Diario

Resistere, resistere a Tor Mancina

Con i tedeschi in casa, nella tenuta alle porte di Roma si organizzò una rete di aiuti a soldati in fuga e partigiani. Il racconto di Paolo Sabbetta che non ricorda solo una cosa: come salvò 20 ragazzi da una deportazione senza ritorno

di William Beccaro

 

C’è solo una cosa che il cav. Paolo Sabbetta, 93 anni fra qualche mese, non ricorda della sua lunghissima vita: i momenti che seguirono alla sua «beffa» ai nazisti. Era il primo giugno del 1944. A quei tempi Paolo Sabbetta era un promettente giovane agronomo con una significativa esperienza nelle Colonie d'Africa e al quale era stato dato il ruolo di dirigente responsabile della vasta tenuta di Tor Mancina, 1200 ettari in località agro Monterotondo a 27 chilometri dalle porte della capitale, un'enorme area che era stata destinata all'Istituto sperimentale zootecnico di Roma. A lavorarci c'erano decine tra tecnici, allevatori e contadini che lì dimoravano con le rispettive 200 famiglie. Il 31 di maggio di 60 anni fa, i nazisti, che Tor Mancina avevano occupata nel settembre 1943, annunciarono la loro ritirata, al Sabbetta chiesero però 20 uomini che l'indomani mattina avrebbero dovuto accompagnare il viaggio delle truppe di occupazione tedesche con il compito di trasferire il maggior numero di capi dell'Istituto sperimentale da Tor Mancina fino in Germania. L’ordine, racconta preciso oggi l'anziano agronomo, era stato impartito senza neppure l'ipocrisia della menzogna: per i 20 sfortunati si trattava di un viaggio senza ritorno, gli Alleati erano alle porte di Roma e pertanto era impensabile che i venti ragazzi potessero tornare, varcando il fronte, a casa. La mattina del primo giugno, l'alba era da poco passata quando il corteo di automobili con sopra i militari nazisti entrò veloce nel cortile della tenuta agricola dell'agro Monterotondo. Paolo Sabbetta si fece loro incontro, minuto di fronte agli otto ufficiali tedeschi che, «spaventosi nelle loro divise», con gli occhi cercavano i 20 dei quali avevano ordinato la convocazione. Il poco più che trentenne Sabbetta la scena se l'era immaginata cento volte durante la notte precedente passata insonne, si era figurato ogni dettaglio e, fino a quel momento, tutto era andato come previsto. Un solo aspetto, racconta oggi, lo sorprese: poter provare così tanta paura. Non credeva, infatti, se ne potesse avere tanta quanta ne ebbe lui quando a quegli uomini che, con il loro italiano indurito dall'inflessione teutonica, gli chiedevano dov'erano i 20 giovani, rispose con dei fogli di carta, dei certificati medici falsi, sui quali era scritto a chiare lettere che i 20 ragazzi erano per quel giorno «inabili al lavoro perché malati». Impossibile che gli ufficiali nazisti non si sentissero presi in giro. L’allora giovane agronomo aveva ben calcolato quel rischio e per arginare la rabbia dei nazisti, o meglio per limitarne le conseguenze, aveva dato ordine che nessuno, oltre lui, fosse negli edifici amministrativi della tenuta di Tor Mancina all'arrivo dei militari tedeschi. Ai 20 giovani, ufficialmente malati, aveva invece ordinato di «sparire», di andarsene lontano, di nascondersi. La faccia che fecero i nazisti di fronte a quei certificati, l'espressione dei loro occhi, le loro parole, come reagirono leggendo quei fogli di carta non è dato saperlo: la cronaca di quei momenti non può che essere affidata all'immaginazione, perché l'unico testimone vivo, l'unico che quei momenti li ha vissuti, il cav. Paolo Sabbetta di quei minuti non ricorda nulla. Dalla consegna di quei falsi certificati in poi è amnesia, tabula rasa: «Forse mi colpirono», «forse la stanchezza», «forse la tensione», «sicuramente la paura». Fatto sta che l'oggi novantaduenne, allora trentaduenne, perse i sensi e quando si risvegliò si ritrovò solo nel piazzale della direzione dell'Istituto sperimentale zootecnico. «Non c'era più nessun tedesco», dice con rinnovata meraviglia Sabbetta, «se ne erano andati e avevano lasciato lì, sparsi, anche quei famosi certificati medici». Da un giro nelle