Diario
Bibi
e il
suo
grande cuore
Si
chiamava Karin Michaelis e inventò per i suoi libri una bambina molto libera,
che conquistò un'intera generazione. Nella sua casa la scrittrice danese
protesse e sfamò decine di perseguitati dal nazismo, e poi morì in miseria
Marina
Morpurgo
La
soprannominarono affettuosamente, ma con poca galanteria, «il piccolo Troll».
Aveva le gambe corte, gli occhi che guardavano uno di qua e uno di là. Alla
sua nascita nel 1872 a Randers, in Danimarca - i genitori furono colti dallo
sgomento e dissero che, in confronto, «il peccato originale era bello». Si
chiamava Katharina Brandum, era una scrittrice, divenne assai famosa in tutto
il mondo come Karin Michaelis, per poi essere dimenticata, morire in povertà in
una pensioncina di Copenhagen nel 1950, e sopravvivere - minuscola, tenace e
vitale anche in questo - nel ricordo di molte ragazzine che negli anni
tumultuosi tra le due guerre crebbero sognando di essere intraprendenti e
libere come la sua Bibi, la bambina danese dalle lunghe trecce bionde che
saltava sui treni e scorrazzava per l'Europa, trattando gli adulti da pari a
pari, divertendosi e indignandosi, quando era il caso (ovvero molto spesso). Bibi piaceva immensamente, perché
era irriverente - nulla
di più lontano dai fiocchi e
dalle riverenze imposte a tante sue coetanee - perché detestava le ingiustizie
e amava gli animali. Ma ben pochi sapevano che la sua creatrice era una Bibi
adulta all'ennesima potenza, capace di inanellare gaffe mostruose con uomini
potenti e di litigare con chicchessia (frantumò l'ego di Hjalmar Schacht,
allora presidente della Reichsbank, non riconoscendolo a un banchetto letterario
nella Germania prenazista; picchiò i pugni sul tavolo con il presidente cecoslovacco Tomas Masaryk; fece perdere il Nobel a D'Annunzio, che le stava antipatico
per un motivo che spiegheremo più avanti). E pochi sapevano che i suoi libri
erano stati bruciati in piazza dai nazisti; che la casa sull'isoletta di Thuro,
dove Karin viveva tra un viaggio e l'altro, era diventata un rifugio per profughi
politici; che la scrittrice, non più giovanissima, avrebbe usato ogni mezzo e
ogni briciolo di forza per salvare quanti più ebrei poteva. Per raccontare
questa storia straordinaria è meglio seguire un procedimento antiletterario,
e partire esattamente dall'ultima pagina, quella in cui Bibi - dopo anni di
dormienza - torna nelle librerie italiane, grazie a colei che a buon diritto
si può considerare la più accesa e pervicace fan italiana di Karin
Michaelis: Donatella Ziliotto, editor Salani, definita dal professor Antonio Faeti «indomita amazzone della letteratura giovanile, traduttrice,
creatrice di collane, scopritrice di talenti, pronta a viaggiare per i sette
mari in cerca di una copertina, soldato di ventura dell'editoria, eternamente
cadetto di un'onirica guascogna...». Ziliotto come Bibi è un irresistibile
ciclone, e tanto ha detto e tanto ha fatto che nel maggio 2005 è stato
ristampato il primo volume (questa volta in edizione integrale, con i disegni di
Edwig Collins - quelli
del 1929 - e
la traduzione dal danese di Eva
Kampmann). Un atto d'amore, in pratica, un gesto di gratitudine per le ore di
libertà ricevute in regalo, in tempo di dittatura e di bombardamenti, dalla
bambina del Nord. Leggere Bibi in Italia era come leggere Lolita a Teheran:
era affacciarsi a una finestra aperta su un mondo privo di costrizioni. Donatella Ziliotto si ricorda di aver chiesto a suo padre: «Ma papà, perché
Bibi può andare in giro e io no?» e di aver ricevuto la fatidica risposta:
«Perché lassù sono buoni». Così, Bibi arriva a Diario, per essere
recensita. A me viene un fremitino di commozione perché questa Bibi non mi è
nuova, ho dei ricordi lontanissimi e un po' vaghi ma deliziosi di una serie di
vecchi libri con la copertina di tela arancio ne che andavo a pescare nella
biblioteca della nonna. Ma, al di là del piacere del ritrovare un personaggio
familiare, c'è quello di scoprire nell'introduzione e nella postfazione di
Donatella il lato umanitario e militante - sì, in fondo non è una parolaccia
- di Karin Michaelis. Piacere supplementare: quello di cogliere anche la
carica eversiva del Bibi-pensiero che miracolosamente sfuggì alle sgrinfie
della censura fascista. Ve la vedete l'irruenta e ipercritica Bibi, quella con i
vestiti sempre a penzoloni, a ossequiare le autorità, in divisa da Piccola
Italiana? A questo punto, la voglia di sapere di più su Karin Michaelis
diventa irresistibile. Un primo giro su Google, in ottobre, porta a risultati
deludenti: c'è poco materiale, qualche accenno a studi universitari, qualche
altro accenno su siti di letteratura femminile, prevalentemente legato a un
romanzo per adulti -
L'età pericolosa, pubblicato
in Italia da Giunti nel 1989 e poi ristampato
nel 2005 - che
nel 1910 fece inferocire le
femministe, scandalizzò i benpensanti e mandò in estasi i ginecologi. (Nel
romanzo - straordinariamente
moderno - che rese celebre Karin, abbiamo una affascinante donna sulla
quarantina che i primi squilibri ormonali da menopausa rendono spiacevolmente balenga, capricciosa e destinata a prendere una tramvata sul muso dal marito
e dal giovane potenziale amante). La curiosità aumenta, ma a questo punto c'è
la svolta. Un'entusiasta Ziliotto racconta di essere stata contattata da una
signora di Colonia, un'altra fan di Bibi. Si chiama Angela Huemer, ha appena
finito di girare un documentario, e ha organizzato non solo una mostra, ma anche
una «lunga notte di Bibi» cui dovrebbero partecipare le lettrici di
allora. Angela Huemer ha trovato nell'archivio di Copenhagen - dice Ziliotto
- decine e decine di lettere indirizzate a Karin Michaelis: lettere colme di
gratitudine e amicizia di Brecht e della sua fidanzata Helene Weigel, di
Albert Einstein, di Heinrich Mann (fratello di Thomas), ma soprattutto lettere
di decine e decine di bambini, che la spronavano a sfornare nuove avventure.
Partenza per Colonia, quindi, con la borsa piena di libri arancioni: l'edizione
originale Vallardi (il primo volume è del 1932, l'ultimo del 1936) che già
permette di vedere a quali sforbiciature fu sottoposto il testo, non si
capisce se per amor di concisione o per volontà di eliminare descrizioni
potenzialmente imbarazzanti, come i riferimenti all'igiene personale. La prima
sorpresa è già in agguato all'aeroporto. Angela Huemer non è una Frau di
una certa età, dato anagrafico che la esclude dalla Bibi-generation. È una
giovane creatura di aspetto elfico, folgorata da un incontro casuale con le
avventure di Bibi, avvenuto anni fa nel quartiere ebraico di Boston, sui banchi
di una libreria dell'usato. Angela sta allestendo la mostra che accompagna il
documentario, e ogni angolo della sua stanza, pavimento compreso, è inondato
da una spaventosa quantità di fogli, con carteggi in varie lingue: un segno
della vitalità esplosiva di Karin, che si manifestò anche attraverso due
matrimoni, infiniti amori (prediligeva i tipi byroniani, con l'occhio ardente
e l'incarnato tubercolotico), amicizie durature. Per orizzontarsi in questo
mare magnum per fortuna c'è una bussola: è Little Troll, un'autobiografia
scritta con la collaborazione di Leonore Sorsby, uscita nel 1946 negli Stati
Uniti (Creative Age Press), che ancora si trova facilmente, per pochi
dollari. È una miniera di informazioni e una lettura appassionante e
commovente, venata dall'oro dell'autoironia: Karin, come Bibi, era capace di
cogliere il lato buffo della vita. Una delle pagine più divertenti è quella
che racconta l'incontro con Oskar Kokoskha, avvenuto a Vienna in casa della
pedagoga e filantropa Genia Schwarzwald (Genia e suo marito Hermann, mancato
ministro delle Finanze - rifiutò l'incarico per non rinfocolare ulteriormente
l'antisemitismo - ospitarono, riscaldarono e sfamarono Karl Kraus, Adolf
Loos, Jacob Wassermann, oltre a un'infinità di orfani, ragazzi dotati,
vecchietti impoveriti dalla guerra: e tutti fecero amicizia con Karin
Michaelis). Karin era arrivata a Vienna per una lecture, un amico l'aveva
indirizzata in Josefstadterstrasse, da Genia. Ma nell'appartamento si aggirava
pericolosamente Kokoskha, armato di carta e matita e intenzionato a ritrarre
la scrittrice danese. Karin, che detestava
posare, si rifiutò di stare ferma, e così Kokoskha la inseguì da una stanza
all'altra, strisciando per terra quando lei si chinava per svuotare la
valigia: «Il risultato fu orribile. Kokoskha mi aveva fatto 10 mila
volte più brutta di quanto già non avesse fatto Dio». Guardando
il ritratto, esposto nella mostra, è impossibile darle torto. Little Troll
fornisce anche preziosi indizi per capire come mai Karin Michaelis si batté
come un leone per salvare gli ebrei. Come avrebbe scritto nel dicembre 1943,
dall'esilio americano (era in tournée negli Stati Uniti, nel 1939, quando
l'amica Elna Munch, moglie del ministro degli Esteri danese la avvertì che
sarebbe stato più prudente non rientrare: e meno male, perché di lì a pochi
mesi Hitler avrebbe invaso la Danimarca): «Ho molto da fare, e uso
tutte le mie forze per far fuggire gli ebrei prima che Hitler raggiunga il suo
scopo di ucciderli tutti. Parlo alla radio, nei banchetti, devo tenere
conferenze, e scrivo. Faccio quel che posso. Per me questa è la
faccenda più importante di tutte... Se dovessi un giorno cadere e morire
sappiate che la causa sarà stata il dolore per gli ebrei». Ed
ecco l'origine di tanta empatia: Karin da giovane, quando studiava
pianoforte, era stata ospite di una pensione kosher: «I pensionanti facevano
di tutto per rendermi la vita piacevole. Queste persone, gentili e dignitose,
preparavano i pasti in orari scelti in modo da non disturbare i miei
esercizi. Erano come le bambine ebree che avevo ammirato e amato
nella mia infanzia... le uniche che per strada non mi gridavano "Occhistorti"».
In Little Troll si racconta la rottura di un'amicizia. Karin nel
1915 era a Londra, dove aveva raggiunto il secondo marito Charles Stangeland, diplomatico
americano (un matrimonio infelicissimo, perché lui era morbosamente geloso e
l'accusava di comportarsi come una puttana e di scrivere libri indecenti), e
aveva legato con la giovane moglie di un diplomatico norvegese: «Lei
era tedesca,
e
in quel tempo io ancora
credevo nella Germania. Ma un giorno, parlando della guerra, dissi che era una
vergogna che nessun ufficiale ebreo, per quanto brillante, potesse entrare
in un circolo per ufficiali tedeschi. "Oh, non è affatto vero",
si
indignò lei, "mio fratello è un ufficiale, e dice che gli ebrei
entrano nel suo club". E poi aggiunse: "Certo, non si fermano
a lungo". "Che cosa vuoi dire?" "Beh, naturalmente nessuno
vuol parlare con loro. Così dopo pochi
minuti se ne vanno".
Questo segnò la fine della nostra amicizia».
Sparite
nella Shoah. Tra le ammiratrici
di Karin, moltissime bambine dal nome inconfondibilmente ebraico. Alcune le
scrivevano già dall'esilio, confrontando con tristezza i liberi viaggi di Bibi
con le peregrinazioni forzate attraverso l'Europa. Da Zurigo, una piccola
profuga viennese confessa di aver imparato a memoria i primi tre libri, ma di
non avere i soldi per il quarto, e implora Karin di mandarglielo in regalo,
desiderio poi esaudito: «Forse
un
giorno sarò obbligata a emigrare
in Danimarca; sarebbe meraviglioso
perché così potrei ringraziarla di persona». Qualcuna
non sarebbe sopravvissuta alla Shoah. Marion Gelhar, di Berlino, aveva 9 anni
nel 1934, quando scrisse a Bibi: morì ad Auschwitz in data sconosciuta.
Lisbeth Ranzel aveva 10 anni quando spedì la sua lettera da Brno, nel 1931: nel
1941 fu deportata a Terezín, nel 1942 fu trasferita a Riga,
e qui uccisa. Eva Reichmann fu uccisa ad Auschwitz nel 1941: era una lettrice della Slesia. Per
altri tre nomi le liste di Yad Vashem lasciano ancora quale che dubbio di
identificazione perché gli indirizzi degli arresti non coincidono con quelli
sulle buste delle lettere a Bibi: Ursula Meyer, Ruth Neubauer, Helene Grünwald.
Bibi
versus Goebbels. Tra le
carte, c'è una lettera dello storico tedesco Alfred Kantorowicz, datata 1943,
che perora la causa di Karin Michaelis come conferenziera (Karin, interrotte
le comunicazioni con la Danimarca occupata, non ha più accesso ai suoi beni,
e ha bisogno di lavorare). La lettera contiene una notizia clamorosa, che non
trova conferma in altri documenti: ma quand'anche si trattasse di una «leggenda
metropolitana» sarebbe comunque interessante per la percezione che di Karin
Michaelis avevano tutti coloro che con lei avevano condiviso l'odio per le
dittature. Kantorowicz racconta che il ministro della Propaganda Josef
Goebbels aveva proposto a Karin - ormai famosa in tutto il
Andate
sull'isola verde... Un
altro episodio, riportato dall'attrice Helene Weigel, compagna di Bertolt
Brecht, trova invece ampi riscontri. Nel 1933, già si era sparsa la voce che
sull'isola di Thuro - quell'isoletta coperta di meli, la cui descrizione apre
il primo libro di Bibi -
c'era una donna pronta ad aiutare
i perseguitati politici tedeschi. A diffonderla era stata appunto Helene, che
Karin aveva conosciuto a Vienna nella scuola di Genia Schwarzwald. Per aggirare
la censura e ingannare i nazisti, Helene aveva escogitato uno stratagemma da
agente segreto. E così, il regista Ernst Ottwalt, che da mesi viveva in
miseria e clandestinità a Berlino con la moglie Waltraut Nikolas, si vide
recapitare uno strano messaggio, in cui una sconosciuta zia Helene, preoccupata
per la malattia della piccola Erna, suggeriva un cambiamento d'aria e -
per distrarre la bimba annoiata
- la lettura di un grazioso libro di Karin Michaelis: L'isola verde. Come
avrebbe ricordato Waltraut anni dopo: «Mi ci volle un po' a capire che la
bimbetta malata Erna poteva essere soltanto Ernst... comprai il libro, era
illustrato con immagini buffe e una cartina a colori dell'isola danese di Thuro, sulla quale la narratrice sembrava abitare. Questo era tutto quello che
sapevamo quando abbiamo deciso di partire per l'isola verde». I capanni nel
giardino di Karin, di lì a poco, avrebbero ospitato molta gente, «artisti
degenerati» come il pittore tedesco Martin Bloch, come il drammaturgo
antimilitarista e antinazista Hans Henny Jahnn, e dozzine di ebrei. Lo si legge
in Little Troll: «Hitler mi aveva classificata come "donna
pericolosa". Tenni le mie conferenze su palchi circondati dalla Gestapo...
ero terrorizzata, ma lo feci - andai dalla Germania a Vienna e poi
tornai indietro. Lungo la strada offrii riparo nella
mia casa a tutti gli scrittori liberali
che fossero riusciti a emigrare. Più tardi molti di loro arrivarono, insieme
ad altri che non conoscevo, ma che avevano sentito che a Thuro c'era sempre
posto, e abbastanza da mangiare. Molti di loro erano stati arrestati e
torturati, poi rilasciati come monito per gli altri scrittori. Spesso li udivo
gridare nel sonno». C'è una
bellissima foto di Bertolt Brecht nel giardino di Thuro. Lui e Karin stanno
chiacchierando - una scena abituale, come quella di Brecht che divora le
marmellate di bacche che lei gli prepara. Nel 1942 sono entrambi negli Stati
Uniti, e quando Karin compie 70 anni riceve una lettera: «Cara Karin, non
penso tu ti sia molto stupita nel trovarti in esilio; io sarei
piuttosto stupito se tu
non fossi in esilio - con
il tuo amore per la verità e la tua avversione per l'ingiustizia... In cordiale
comune militanza, il tuo Bert Brecht». Dopo la guerra Karin, ridotta in
miseria, sarà costretta a vendere la casa sull'isola. In uno dei due
edifici ora c'è una biblioteca, e questa è
una cosa che a Bibi e Karin
sarebbe certamente piaciuta.
Cara
Bibi ti
scrivo. Non sapevano, i fan
della bambina danese, quanto coraggio avesse la «zia» - Karin Michaelis
non ebbe figli - della loro eroina. Ammiravano, però, l'intraprendenza di Bibi,
che marinava la scuola ma voleva imparare il cinese, girava per l'Europa,
osava infilarsi nei carrozzoni degli zingari e conosceva anche la legge della
relatività, applicandola al mal di denti. (A Karin l'aveva spiegata Einstein
in persona, nel corso di una cena, a Berlino. E quando la scrittrice tutta orgogliosa
si stupì di aver capito tutto, lo scienziato la guardò con i suoi occhi da
monello e le disse gentilmente: «Certo. Lei capisce, ora che io le ho
spiegato tutto passo per passo. Quello che non ha ancora scoperto è che lei non
può collegare un passo a quello successivo!». Diventarono molto amici, e in Bibi e il suo grande viaggio lei descrisse Einstein così: «Per lo
meno a tutta prima
io mi ero immaginata un
simile inventore tremendamente serio e rigido e pieno di rughe,
come i montoni di Dornburg. Invece era tutt'altro! Sta di preferenza in
pantofole, sa far l'uncinetto»). Le
lettere raccolte da Angela Huemer rivelano l'ansia con la quale i ragazzini
attendevano le uscite dei nuovi volumi: la stessa attesa che ora circonda la
saga di Harry Potter. Ce lo racconta Grazia Nidasio, l'indimenticabile
creatrice di Valentina mela verde e della Stefì, un'altra esponente della Bibi-generation, un'altra che - come Ziliotto, come Bianca Pitzorno, come
Roberto Maggioni - si ritiene segnata per sempre, professionalmente e
umanamente, dal precoce incontro con quell'idea di libertà e autonomia
femminile che Bibi incarnava: «Quelle pagine le leggevo e le rileggevo, ho
ancora i volumi con le pagine colorate da me. Era splendida la storia di una
bambina che andava in treno da sola. lo le invidiavo le amiche, la sua disinvoltura
nel rapporto con gli adulti. È stato il primo caso di bambina libera». Solo al
Nord poteva nascere e crescere una Bibi. E questo fascino dell'impossibile è
quello che spiega perché proprio in Italia il culto della bambina con le trecce
sia rimasto più vivo. In Danimarca la Michaelis - che come autrice per
ragazzi fu seconda, per vendite, solo a quell'Hans Christian Andersen che lei
da piccola aveva sognato di sposare - è stata dimenticata. Tra le ardenti
lettere dei bambini (molte sono corredate di disegni, spesso bellissimi) di
allora, ne abbiamo trovata una un po' speciale: spedita dagli alunni della II
classe ginnasiale di Urbino, porta tra le 25 firme quella, ancora tonda e
infantile, dello scrittore Paolo Volponi. Alcuni di questi fan sono vivi e
vegeti, e ricordano benissimo l'emozione di allora. Ornella Dentici, docente
di Psicologia a Pavia, ha scritto ad Angela Huemer che l'anticonformismo
di Bibi era parente di quell'anelito di giustizia che portò il fratello di
Ornella, Jacopo, a morire diciottenne a Mauthausen.
Ilbi
resuscita. Ahi noi. Tale fu
il successo italiano della piccola danese, che la traduttrice Emilia Villoresi,
dopo la morte di Michaelis decise di continuare in proprio il romanzo e di far
uscire un ultimo volume, dando vita a una schermaglia legale tra l'editore Vallardi e la nipote di Karin e soprattutto facendo venire un coccolone alle
ammiratrici dure e pure, a quelle che - come Ziliotto e Pitzorno, tanto per
citare le più note e irriducibili -
di Bibi avevano colto lo
spirito femminista, laico e a modo suo rivoluzionario (nell'autobiografia Little
Troll la scrittrice danese confessava il suo infantile e totale
disinteresse per le lezioni di religione:
«Sembrava tutto così stupido che sbadigliavo dimenticandomi di coprirmi la
bocca con la mano. Non riuscivo a farmi piacere né a temere quel Dio che la
maestra mi descriveva. Me lo vedevo mentre andava in giro brontolando
come un vecchio, mentre cacciava Adamo ed Eva dall'Eden solo perché avevano
rubato una mela. Non immaginavo che Dio potesse essere così tirchio»). La
poetessa milanese Villoresi era animata dalle migliori e più nobili intenzioni,
ma già il titolo del seguito di Bibi e le congiurate e di Bibi
si fa contadina, uscito nell'Italia bigotta degli anni Cinquanta (1953),
era un colpo al cuore: Bibi si sposa. In copertina, una Bibi in
velo bianco mostra di non avere più le trecce e regge un bouquet con l'aria
un po' ebete delle creature pie. Si sposa! Addio fughe in treno:
«Bibi non è più la sventata di un tempo». Per carità, non che
questa Bibi «italianizzata» sia cattiva: profuga in Svizzera con l'amato padre
per sfuggire ai nazisti e alla guerra, si prodiga per il prossimo, si innamora
di un medico e lo segue a Roma. Ma eccola in fondo al libro a dissertare -
lei, neoconvertita al cattolicesimo per amore del ruvido Massimo - di Gesù,
santi e Madonne con uno spiritualismo e un lirismo che
devono aver fatto frullare nella tomba la monella, trasgressiva e liberal zia Karin. Ziliotto e Pitzorno parlano di Bibi si sposa come un
vampiro parlerebbe di aglio e crocefissi. Per capirle, i fan di Harry Potter
immaginino che J.K. Rowlings muoia all'improvviso, e che la traduttrice
italiana Beatrice Masini completi il ciclo di suo pugno con il volume Harry
Potter viene assunto all'Unicredit. La nipote di Karin, Ida-Gro Dahlerup,
si rassegnò. La zia era morta nel 1950, e nel caos degli anni di guerra e
d'esilio aveva abbandonato l'idea di scrivere l'ultimo libro di Bibi: restano
solo, in alcune lettere, gli accenni al fatto che il settimo volume sarebbe
stato ambientato negli Stati Uniti, e che Bibi avrebbe visitato le riserve degli
indiani. Messa dall'editore Vallardi di fronte al fatto compiuto (e alla promessa
del versamento dei diritti d'autore di Bibi si sposa, fissati a
un modesto 3 per cento) Ida chiuse un occhio sul fatto che Karin aveva «rotto
i rapporti» con l'Italia come li aveva rotti con la Germania, e che dunque
non avrebbe voluto ambientare le avventure di Bibi nel nostro Paese. Emilia
Villoresi e l'editore Vallardi
- che
a Ida-Gro Dahlerup, per ammansirla,
aveva citato il precedente di Heidi, sopravvissuta alla sua creatrice Johanna
Spyri - da parte loro si impegnarono a non scrivere altri libri nel nome di Bibi.
