere ne occorrevano di due tipi: una carta di
identità o una tessera postale (quest'ultima di più fondata legittimità) e
una tessera annonaria, distribuita dalla prefettura a ogni cittadino, necessaria
per ricevere la razione di cibo consentita dall'economia di guerra distribuita
nei negozi di alimentari. Gli ebrei in clandestinità erano privi sia delle
prime sia delle seconde, per cui, oltre a correre un grande pericolo se colti
con i propri documenti stampigliati con la dicitura «di razza ebraica», non
avevano modo di procurarsi il cibo necessario. Come per tutti i ricercati,
anche per gli ebrei si creò un vero e proprio mercato di falsi documenti,
talvolta ceduti gratuitamente per spirito di generosità, talvolta pagati a
caro prezzo. Benemeriti impiegati comunali si lasciarono «derubare» di carte
di identità in bianco a Roma, Milano, Bellaria e altrove, mentre a Genova si
sa che un impiegato comunale si fece pagare profumatamente.
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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione |