Diario

Israele, il passato che verrà

C’erano stati il popolo eterno nella sua patria storica, il costante odio degli altri e poi la Shoah. Per decenni la memoria collettiva israeliana si è costruita a tenuta stagna. Oggi le voci critiche invitano a un rientro nella Storia.

di Gil Mihaely, traduzione di Paola Vallerga

 

La memoria ha una storia. Questo concetto, già analizzato da Maurice Halbwachs negli anni Venti, emerge con pienezza nel corso degli anni Settanta, per opera di storici che si scontravano con la relatività della conoscenza del passato e con le sue molteplici e contraddittorie interpretazioni. L’evoluzione di questo concetto ha consentito un rinnovamento della storiografia basata sulla distinzione tra storia e memoria, quest'ultima ben presto definita «collettiva». Rapidamente la «nazione» è diventata il principale ambito della ricerca sulla «memoria collettiva»: concetto, questo, che rimanda agli usi istituzionali e politici del passato e alle strategie della memoria, nonché alle rappresentazioni socialmente condivise del passato. Le lingue nazionali e gli studi lessicali che esse comportano, le carte geografiche, i media, la letteratura e il cinema, il servizio militare, il suffragio universale, il sistema scolastico sono altrettanti canali portatori di una memoria-identità. Per oltre un secolo, i «professionisti del passato» hanno occupato il vertice della gerarchia della conoscenza storica. I grandi storici del XIX secolo e i loro successori fino alla metà del XX secolo hanno rivelato il passato, lo hanno esumato da polverosi archivi. Concepite nel quadro di una «memoria collettiva», queste immagini del passato hanno immediatamente acquisito una enorme credibilità: si riteneva che lo storico, alla stregua di un archeologo, portasse alla luce le verità sepolte sotto le sabbie dell'oblio. Per gli ebrei, come per la maggior parte dei popoli che rivendicano un'autonomia, scrivere la storia nazionale viene vissuto come una forma di emancipazione. La singolare disparità che intercorre tra gli ebrei dell’Europa occidentale e quelli dell'Europa orientale (che costituiscono la maggioranza del popolo ebraico) sfocerà in due diversi approcci. In Occidente, gli ebrei hanno tentato di persuadere ebrei e non ebrei che i primi potevano inserirsi nella «nazione», e di conseguenza hanno sviluppato un approccio universalista. Gli ebrei orientali hanno invece sviluppato un approccio inglobato in un progetto storico-politico più radicale. In assenza di un progetto nazionale più o meno inclusivo, gli ebrei dell'Europa orientale hanno optato per l'emigrazione o per il ripiegamento su se stessi: ortodossia religiosa, yiddish, sionismo. I due padri fondatori della storiografia ebraica moderna sono Heinrich Gratz (1817-1891) e Simon Dubnov (1860-1941). Il primo, figlio dell'illuminismo tedesco, disapprovò formalmente il movimento protosionista Hibat Sian. Sosteneva la necessità di scrivere una vera e propria storia «nazionale» e non una storia della religione ebraica: la storia del popolo portatore della religione era parte integrante della storia di quella religione. In altri termini, senza religione non esiste popolo ebraico. Simon Dubnov, altro ebreo che proveniva dall’Europa orientale e gravitava nell'orbita intellettuale tedesca, portò in qualche modo a compimento il progetto di Gratz affrontando l'epoca compresa tra la Rivoluzione francese e la distruzione dell'ebraismo europeo. Lettore attento di Taine e di Renan, Dubnov ricercò una via di mezzo tra sionismo e assimilazione. La comunità ebraica rivestì sempre per lui un carattere politico, come tante piccole «repubbliche» portatrici di tradizioni millenarie. Nonostante le posizioni dei loro autori, le opere voluminose ed erudite di Gratz e di Dubnov funsero da base alla «comunità immaginata» del sionismo, soprattutto grazie al carattere di questa storiografia. In entrambi i casi, il «metanarrativo» traccia la storia di due oggetti astorici: il popolo ebraico e il suo alter ego, l'odio per gli ebrei. Due fenomeni che costituiscono delle costanti nella Storia e intorno ai quali tutto cambia o si trasforma, tranne gli ebrei e l'odio che li bersaglia. Nella sua versione sionista, il popolo eterno, che ha lasciato la sua patria storica, ha il diritto e il dovere di ridiventare politico, vale a dire una nazione, e di fondare sulla terra dei suoi avi uno Stato «all'europea». Le prime frasi della Dichiarazione d'indipendenza dello Stato d'Israele, stilata tra l'aprile e il maggio 1948, esprimono con chiarezza questo principio. «In Erez Israel (Terra d'Israele) è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica. qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali di portata nazionale e universale e ha dato al mondo l'eterno Libro dei Libri. Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno alla sua terra e nel ripristino in essa della libertà politica. Spinti da questo attaccamento storico e tradizionale, gli ebrei aspirarono in ogni successiva generazione a tornare e stabilirsi nella loro antica patria». Il carattere astorico è palese. Su questa infrastruttura la comunità nazionale ebraica in Palestina (l'Yishuv) costruì, sull'esempio degli Stati-nazione europei, suoi modelli, una sovrastruttura in grado di contribuire all'edificazione del progetto nazionale e dei suoi eroi. I rapporti con gli altri abitanti di questa terra (i futuri palestinesi), con gli ebrei della diaspora che non avevano scelto la soluzione sionista e con la religione ebraica, saranno i pilastri della nuova produzione delle rappresentazioni del passato. Nel 1927, due anni dopo l'inaugurazione dell'Università ebraica, vengono intrapresi i primi scavi archeologici: si instaura una nuova scienza del passato, acquisendo grande prestigio. I Sukenik, padre e figlio, sono gli archeologi più famosi. Il primo diresse i primi scavi, e al secondo, Yigael Yadin (Sukenik), si debbono le scoperte più sensazionali a Masada e a Qumran (i famosi manoscritti del Mar Morto). Nel frattempo, Sukenik figlio è stato il secondo capo di stato maggiore dell'esercito: i professionisti del passato sono molto presenti ai vertici dell'Yishuv e dello Stato. Nel giro di 30 anni, gli archeolo­gi sionisti riuscirono a elaborare una versione nazionale, scientifica, laica ed eroica della Bibbia, ponendo l'accento sugli aspetti «nazionali» dell'esistenza ebraica in epoca biblica. Nel quadro della Rivoluzione sionista, l'accesso diretto alla Bibbia è stato un elemento chiave per plasmare il passato. Vivendo nella stessa terra, parlando la stessa lingua, i «nuovi ebrei» erano in grado di cortocircuitare secoli e secoli di esistenza «non nazionale» nella diaspora, dando vita così a una continuità tra le due epoche politiche del popolo ebraico. I sionisti laici erano convinti di poter addomesticare le Sacre Scritture, ma la Bibbia acquisirà diritto di cittadinanza, e più tardi fungerà da «cavallo di Troia» al servizio degli ebrei nazionalisti e dei movimenti religiosi nazionali. Lo stesso primo ministro Ben Gurion diede l'esempio con il suo «Cerchio biblico» e con l'iniziativa da lui promossa di istituire un concorso biblico mondiale per i giovani ebrei, evento che rimane tuttora uno dei momenti forti della Festa dell'indipendenza. Le conseguenze della guerra del 1948, con la fuga della maggioranza della popolazione araba dalle regioni destinate a costituire lo Stato d’Israele e le immani ondate migratorie verso di esso, sono state integrate all'interno di questa storia. Ma l'evento per eccellenza è stato indubbiamente la Shoah. Nella rappresentazione ufficiale del passato, insegnata dal sistema scolastico, la catastrofe è diventata la prova inconfutabile dell'esattezza dell'analisi storica sionista (lo stesso Dubnov fu assassinato dai nazisti nel 1941) e lo Stato d'Israele ha monopolizzato la Shoah. Così facendo, Israele si è affermato come erede legittimo del popolo ebraico. È stato fondato un istituto nazionale dedicato alla memoria della Shoah, lo Yad vaShem, e all'inizio degli anni Cinquanta si è discusso sull'opportunità di concedere la cittadinanza israeliana postuma a tutti gli ebrei vittime dello sterminio. La memoria israeliana della Shoah ha conferito un