stalle e nei pascoli, si scoprì che i nazisti in ritirata si erano portati via alcuni cavalli, «una perdita trascurabile», tanto più che molti tra questi, beffa nella beffa, scapparono e tornarono da soli alla tenuta di Tor Mancina. L’anziano agronomo ci tiene a fugare qualsiasi dubbio possa nascere sulla sua buona fede e, a coloro i quali a cui racconta la sua storia, fa capire che è lui il primo a indispettirsi del fatto che la sua memoria, altrimenti infallibile, «inciampi» proprio su quei momenti. Qualsiasi cosa fosse accaduta, qualsiasi umiliazione avesse subito, non si vergognerebbe a parlarne, a denunciarla, perché quelli, «i nazisti erano belve, come ormai sanno tutti, come ha dimostrato il genocidio degli ebrei: erano bestie assetate di sangue». «Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?», rispondeva così Giorgio Perlasca sul perché un italiano avesse rischiato la sua vita in terra di Ungheria, fingendosi console spagnolo, per salvare la vita a migliaia di ebrei. Quando gli si chiede cosa lo mosse a quella prova di eroismo, Paolo Sabbetta dà la stessa risposta, che poi è una domanda che suona quasi come una giustificazione: «Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?». L’ex dirigente di Tor Mancina la storia di Perlasca, per altro, ben la conosce e con malcelato orgoglio dice: «È incredibile che due italiani, nello stesso anno, seppur in contesti ben diversi, sfidarono i nazisti con dei documenti falsi, incredibile soprattutto», annota sorridente, «che entrambi l'abbiano fatta franca». Certo le storie dei due uomini sono notevolmente diverse. «Lo sono in mille aspetti», sottolinea lo stesso agronomo che non vuole assolutamente affiancare la sua «piccola vicenda», con lo «straordinario eroismo» di Perlasca. Due azioni differenti soprattutto perché quello dei certificati falsi all'Istituto sperimentale fu, non l'atto eroico di Paolo Sabbetta, ma «l'ultima azione di resistenza disarmata» di un'intera comunità: le famiglie della tenuta di Tor Mancina che, nei nove mesi di occupazione, promossero una serie interminabile di «piccole» azioni di disturbo all'esercito nazista, senza che, però, si sparasse un solo colpo. Poche ore dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, l'Istituto sperimentale zootecnico di Roma venne occupato dall'esercito tedesco. Uno dei primi atti dei nazisti fu la pubblicazione dei bandi in cui si diceva che i soldati del Regio esercito italiano che non si fossero messi a disposizione dei comandi tedeschi sarebbero stati fucilati, stessa sorte per chi nascondeva o non denunciava i disertori. Di questi «disertori» nei campi dell'Istituto dell'agro Monterotondo ne passarono tanti diretti verso i paesi e le città del nord, tanti trovarono l'ospitalità di un pasto e di una notte, qui come in tante altri parli d'Italia occupata. A Tor Mancina, però, l'agronomo trentenne aveva organizzato una vera rete di assistenza: 80 famiglie che, pur avendo i tedeschi in casa, davano cibo, un letto e le indicazioni per come proseguire verso casa. In 13 però non avevano dove andare, erano sbandati senza meta: due ufficiali e undici soldati che chiesero ospitalità. Toccò ancora una volta a Sabbetta falsificare carte e certificati e coprire i disertori che, di fatto, vennero «adottati» da una decina di famiglie che li ospitarono fino all'1 giugno del 1944, fingendoli, secondo i casi, figli, mariti o fratelli. «Non fu cosa da poco, «spiega l'ex dirigente della tenuta, «oltre al rischio della fucilazione, c'era infatti la questione del cibo, che allora era razionato, e dar da mangiare a una bocca significava bei sacrifici». Oltre a farsi carico dei «disertori», la comunità dell'Istituto sperimentale zootecnico di Roma si organizzò per «sfamare» i partigiani e gli Alleati, soprattutto paracadutisti, che vennero sorpresi dall'inverno nei boschi dell'agro Monterotondo. Complici i mungitori, Sabbetta segnalò sulle carte un calo della produzione di latte, che, preziosissimo, venne distribuito tra coloro che si erano nascosti nella vasta tenuta di Tor