Ma un'altra controversia legale era in agguato. Una seconda bambina con le
trecce (questa volta rosse) e con le lunghe e magre gambe, un'altra monella
libertaria, era comparsa nella letteratura nel 1945. Anche lei veniva dal
Nord, e si chiamava Pippi Calzelunghe. Nel 1975 (!) Ida Gro-Dahlerup accusò
di plagio Astrid Lindgren: secondo lei, Pippi era una copia di Bibi. La
faccenda finì nel nulla, come era giusto. Quando ne sente parlare, Ziliotto si
arrabbia, ricordando quanto siano differenti Bibi e Pippi: da una parte una
piccola esploratrice, potremmo quasi dire una reporter, che nelle sue lettere
descrive un mondo assolutamente reale; dall'altra una creatura molto più
fiabesca e dotata di poteri soprannaturali, come l'eccezionale forza fisica.
Viaggi
di Bibi. Pippi
vive tra cannibali e pirati, Bibi segue le orme della sua creatrice, che si
emozionava per fatti molto concreti. In Bibi di sorpresa in sorpresa, la
bambina minaccia di denunciare alla questura la maestra d'inglese, la
signorina Fagerlund, perché questa sta cercando di avvelenare un topo appena
saltato fuori dalla sua cattedra: «Ma questa è un'odiosa persecuzione
contro gli animali. Una cosa simile lei non la può ordinare». Altre
pagine - di cui si trova eco in Bibi ha un amico - ancora parlano di
animali (un tema molto ricorrente: Bibi è una progenitrice ideale dell'Animal
Liberation Front, e raccontano di una visita a Karlsbad che portò a uno
scontro con il presidente ceco, l'amatissimo e rispettatissimo Tomas Masaryk,
con il quale Karin Michaelis si accapigliò - l'esilarante resoconto della
lite con Masaryk si trova in Little Troll - su due temi: il primo
riguardava i diritti della minoranza tedesca nella neonata repubblica ceca (Michaelis
accusava Masaryk di non garantirli, visto che aveva proibito che nelle scuole
cecoslovacche si tenessero lezioni in tedesco; lui fu costretto in seguito ad
ammetterlo, e se ne scusò), il secondo riguardava la triste sorte dei cani che
i contadini di Karlsbad usavano per trainare i carretti con i bidoni del
latte, destinato a ristorare i pazienti delle terme. Una fatica terribile per
le povere bestie: «La vita di un cane porta-latte dura in media due anni;
pochissimi arrivano ai tre, molti muoiono entro il primo anno... li vedo giacere
a ogni angolo di strada, davanti ai grandi alberghi, su un mucchio di
stracci o sulla nuda
terra... questo spettacolo
di animali sofferenti mi sconvolse il sistema nervoso, provocandomi una crisi
isterica di pianto». L'indomita
Karin cazziò di nuovo Masaryk. Il presidente indagò, ammise che anche in
questo caso la scrittrice che non aveva esitato a pestare i pugni sul tavolo
per affermare i diritti dei tedeschi aveva ragione, e l'anno seguente una legge
vietò l'ingresso dei cani dei contadini nelle strade di Karlsbad.
