Diario

Il buon traditore

Hans Deichmann capitò ad Auschwitz come manager del IgFarben. Partecipò alla resistenza contro Hitler e Mussolini, poi fu disgustato dall’occupazione americana in Germania. Così lo ricorda suo figlio

di Mattias Deichmann

 

Nel febbraio-marzo 1941 la Ig­Farben, massima industria chimica tedesca e una delle più grandi del mondo, con circa 300 mila dipendenti, aveva avviato la costruzione di un enorme impianto di produzione di propellenti e di combustibili ad Auschwitz-Monowitz per scopi bellici, con grande impegno del regime nazista, nonché della direzione aziendale - nella speranza di grandi profitti. Il vero problema, per i nazisti, era la disponibilità di manodopera: dei lavoratori polacchi ci si fidava poco, i «volontari» belgi, olandesi, erano insufficienti, i «forzati» del vicino campo di concentramento non mostravano rilevanti energie - oltre a essere il campo sottoposto ad altra autorità nazista: non dipendeva da Goering, bensì da Himmler, capo di Ss e Gestapo. Il 16 marzo 1942 arrivava in treno alla stazione di Auschwitz un uomo di 34 anni, tedesco, incaricato dall'azienda e dal plenipotenziario per l'industria chimica - il famigerato professor Krauch - di gestire rapporti contrattuali con una serie di imprese dell'italiana Federazione fascista imprenditori edili per la collaborazione alla costruzione del mega impianto. «Quando mi calai giù dal treno ­ il marciapiede non c'era, c'erano solo binari - mi accolse un'atmosfera che a me, renano, sembrò siberiana. Lasciai la stazione, simile a una stalla, e, come d'intesa, trovai ad attendermi l'auto della IgFarben che avrebbe dovuto portarmi al cantiere. La strada per il cantiere, circa cinque chilometri, era una via di campagna, non asfaltata. L’autista mi assicurò che sarebbe ben presto cambiato: come potevo notare, numerose squadre erano già al lavoro. Non avevo mai visto una cosa del genere: gruppi di detenuti in divisa a strisce da carcerato, la maggior parte con la stella gialla degli ebrei, poi Ss di guardia e, inconfondibili, i kapò. Vidi uno di loro picchiare i detenuti. I carcerati erano come esseri dell'altro mondo: assenti, dolorosamente rassegnati al loro destino, la paura del peggio negli occhi. Il silenzio era spettrale: si sentiva solo il rumore degli attrezzi. Il mio autista si comportava come se tutto ciò fosse qualcosa di abituale; rispondeva però solo con cautela alle mie domande e infine si limitò a un cenno del capo allorché, indicando un camino che fumava in lontananza, gli chiesi se quello fosse un crematorio». Quel giovane era Hans Deichmann. Nato nel 1907, secondo figlio di una famiglia altoborghese, ebbe la prima formazione profondamente liberale dalla madre democratica, e più avanti dalla famiglia Schwarzwald a Vienna: soprattutto lei, Fraudoktor, ebrea progressista, pioniera della formazione culturale femminile, aveva riunito intorno a sé un gruppo di giovani e di intellettuali, che d'estate frequentavano la casa di Grundelsee: l'architetto Adolf Loos, il pianista Rudolf Serkin e altri amici coetanei come il pittore Rolf Brandt. Successivamente gli Schwarzwald furono costretti a emigrare, con l'Anschluss dell'Austria, e morirono in esilio. Hans, dopo il fallimento della banca di famiglia, finì gli studi di legge, si impiegò come apprendista commerciale alla IgFarben, e si sposò nel 1934 a Parigi con Dickie, pupilla degli Schwarzwald. Due anni prima, Freya, sorella minore di Hans, sposava un altro «allievo» degli Schwarzwald, Helmut James von Moltke, più tardi fondatore del Kreisauer Kreis, tra i gruppi più significativi della resistenza tedesca al nazismo. Entrato alla IgFarben, Hans divenne presto, grazie a qualche conoscenza linguistica appresa in anni giovanili, procuratore per il mercato italiano. E, essendo riuscito a evitare l'arruolamento nell'esercito, addetto civile per l'Italia del plenipotenziario per l'industria chimica bellica tedesca. Vivendo dal 1942 al 1945 tra Roma e Milano, e godendo anche di tutte le bellezze che l'Italia offriva in quegli anni. Dall'Italia tornò più volte ad Auschwitz, anche per cercare di garantire ai «lavoratori» italiani un minimo di dignità esistenziale, per esempio cercando di fare arrivare partite di spaghetti da casa. «Le baracche in cui alloggiavano gli italiani si trovavano su una collinetta dalla quale si poteva vedere, da un lato, il gigantesco cantiere e dall'altro il campo di sterminio, come un inferno a portata di mano. I lavoratori italiani sapevano raccontare, su questo inferno, più particolari dei miei interlocutori tedeschi, perché loro, come