ruolo privilegiato all'eroismo combattente, alle azioni di resistenza armata e soprattutto alla rivolta del ghetto di Varsavia, nell' aprile 1943. Il messaggio ufficiale era chiaro: la maggioranza delle vittime si sono lasciate massacrare senza opporre resistenza, come agnelli al macello. I veri eroi sono quelli che sono morti con le armi in pugno, e così l'ebreo della diaspora è stato indirettamente accusato di vigliaccheria e di disfattismo, mentre sono stati messi in rilievo i collegamenti tra i resistenti di Varsavia e i movimenti giovanili sionisti. Due kibbutz israeliani sono stati intitolati a quegli eroi: Lohamei haGhettaot (I combattenti dei ghetti) e Yad Mordechai (Monumento a Mordechai, in memoria di Mordechai Anilevich, capo dei rivolto si di Varsavia). Il ruolo degli storici di professione conserva la propria importanza nel passaggio dall'Yishuv allo Stato. Uno dei primi ministri dell'Istruzione, Ben Sion Dinur, è in questo senso un uomo dal percorso emblematico. Nato nell'Europa orientale (in Ucraina), si forma nelle scuole talmudiche prima di affrontare gli studi universitari a Berna, San Pietroburgo e Berlino. All’inizio degli anni Venti si stabilisce in Palestina e intraprende una lunga attività come docente, soprattutto nella scuola normale per insegnanti elementari da lui diretta. In parallelo porta avanti la carriera universitaria, e nel 1936 diventa professore di Storia del popolo d'Israele all'Università ebraica di Gerusalemme. Deputato tra le fila del partito di maggioranza di Ben Gu­rion, nel 1951 viene nominato ministro dell'Istruzione: è l'epoca del consolidamento e della «nazionalizzazione» del sistema scolastico, un progetto di ampio respiro che si esprime nel testo della Legge fondamentale sulla Pubblica Istruzione, approvata nel 1953. Tra i principi chiave che Dinur ha introdotto nel sistema scolastico israeliano da lui strutturato, due rivestono particolare interesse. Il primo: conoscere la terra d'Israele per stabilirvisi e radicarvisi, e questo anche tramite lo studio della Bibbia intesa come libro di storia. Il secondo è ancora più rivelatore del suo apporto di storico professionista: il principio di continuità dell'esistenza politica ebraica, che vede nel progetto sionista il ripristino dei legami con un passato di indipendenza nazionale brutalmente interrotto 20 secoli prima. Dinur non fu l'unico storico in seno al Mapai (il Partito operaio israeliano) di Ben Gurion. Anche il secondo presidente dello Stato, Itzhak Ben Zvi, era uno studioso ed è stato, fra l'altro, anche autore di una ponderosa opera storico-folclorica sugli ebrei orientali. L'interpretazione sionista della storia non differisce, in linea di massima, dalle storie insegnate in Occidente fino agli anni Sessanta o anche Settanta. Per quanto riguarda la decostruzione, la narrazione sionista l'ha subita nel corso dell’ondata di pensiero postcolonialista e piuttosto relativista che ha caratterizzato gli universitari e gli intellettuali non universitari occidentali a partire agli anni Sessanta e Settanta. Le voci discordanti. Il sionismo così come lo intendevano Ben Gurion e il Mapai è sempre stato nel mirino di un'opposizione politica e ideologica. Lo stesso progetto sionista è stato contestato in Europa dai comunisti, da coloro che hanno optato per l'assimilazione, l'integrazione e l'adesione ad altri progetti nazionali, dagli ebrei ortodossi e soprattutto dai progetti nazionali basati sullo yiddish. Tra gli intellettuali dell'Yishuv, e soprattutto tra i più celebri docenti dell'Università ebraica, come Martin Buber e Gershom Scholem, l'ideologia sionista è stata oggetto di vive critiche. Ma queste voci non sono state in grado di minacciarne seriamente l'egemonia. Buber e Scholem hanno, in qualche modo, avvantaggiato l'Università ebraica grazie alloro prestigio, senza tuttavia riuscire a imporsi come portatori di un messaggio di opposizione presso l'opinione pubblica: la stampa, i movimenti giovanili, i sindacati sionisti hanno avuto il sopravvento, e nelle facoltà di Storia e di Archeologia gli intellettuali più influenti erano docenti