Diario

L'ultimo Charlot

Il sodalizio tra il vagabondo e il suo creatore si sciolse dopo questo film nel quale la comicità svelava l'assurdità della violenza hitleriana

Michael Chaplin

traduzione di Marco Pensante

Fra tutti i grandi comici dell'epoca del film muto, è stato mio padre, Charles Chaplin, quello che ha saputo creare il personaggio più riconoscibile di tutti e, paradossalmente, anche il più evasivo di tutti in termini di identità nazionale o origini sociali. Questo personaggio era senza fissa dimora né occupazione stabile, e finì per essere conosciuto dal pubblico solo come «il vagabondo» ovvero Charlot. Qualunque fosse l'ambiente sociale all'interno del quale si ritrovava, e qualunque fosse la ragione per cui ci finiva, il vagabondo riusciva sempre a introdurci un senso di provvisorietà. Dal momento del suo arrivo provocava invariabilmente fastidi e confusione, se non addirittura il caos più completo, e spesso si ritrovava in fuga inseguito da una calca inferocita. È questo il vagabondo dei primi cortometraggi - e mio padre ne ha girati moltissimi - che gli ha procurato celebrità su scala mondiale a un livello che non era stato mai raggiunto in precedenza da altro interprete. Vi sono state numerose leggende su come mio padre si sia imbattuto nella figura del vagabondo e quali circostanze lo abbiano portato a scegliere di interpretare questo strano personaggio con il bastone e la bombetta, le scarpe gigantesche, i pantaloni cascanti e il celebre baffetto, ma qualunque fossero tali circostanze la mia impressione è che in realtà sia stato invece il vagabondo a scegliere mio padre tanto quanto il contrario. Per creare un personaggio di fascino così universale ci vuole qualcosa di più che il semplice caso e un incredibile talento naturale per la comicità. Sono convinto che all'inizio del ventesimo secolo, con le tragedie e gli sconvolgimenti che stavano per verificarsi, l'esplodere dell'industrializzazione e il diffondersi incontrollabile della tecnologia in ogni campo della vita umana con le sue conseguenze imprevedibili e devastanti, il mondo avesse davvero bisogno di una figura come quella del vagabondo. In tutto il pianeta c'erano persone di ogni estrazione che avvertivano il peso della minaccia alla propria naturale umanità da punti nascosti e imprecisati della nuova civiltà che stava crescendo, e il vagabondo, un emarginato senza alcun legame con qualsivoglia credo sociale o nazionalistico, era in grado di beffeggiare, ridicolizzare e sovvertire ogni forma di ordine sociale, il tutto in nome di un responso più profondamente umano all'esistenza. Dunque chi era esattamente il vagabondo, e perché mai avrebbe dovuto scegliere proprio mio padre? Be', per quanto riguarda la seconda parte della domanda risponderei senz'altro che mio padre era dotato di una grazia fisica fuori dal comune ed era un mimo naturale, capace di trasmettere con il corpo qualsiasi emozione, perfino quelle oltre la portata del linguaggio. Sia sua madre che suo padre erano artisti da music hall che si guadagnavano faticosamente la vita nelle sale da ballo e nei pub delle città inglesi e scozzesi. Non ci sono documenti ufficiali di alcun genere che indichino dove o quando esattamente sia nato mio padre, ma da quelli relativi alle famiglie dei suoi genitori sembra che avesse sangue inglese, irlandese e zingaro. Per quanto riguarda il vagabondo, mi piace immaginarlo più come uno spirito che altro, un essere soprannaturale in attesa del suo creatore, in attesa di qualcuno che arrivasse a donargli il soffio vitale. E alla fine si sono ritrovati tutti e due in California, in un sobborgo di Los Angeles chiamato Hollywood, entrambi testimoni della nascita di una nuova forma artistica che stava per conquistare il mondo. Senz'altro è stato lì e allora che si sono accorti l'uno dell'altro, un giovane ambizioso senza nulla da perdere e questo spirito, questo demone, ansioso di incarnarsi in un corpo capace di trasmettere il suo messaggio. Questa grande relazione fra mio padre e il vagabondo, che iniziò prima della Prima guerra mondiale, durò fino all'inizio della Seconda, quando Il grande dittatore uscì nei cinema nel 1940. Fu l'ultimo film in cui mio padre e il vagabondo unirono le forze. Per quanto ne so, Il grande dittatore è stato l'unico film uscito da Hollywood a criticare esplicitamente l'ascesa del fascismo in Europa e a puntare il dito contro la persecuzione degli ebrei in Germania. È un film che utilizza la comicità e la satira per ridicolizzare Hitler e i suoi tirapiedi nazisti con una forza impressionante. Un elemento centrale dell'intreccio consiste nell'incredibile rassomiglianza fra Hitler, alias Adenoid Hynkel, e un barbiere ebreo che vive nel ghetto. Verso la fine del film i due vengono confusi l'uno per l'altro e le loro posizioni si invertono: il barbiere ebreo, nell'uniforme di