me, volevano sapere e non avevano alcun bisogno di nascondere qualcosa». Progressivamente, i «lavoratori» diventavano sempre più «forzati»: il 22 febbraio 1944 arrivò ancora un treno con 500 prigionieri italiani, in massima parte ebrei, raccolti nelle prigioni e nei campi ci concentramento della Repubblica di Salò. Novantasei vennero giudicati abili al lavoro, e avviati allo stabilimento IgFarben; tra loro un ventiquattrenne chimico di nome Primo Levi. Hans Deichmann e Primo Levi non si incontrarono mai, né allora né dopo. Si sarebbero probabilmente intesi con uno sguardo: «Nel cantiere mi trovai di fronte, sui gradini di cemento grezzo di una scalinata ancora incompleta, due con la stella gialla degli ebrei che portavano sulle spalle una pesante trave. Senza pensarci mi scansai per lasciarli passare. Loro si bloccarono guardandomi sgomenti, la paura dipinta in faccia: dietro quel gesto ormai dimenticato di riguardo si sarebbe potuta celare chissà quale malvagità. I loro sguardi non li dimenticherò mai». Le visite ad Auschwitz - in tutto nove, prima della fine della guerra, senza poter mai vedere da vicino il vero e proprio campo di concentramento - lo convinsero a diventare un traditore: «Tradire i nazisti voleva dire non tradire i nostri ideali di libertà e giustizia», anche se questo significava provocare centinaia o migliaia di morti tra i suoi connazionali, ma nella speranza di provocare una fine anticipata della guerra nazista, con centinaia di migliaia di morti di meno (dubbio etico che gli rimase fino alla fine). Come il caso della base di Peenemuende: «Paura del mio informatore (un responsabile di Auschwitz/Monowitz, ndr), quando mi parlò dell'avvio a Peenemuende della produzione della V1, l'arma miracolosa di Hitler, cioè i primi missili a lungo raggio, e paura anche della mia immediata decisione di trasmettere al più presto questa notizia in Inghilterra, tramite il Vaticano. Non c'era che una cosa da fare: dare il mio contributo a che la disfatta dei nazisti fosse quanto più rapida possibile, impedendo che la guerra fosse prolungata grazie ad "armi miracolose" e simili». Una nobildonna romana, un «monsignore» del Vaticano, un messaggio di ritorno («la valigia è stata vuotata»), ed era fatto - salvo che il monsignore, finita la guerra, ebbe a dire che non ricordava proprio niente, e probabilmente si era trattato di un malinteso! Come tanti altri casi della sua attività con la Resistenza, con Giustizia e Libertà: cose rilevanti, nell'impedire ­ inventando e boicottando un censimento - la deportazione in campi di lavoro (1) dell'intera popolazione maschile di Roma dopo l'attentato di via Rasella, nel trasmettere ai partigiani e agli alleati l'elenco dei ponti ricostruiti - e che curiosamente subivano nuovi attentati o bombardamenti il giorno dopo -, e cose più «divertenti», come portar via da una casa di noti antifascisti milanesi - l'architetto Giuseppe (Bepi) De Finetti, allievo e amico di Loos - partigiani ricercati, grazie a un portone secondario e alla macchina di servizio... tedesca. Dopo il 25 aprile, protetto, assistito, accompagnato dagli amici di Giustizia e Libertà (che temevano per la sua incolumità di tedesco), volle tornare in patria. Il viaggio fu difficile, iniziato con una bicicletta del Clnai, fermato in un campo di concentramento a Bolzano, proseguito con mezzi di fortuna e clandestinità su carri merci; l'impatto con il Paese, peggio. In una lettera/rapporto agli amici, con data 29 settembre 1945, scrive tra l'altro: «Finora gli americani hanno gravemente deluso le attese che erano state riposte in loro. Tutto quanto vado ora a riferire non deve dare l'impressione che i miei amici e io vogliamo formulare un giudizio definitivo sugli americani e sui loro metodi. Nemmeno per un attimo dimentichiamo a chi dobbiamo l'abisso in cui ci troviamo, ma siamo addolorati che si disperdano tanti beni preziosi, materiali e spirituali, che si trasformi volontariamente tanto credito in discredito, che la nostra stessa malattia abbia talmente contagiato il resto del mondo. Gli americani che oggi "regnano" da noi, li ho battezzati the nazis from overseas. Sono ingenui, diffidenti, paurosi, privi di pensiero, spesso brutali e sempre imprevedibili (perciò talvolta anche disponibili ad aiutare). Il peggio sono i campi di prigionia. Grazie al cielo sembrano finalmente cessati gli eccessi dei primi tempi, con l'intervento di alcuni tedeschi che per circostanze fortunate sono riusciti a farsi ascoltare, in particolare le chiese cattolica ed evangelica. In questi campi si maltrattava e torturava a