Il
caratterino di Karin. Non fu
solo Masaryk - che
peraltro l'amava moltissimo - a
dover fronteggiare le collere
dell'irruenta Michaelis. Pare di vederla, indignata e arruffata, illustrare le
ingiustizie del mondo: «Avevo causato molto dolore ai miei genitori», scrive
in Little Troll, «e loro lo ammettevano apertamente. Non avevo mai
imparato a camminare, a salutare la gente in modo appropriato, a tenere in
ordine i capelli. Non sapevo indossare o sfilare i guanti,
non ero capace di sollevare l'orlo della gonna in modo che non
strisciasse nei canali di scolo, non ero capace - come le altre
ragazze - di sistemarmi la veletta in modo che ricadesse per bene sul labbro superiore
invece di infilarmisi regolarmente in bocca». Merete Bonners la
descrisse così, in un meraviglioso obituary su Politiken, comparso
il 12 gennaio 1950: un'eterna bambina felice e priva di inibizioni (teneva
conferenze in tedesco, pur parlando la lingua in modo che la rese leggendaria a
Vienna, per la sua totale noncuranza nei confronti di dativi e accusativi),
generosa e perennemente attaccata a una macchina per scrivere, sulla quale
mitragliava a ritmo infernale fin dalle prime ore del mattino. Non aveva
timori reverenziali nei confronti della politica, pur confessando di essere «un'ignoramus».
Non fu mai una militante di partito, era amica di liberali, di comunisti e
di anarchici (si affezionò molto a Emma Goldman - Emma la Rossa, suffragetta
e malthusiana - e Aleksander Berman, i due anarchici ebrei russi che tra una
deportazione e l'altra passarono ore tranquille sull'isola di Thuro). Fece
anche un viaggio nella Russia sovietica, godendo di una eccezionale libertà
di movimento (garantita dalla sua fama di scrittrice). Era partita un po'
prevenuta perché sapeva quanto «il grande nuovo esperimento sociale aveva
deluso Emma e Sasha», fu ricevuta con molti onori da Molotov, incontrò la Krupskaja
(la moglie di Lenin, ormai una vecchietta immelanconita), e poi scrisse
resoconti privi di qualunque retorica e garbatamente critici, dimostrando
così che il suo essere «un'ignoramus» era solo il segno di una
vivida, indomabile intelligenza.
La
lite con D'Annunzio. L’avversione
di Karin Michaelis per il poeta D'Annunzio, che a quanto pare costò il Nobel
al nostro Vate, non aveva, contrariamente a quel che ci si potrebbe aspettare,
radici politiche. Quel che Karin non perdonò a D'Annunzio fu il fatto di essersi
impadronito di Villa Cargnacco (poi Vittoriale), carpendola con l'inganno al
legittimo proprietario: Henry Thode -
storico dell'arte tedesco ed ex
cognato di Cosima Wagner - che in seconde nozze aveva sposato Hertha, una
violinista danese amica di Karin. In Little Troll si racconta di come
allo scoppio della Prima guerra mondiale Henry Thode, essendo «cittadino
nemico», avesse nominato il poeta italiano come curatore, con fiducia mal
riposta visto che D'Annunzio non solo non restituì la tenuta di Cargnacco
alla vedova di Thode, ma si vendette pure le collezioni di quadri in essa
custodite: «Decisi di intervenire. Mi feci dare da Hertha tutti i
dettagli del furto di Cargnacco e le copie delle sue molte lettere a
D'Annunzio. Poi scrissi un articolo in cui lo denunciavo con forza, che fu
pubblicato in tutta l'Europa. D'Annunzio non rispose, se non per dire che
"questa signora dal Nord non lo avrebbe mai conquistato". E infatti
non lo conquistai. Scrissi un articolo dietro l'altro, senza riuscire a
smuoverlo. Ma gli impedii di vincere il Nobel. Fu dato, invece, a Della Grazia
(così nel testo, si tratta evidentemente di Grazia Deledda, ndr), una
scrittrice che non arrivava nemmeno alla spalla di D'Annunzio. Mi piovvero
addosso migliaia di lettere di approvazione da artisti, lavoratori, insegnanti
e statisti di tutto il
mondo...».
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da «Diario del mese», 27 gennaio 2006, per gentile concessione |