Hynkel, si ritrova come oratore a un grande raduno simile a quelli di Norimberga. Non c'è dubbio che nel corso della loro lunga frequentazione, col passare degli anni, sia mio padre che il vagabondo abbiano subito un'evoluzione che ha contribuito alla crescita artistica di entrambi. Il vagabondo ha smesso di rappresentare un puro e semplice vettore di confusione e caos, o una creatura satirica che tentava di sedurre le donne sulle panchine dei parchi, e ha iniziato a sognare una vita più stabile, da dividere con qualcun altro in una casa, mentre mio padre, grazie all'interpretazione del vagabondo, si è legato a un determinato spirito vitale e a una precisa etica della giustizia e della dignità umana. Il barbiere ebreo del Grande dittatore indossa gli stessi abiti del vagabondo, con la bombetta e il bastone da passeggio, ma porta calzoni meno sformati e scarpe meno grottesche. Una volta acquisita una precisa identità etnica e identificato come cittadino di una data nazione, sembra più intristito, meno indistruttibile e più umano. Probabilmente per lui si trattava di un sacrificio, ma un sacrificio inevitabile. Forse è stata Hannah Arendt a spiegare meglio di tutti come mai «il piccolo uomo», come ha chiamato il vagabondo, si sia imbarcato in questa particolare battaglia. Descrive in primo luogo una certa forma di insolenza, definendola la stessa di molti racconti popolari ebraici: «L’insolenza del povero piccolo ebreo che non vuole riconoscere le gerarchie del mondo perché non riesce a trovarvi alcun ordine né giustizia per sé. Era in quel piccolo ebreo, emarginato e pieno di inventiva, sgradito al mondo intero, che il piccolo uomo di ogni nazione poteva riconoscersi». Mio padre ebbe enormi difficoltà a girare Il grande dittatore. Era minacciato di morte e continuamente sottoposto a pressioni per impedirgli di terminarlo. Nel leggere queste frasi di Hannah Arendt si capisce meglio da dove nasceva quella voce interiore che lo spingeva a finirlo. Eppure, al termine del film, mio padre e quella voce interiore, la voce del piccolo uomo, erano pronti a dividersi e andare ciascuno per la propria strada. Il grande dittatore ebbe un enorme successo al botteghino, anche se il discorso finale del barbiere ebreo scambiato per il dittatore fu duramente criticato da molti che lo ritennero propagandistico oltre che fuori luogo, semplicistico e ingenuo. Forse perché in quell'ultima sequenza del film il vagabondo aveva già dato l'addio a mio padre, e il cittadino Charles Chaplin era rimasto solo a pronunciare il suo discorso. Hannah Arendt sostiene che la popolarità del piccolo uomo cominciò a declinare nel momento in cui iniziò a trovarsi di fronte a un destino rispetto a cui qualsiasi stratagemma individuale, per quanto ingegnoso, non poteva servire a niente. La sua fondamentale umanità aveva perso ogni valore  perché la liberazione dell'umanità per mezzo dell'esistenza aveva perso il suo significato. Il vagabondo aveva lasciato il posto a una nuova icona: Superman. È un punto di vista interessante, ma da parte mia vorrei aggiungere che nel 1939 mio padre aveva già cinquant'anni, e il vagabondo, creatura senza età, aveva bisogno di incarnarsi in un corpo agile e aggraziato, nel fiore della gioventù. Mai prima di quel momento, sullo schermo, mio padre era parso schiacciato dal peso della vita come nell'ultima scena di quel film. Non si trattava soltanto del peso di un uomo di mezz'età, ma del fardello morale di un mondo in rovina che lo opprimeva nel momento stesso in cui lui era sul podio a cercare le parole in grado di dare una nuova speranza. Aveva goduto di più di un quarto di secolo in cui, nonostante le sue manchevolezze, agli occhi dei suoi ammiratori era apparso infallibile. E questo grazie al rapporto magico con un personaggio non propriamente umano eppure fin troppo umano, la cui natura consisteva nell'entrare e uscire dai guai con la medesima grazia e naturalezza e un'alzata di spalle. L'ultimo grande successo di questa lunga simbiosi fra i due si può vedere nella loro interpretazione congiunta del personaggio di Adenoid Hynkel, alias Adolf Hitler. Nel discorso del dittatore al suo pubblico acclamante, che è all'inizio del film, si possono vedere all'opera simultaneamente tutti i volti della follia, del grottesco e dell'eccesso, a mano a mano che il dittatore passa da uno stato d'animo all'altro: dalla superbia sfacciata al sentimentalismo più trito, all'ira più violenta, fino a un odio sconfinato e furioso. Tutto il fasto del potere viene ridotto al ridicolo e al patetico. È qui che si scopre quanto è pericolosa la risata, quando svela l'assurdità dell'umana pretesa. Ed erano queste le vere parole di speranza.

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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione

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