come Dinur e Sukenik. Tra gli anni Venti e gli anni Sessanta si è venuta strutturando la produzione delle rappresentazioni del passato. L'elemento chiave di tale struttura è l'organizzazione delle facoltà di Scienze umane. A Gerusalemme negli anni Venti e Trenta, e a Tel Aviv negli anni Sessanta, l'insegnamento della storia e la ricerca storica sono stati suddivisi tra vari dipartimenti. La storia dell'Occidente è sempre stata insegnata nel dipartimento di Storia generale, e lo è tuttora. Per la storia ebraica esiste un dipartimento di Storia del popolo d'Israele, e per il mondo arabo ce n'è uno di Storia del Medio Oriente. Perciò i dipartimenti di Storia ebraica si sono sviluppati in un mondo a sé, e non sono stati sfiorati dalle ricerche degli altri di­partimenti di studi storici se non in maniera sporadica e tardiva. Uno dei problemi principali è stato quello terminologico. Invece della parola immigrazione si è utilizzata aliya, mentre Palestina (termine geopolitico universalmente in uso prima della metà del XX secolo) è stato sostituito con Terra d'Israele, e così via. Anche gli studiosi si sono resi conto di questo problema quando hanno voluto pubblicare in lingua straniera, ma Israele si è ben presto imposto come fulcro mondiale della storia ebraica, e gli accademici potevano perseguire qui una carriera «a tenuta stagna» senza doversi confrontare con la comunità scientifica internazionale. Quanto ai loro colleghi dei dipartimenti di Storia generale, non potevano insegnare la storia ebraica né svolgere ricerche su di essa, considerata un oggetto di studio illecito per loro; il loro impegno principale consisteva nell'insegnare e pubblicare nei rispettivi ambiti, il che non lasciava molto tempo ed energie per condurre ricerche serie in altri campi. I primi attacchi sistematici all' egemonia ideologica sono giunti da un'altra direzione. I dipartimenti di Sociologia, che non erano suddivisi in compartimenti stagni di «Sociologia del popolo ebraico» e «Sociologia generale», hanno consentito agli studiosi di occuparsi della società israeliana come avrebbero fatto con qualsiasi al­tra società. I sociologi israeliani erano altresì tenuti a pubblicare in lingua in­glese ed erano strutturalmente più aperti alla ricerca internazionale. Inol­tre, attraverso i loro studi, i sociologi israeliani si sono trasformati negli storici del presente e del recente passato: negli anni Settanta nessun altro era legittimato a esprimersi in maniera scientifica sugli anni Cinquanta e Sessanta. Il tempo presente è diventato un passato scientificamente orfano. I loro oggetti di studio hanno in qualche modo costretto i sociologi a rivedere la narrazione egemonica: dinanzi a una società di immigrati e al paradigma del melting pot, alcuni sono stati indotti a porsi un certo numero di interrogativi. Infine, per varie ragioni, gli studenti arabo-israeliani erano molto più numerosi nei dipartimenti di Scienze sociali (Sociologia, Antropologia, Psi­cologia, Scienze politiche) che in quelli di Storia generale, e ancor meno numerosi in quelli di Storia ebraica. A metà degli anni Settanta Yo­nathan Shapira, sociologo che ha lavorato sulle elite politiche, è stato tra i primi ad avviare la decostruzione del discorso narrativo egemonico. Di lì a poco Shapira è stato seguito da un gruppo di sociologi della nuova università di Haifa, che nel 1978 ha varato i Quaderni di ricerca e di critica. Solo alla fine degli anni Ottanta alcuni storici di professione si uniscono a loro. Il discorso narrativo israeliano è stato seriamente attaccato nei suoi punti cardine: la responsabilità del conflitto violento, della fuga (più o meno forzata) dei palestinesi, e i rapporti di potere tra l'Yishuv e i suoi avversari palestinesi e arabi. Le ceneri del dibattito tra storici intorno alle tesi di Ernest Nolte erano ancora calde, che già i contestatori sono diventati i «nuovi storici», denominazione che relega in posizione secondaria, quasi fin all'oblio, il ruolo fondamentale dei sociologi. Nel 1989 Shabtai Tevet, giornalista, storico non di estrazione universitaria e autore di una biografia