morte. I lazzaretti (a.e. quello nella nostra cittadina) sono pieni di soldati rilasciati dai campi in stato di totale de­nutrizione, molti sono morti di fame nei campi. «La Convenzione di Ginevra è un ricordo da libri di scuola ingialliti. Ci sono in proposito rapporti precisi, amici miei hanno interrogato persone affidabili che venivano da questi campi. Ne ho parlato con prigionieri italiani venuti come lavoratori forzati, con gli americani, dall'Africa attraverso la Francia fino in Germania, e riferiscono come già in Africa la Convenzione di Ginevra fosse ignorata. Anche là il metodo preferito pare fosse il far morire di fame. Indipendentemente dalla disumanità in sé, si possono immaginare gli effetti di questi orrori sulla popolazione, in particolare quella di orientamento nazista: "Ci accusano per i campi di concentramento, ma gli americani fanno esattamente la stessa cosa". Opporsi a questi argomenti e ricordare sempre le dimensioni dei delitti nazisti, è compito quotidiano, e difficile.(...) Inutile dire che gli inglesi sono ben lontani dal comportarsi in modo analogo; tutti i prigionieri che vengono dai campi inglesi lodano il trattamento certo severo, ma assolutamente corretto e umano. Anche dai campi russi non si hanno notizie negative». Ancora, sul tema fondamentale per la Germania del dopoguerra della denazificazione: «Al centro dell'interesse, sia da parte americana che da parte tedesca, c'è oggi la denazificazione. Sarebbe prematuro dare su questo, oggi, un giudizio almeno tendenzialmente definitivo. Nei primi mesi gli americani non hanno fatto praticamente nulla, ma da metà luglio sono diventati vieppiù radicali: ormai la regola è che chi ha avuto posizioni rilevanti nell'amministrazione o nell'economia prima del 1.5.1937, deve scomparire. I licenziamenti sono in corso, in pieno corso. Inoltre, viene licenziato chiunque sia stato in qualsiasi forma attivista, e questa decisione si estende - per fortuna - ai non membri del partito nazista. Mi sto occupando attivamente di questo problema, e da una istituzione americana (anche se non decisiva) mi è stato richiesto un memorandum in proposito». «Per quanto riguarda arti, scienze e formazione, molti tentativi sono in corso, ma nulla si può ancora dire al di là della riapertura delle scuole elementari e dell'organizzazione di qualche concerto». Per il resto «abbiamo sempre la spada di Damocle che le raccolte dei Musei siano considerate parte di restituzione dei danni di guerra». Ancora, sui connazionali: «Per quanto riguarda l'atteggiamento mentale dei tedeschi, l'impressione è prevedibilmente negativa. Come dicevo, la mentalità nazista è tutt'ora molto viva: purtroppo, visione del mondo nazista e relative prese di posizione sono rafforzate da quello che accade in questo momento. Da parte degli americani, la scelta dei tedeschi da mettere in posizioni amministrative rilevanti, avviene solo in negativo: non appartenenza al partito, non attivisti, non della classe degli Junker. Unici elementi positivi il transito da campi di concentramento o un passato da "vittime del nazismo" , non importa per quale motivo. La gente che oggi occupa le posizioni di governo è tutta del periodo prenazista, e troppo vecchia: il primo ictus trova posto nel documento di abilitazione...». Fin dai primi momenti, i motivi di una terribile delusione. Hans Deichmann tornava in Germania con la speranza di una ricostruzione democratica, giusta, liberale nel senso profondo. Una Germania nuova, parte di un'Europa nuova nel senso inteso dal cognato Helmut James von Molt­ke (1), una Germania assolutamente non prenazista, ma capace di mettere la propria grande cultura al servizio di un mondo nuovo, europeo, ma ancora più: profondamente cosmopolita; questo era il suo sogno. Sogno che tentò di realizzare. Creò, insieme a Willy Hartner, professore di Storia delle scienze e di Sinologia, amico intimo dai primi anni della guerra, il Forum Academicum, progetto di rivitalizzazione democratica dell'Università di Francoforte, avviato con enormi difficoltà, dai cartoni alle finestre alle candele. «Era un ciclo di conferenze e di discussioni durato tre inverni, sui temi del recente passato e del futuro da costruire. Nonostante l'assenza di riscaldamento c'erano sempre dalla 500 alle 700 persone». Lavorò a una radio sotto controllo americano, fu presidente di un tribunale periferico di denazificazione (Spruchkammer) in cui condannò esponenti noti del mondo economico, salvo poi vederseli sistematicamente assolvere in appello di Francoforte. Tutto inutile. Non c'era spazio nella Germania di allora - e Hans Deichmann cercò spazi nel mondo europeo degli anni successivi - per un mondo in cui potessero vivere il liberalismo vero, la giustizia, il rispetto per l'individuo a qualunque classe, razza, partito appartenessero. La Germania dei primi anni del dopoguerra era sotto il controllo degli americani, con il semplicismo della loro democrazia, alleati con i prenazisti, avversari di qualsiasi vero progresso etico, sociale e civile. Ricostruire voleva dire restaurare. (La restaurazione tedesca tentò perfino di attribuire a Hans Deichmann un ruolo di partecipazione al nazismo; si cercò di arrivare al processo: l'accusa crollò, ma contribuì alla nausea di Hans). Così, tre anni dopo il difficile ritorno in Germania, Hans Deichmann decise di accettare la proposta di amici italiani di fondare con loro una società per la importazione e vendita di prodotti chimici della ormai ex-IgFarben in Italia. Decise di trasferire l'intera famiglia e di fare - l'espressione è sua - il "lurido commerciate". L'Italia diventò così la seconda, amata, patria. In momenti di confidenza, si definiva «profugo da Adenauer», da quella schifosa commistione tra vecchi collaborazionisti del nazismo e vincitori occupanti, ignoranti e arroganti. Intelligente, capace, abile nelle relazioni guidò al successo la nuova società, ma non dimenticò mai il proprio percorso, non dimenticò mai i propri dubbi («forse non ho fatto abbastanza, forse ho pensato troppo alla mia pelle»). Ebbe per questo, non certo per protagonismo, la capacità di raccontare la propria storia: cominciò a scrivere, richiesto da amici, dopo essere andato in pensione. Storicamente preciso, anche sulla base dei taccuini che aveva sempre conservato. Scrisse in un tedesco, amata lingua madre, straordinario, ironico, sempre efficace; con traduzioni italiane non sempre altrettanto precise. Gli rimase qualche marginale difficoltà con la lingua: non volle mai convincersi che in italiano «volpe» era, al contrario del tedesco Fuchs, femminile; ha sempre detto «il volpe». Volle aiutare, stando in disparte, persone e movimenti - alla fine soprattutto comunisti - che in qualche modo con la sua storia avevano a che fare. Sviluppo eco compatibile, formazione dei giovani, dignità sociale di tutti, musica - quella musica che non cessò mai di amare -, per tutto questo Hans Deichmann creò anche una fondazione che non casualmente non porta il suo nome. Nel 1996, a seguito della pubblicazione del suo libro di ricordi Gegenstaende/Oggetti, Scheiwiller) gli venne conferito a Monaco di Baviera il premio Scholl/Rosa Bianca: nell'aula magna dell'università, presenti autorità di ogni tipo, a quasi novant'anni, riuscì a dare ancora risposte taglienti, spiazzanti. Ancora «fuori dal quadro», non omologabile a festeggiamenti ufficiali, al «potere». Nella totale pretesa di considerazione del proprio percorso - da individualista e liberale assoluto - Hans Deichmann ha sempre avuto il massimo rispetto e affetto per tutti quelli che hanno fatto un percorso in qualche modo parallelo al suo, partendo da posizioni anche profondamente diverse. E loro l'ebbero per lui. Avrebbe potuto fare sua una massima di Montesquieu: «Se conoscessi qualcosa che desse vantaggio a me, ma detrimento alla mia famiglia, me lo scaccerei dalla testa. Se conoscessi qualcosa che desse vantaggio a me e alla mia famiglia, ma fosse di detrimento alla mia patria, lo vorrei dimenticare. Se conoscessi qualcosa che fosse di vantaggio a me e alla mia patria, ma di detrimento all'Europa, o di vantaggio anche all'Europa ma a danno dell'umanità, lo disprezzerei come un delitto».

Note finali

Informazioni, date, citazioni, sono tratte ovviamente da ricordi personali - i rari racconti di un padre a un figlio, e i quasi clandestini ascolti del figlio stesso, curioso, i racconti di mia madre e di mia zia Freya von Moltke; da carte dell'archivio personale di Hans Deichmann, spesso in versione bilingue (tedesco e italiano); «Gegenstaende/Oggetti», Scheiwiller, 1995 (edizione bilingue); «Monowitz-Ein Tatort» Hessischer Rundfunk, 2001 (documentario televisivo costruito attorno anche a un'ampia intervista con Hans Deichmann).

(1) Esiste un'ampia bibliografia in proposito; recentemente, e per ora disponibile solo in tedesco, è uscito Karl Heinz Roth/Angelika Ebbinghaus, «Rote Kapellen-Kreisauer Kreise - Schwarze Kapellen» (Vsa Hamburg 2004), libro importante dedicato a Hans Deichmann.

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da «Diario del mese», 21 gennaio 2005, per gentile concessione

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