Mancina. «Poi», racconta snocciolando fatti, cifre e date, l'anziano agronomo, «sabotammo i macchinari, li rendemmo inservibili e nascondemmo i pezzi di ricambio». «Non potendo combattere i nazisti con le armi, che non avevamo», continua con naturalezza, «decidemmo di render loro la vita difficile». Vennero costruiti doppi muri e nelle intercapedini fu nascosto tutto quello che rischiava di essere portato via dai tedeschi o venir loro utile. Un continuo lento stillicidio di «piccole azioni» di «quotidiano sabotaggio». «Atti di eroismo che, per quanto modesti, se scoperti, avrebbero provocato azioni di rappresaglia, quasi sicuramente delle fucilazioni». Lo precisa, lo ripete Sabbetta, per far capire che «non si trattava di incoscienza, tutti lo avevano calcolato, tutti sapevano che ci si poteva rimettere la vita». Il pericolo era così evidente che dell'intera comunità di Tor Mancina, vale a dire 200 famiglie, solo 80 furono i valorosi che, insieme all' oggi novantaduenne cavaliere al merito della Repubblica italiana, promossero quegli episodi di «resistenza disarmata». Paolo Sabbetta, da sempre, ha il vizio della memoria. Oggi vive in uno dei quartieri nati intorno a Foggia negli anni Sessanta e che poi la città, estendendosi, ha assorbito. Una delle stanze della sua casa è adibita a studio, ma in realtà sarebbe meglio dire ad archivio, e qui sono conservati i diari che da sempre il cav. Sabbetta compila. Migliaia di pagine manoscritte dove tutto è segnato, annotato, ricordato. Di quegli «80 valorosi», per esempio, l'anziano agronomo ha compilato dettagliatissime schede dove sono segnalati nome, cognome, mansione che ricoprivano e le azioni eroiche che compirono. Tutto con certosina precisione. Il cruccio del novantaduenne Sabbetta è, strano a dirsi, la sua onorificenza al merito, ottenuta durante il settennato del presidente Oscar Luigi Scalfaro per l'eroismo dimostrato. «Perché solo io?» chiede l'ex agronomo. «lo non feci nulla di più o di meno degli altri!», dice seccato. Così da quando è cavaliere della Repubblica italiana la sua principale occupazione è quella di cercare di «dare lo stesso riconoscimento anche agli altri 80 valorosi» e di far «certificare e valorizzare gli atti di resistenza disarmata compiuti a Tor Mancina e, probabilmente, anche in altre parti d'Italia». «Non è la stupida testardaggine di un vecchio», dice duro, «la nostra storia deve rimanere perché può essere d'esempio per le prossime generazioni». Ed è proprio nei giovani che confida: da alcuni anni l'anziano agronomo, la sua vicenda, quella della «resistenza disarmata di Tor Mancina», la sta portando nelle scuole. Ha battuto quasi tutte quelle di Foggia e ora ha cominciato a fare le sue speciali lezioni nel resto della Puglia. Incontra però solo gli studenti delle ultime classi degli istituti superiori, lì dove ad ascoltarlo sono maggiorenni, diciottenni e diciannovenni ai quali, finito il suo racconto, chiede di firmare una petizione affinché sia riconosciuto il valore della «resistenza disarmata al nazismo» e sia data onorificenza al merito anche agli «altri 80 eroi». All'inizio gli incontri che faceva non si contavano e così le firme per la petizione, poi c'è stata un'improvvisa frenata quest'anno. «Non sono finite le scuole dove andare, ma è calata la disponibilità, «racconta infastidito Sabbetta e continua con la solita didascalica precisione, «pare sia colpa del Pof, il piano dell'offerta formativa, un prodotto burocratico nato dalla riforma Moratti». In pratica a presidi e docenti viene chiesto di programmare iniziative, per esempio le «conferenze sulla Resistenza disarmata», con un buon anno di anticipo. «Se ne parla forse per il prossimo, mi dicono, «racconta rabbuiato Sabbetta, «vale a dire quando avrò quasi 94 anni. D'altra parte si sa che la storia che vado a raccontare riguarda un periodo praticamente non toccato nei programmi delle scuole e la buona memoria non è virtù di moda in questi ultimi tempi».

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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