su David Ben Gurion, parte all'attacco con una serie di articoli pubblicati dal quotidiano Haaretz. Tevet dichiara guerra a oltranza contro i «Nuovi storici», che accusa di errori metodologici e di vizi ideologici. È seguito dalla storica di professione Anita Shapira, specializzata in Storia del popolo d'Israele, che diventa la figura di punta dell' «apologia sionista». La tendenza della «nuova storia», che continua ad annoverare molti sociologi (tra cui Uri Ram e Baruch Kimmerling, che rimarranno i pilastri portanti della critica al discorso narrativo sionista) , avvia un processo di istituzionalizzazione. I giovani ricercatori che avevano pubblicato le loro tesi alla fine degli anni Ottanta iniziano a poco a poco a occupare posti universitari. La nuova università di Beer Sheva, intitolata a Ben Gurion (ironia della sorte!), ne accoglie alcuni. Nel 1990 decolla una rivista, Teoria e critica, che ben presto si trasforma in luogo di sistematica decostruzione di tutto ciò che è stato considerato «egemonia». Femminismo, concetti gramsciani (tra cui quello dell' «Egemonia» e del ruolo dell'intellettuale), sociologi che criticano la strumentalizzazione degli ebrei provenienti dai Paesi arabi e musulmani: la rivista prende di mira tutti gli elementi costitutivi della narrazione fondante. Nel 1998, in occasione del cinquantesimo anniversario dello Stato d'Israele, la rivista pubblica un numero speciale dal titolo Dal '50 al '48, in cui sviluppa una versione critica della storia del sionismo e dello Stato d'Israele. I nuovi artefici di immagini del passato passano al vaglio la storia dell'immigrazione illegale degli ebrei verso la Palestina sotto il mandato britannico e la politica sionista durante la Seconda guerra mondiale e nei confronti dei sopravvissuti alla Shoah. Propongono un'interpretazione nuova e poco lusinghiera della guerra del '48 e denunciano l'espulsione dei popoli arabi. Anche l'integrazione degli ebrei orientali negli anni Cinquanta e Sessanta, la guerra di Suez nel 1956, e taluni aspetti della guerra del 1967 vengono sottoposti a nuova analisi. Spesso questa visione critica delle rappresentazioni del passato si limita a riprendere idee che circolavano già da alcuni decenni, soprattutto nella sinistra radicale, ma questa volta il pubblico è più vasto e completamente diverso. I vecchi critici appartenenti alla sinistra radicale sono stati sistematicamente delegittimati e messi alla gogna, essendo tacciati di servire gli interessi stranieri, cioè dell'Urss. Alla fine degli anni Settanta le vecchie elite, strettamente legate alla sinistra del Mapai e del Partito laburista, sono state estromesse dal potere in quella che è stata considerata una sorta di vendetta delle loro vittime: la destra revisionista di Begin sostenuta dagli immigrati ebrei dei Paesi arabi e i loro discendenti. Questa «coalizione delle vittime del Mapai» è tuttora al potere in Israele (pur reputandosi ancora all' opposizione di un Mapai mostruoso e superpotente, sorta di Opus Dei ashkenazita). Dalla fine degli anni Settanta sino a tutti gli anni Ottanta si instaura un nuovo clima politico. La guerra del Libano (dal 1982) e l'intifada (dal 1987) lacerano il vecchio elettorato della sinistra moderata e nazionale, estromessa dal potere e dal senso di egemonia culturale. Il terreno è favorevole alle tesi dei contestatori. Se è vero che l'opposizione alla politica israeliana verso gli abitanti e i cittadini arabi in Israele, che accusava lo Stato ebraico di mire espansionistiche e la cultura israeliana di militarismo, non ha trovato grande eco presso un pubblico educato dalle immagini del passato in vigore all' epoca, è anche vero che la società israeliana degli anni Ottanta e Novanta non è rimasta indifferente alle tesi della «nuova storia». Nel corso delle grandi manifestazioni del 1978 (per la pace con l'Egitto) e del 1982 (contro la guerra del Libano), i componenti delle vecchie elite sfilavano a fianco di coloro i quali manifestavano già negli anni Cinquanta e Sessanta contro la politica del Mapai. Questo ricongiungimento tra l'élite decaduta e i radicali è probabilmente all'origine dell'accoglimento delle tesi critiche da parte di certi settori della società israeliana. Gli anni di Oslo hanno allargato la fascia di opinione pubblica sensibile alle nuove immagini del passato israeliano e sionista, e per la prima volta certi elementi di una versione palestinese della Storia si sono fatti strada fra gli israeliani, soprattutto in relazione agli avvenimenti della guerra del 1948 e alle loro conseguenze. Ma le tesi critiche hanno una portata molto più ampia. Alcuni «soci fondatori» del movimento detto «nuova storia», e soprattutto i sociologi, mettono in discussione la legittimità stessa del progetto sionista e dello Stato d'Israele. Un altro «socio fondatore», Benny Morris, allarmato dall'intifada e dalle conseguenze ideologiche del suo libro Vittime, in seguito alla seconda intifada ha «voltato gabbana», sino a giustificare in blocco la guerra del 1948. L’abisso che separa quei pio­nieri è rivelatore: la «nuova storia» ha costruito la propria coerenza sull'opposizione nei confronti dei rivali piuttosto che su una prossimità di pensiero condivisa all'interno di un movimento omogeneo. Per l'opinione pubblica israeliana si tratta di un problema complesso. Da una parte, alcune critiche sono fondate ed esatte: l'esercito ha effettivamente commesso crimini di guerra e si sono indiscutibilmente verificati casi di espulsione di palestinesi (è possibile fornire esempi simili in altri ambiti: accoglienza degli ebrei provenienti dai Paesi arabi e dei sopravvissuti alla Shoah). D'altro canto, la critica fondamentale del sionismo e di Israele formulata da numerosi autori delle tesi facenti capo alla «nuova storia» li condanna all' emarginazione politica. Per gli israeliani, accogliere certe tesi respingendo però le conclusioni radicali dei loro autori, oltretutto in un contesto caratterizzato da notevole violenza e da aspre tensioni politiche, si rivela un esercizio intellettuale e culturale arduo, per non dire impossibile. La maggior parte degli israeliani informati ha accesso alle tesi critiche dei sociologi e degli storici della «nuova storia» non grazie alla lettura diretta delle opere, bensì tramite i media, che ne amplificano il carattere sensazionale e la portata politica. Le affiliazioni e le prese di posizione politiche di molti di questi autori li hanno poi screditati agli occhi di molti israeliani. Un bilancio provvisorio consentirebbe di rendersi conto che si sono aperti alcuni spiragli importanti. A più di 3° anni dalla sconfitta elettorale delle dite politiche che detenevano l'egemonia tra gli anni Venti e gli anni Sessanta, le loro versioni del passato e i loro eroi sono stati abbandonati. Il sabra, figlio primogenito della Rivoluzione sionista, è oggetto di disprezzo da parte di molti di quelli che lo volevano imitare o che erano costretti a farlo, e addirittura da parte dei suoi stessi figli. Ari Ben Canaan, l'eroe di Exodus (Paul Newman nel film tratto dal libro di Leon Uris), è morto, e i suoi figli si sentono estranei all'interno del Paese e della cultura di cui si ritenevano l'élite. Per la prima volta, però, dalla fondazione dello Stato, le tesi critiche forniscono alla società israeliana gli strumenti intellettuali necessari a tracciare un bilancio di se stessa. Si tratta soprattutto di strumenti di comparazione. Troppo a lungo il dibattito israeliano si è svolto dietro lo schermo protettivo di una terminologia a sé stante. Tutti i fenomeni della storia ebraica e israeliana erano considerati unici e incomparabili rispetto ai fenomeni della storia «generale». I «nuovi storici», che spesso sono sociologi, hanno contribuito alla storicizzazione della storia ebraica e israeliana utilizzando una terminologia meno ideologica. Questa nuova lettura del passato potrebbe forse contribuire a lasciar immaginare un futuro più normale: la memoria collettiva israeliana ha destoricizzato gli ebrei, le tesi critiche li invitano a ritornare in seno alla Storia.

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005», per gentile concessione

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